Asturias

Miguel Ángel Asturias: leggenda del Guatemala / 2

redazione Interviste, SUR

AsturiasPubblichiamo oggi la seconda parte di un approfondimento a cura di Liliana Viola sul Premio Nobel guatemalteco Miguel Ángel Asturias, con una testimonianza del figlio Miguel Ángel. Potete leggere la prima parte qui.

«Leggenda del Guatemala» / 2
di Liliana Viola
traduzione di Barbara Turitto

La Francia, l’altra seconda patria, che gli riserva un trattamento da autore nazionale, gli offre una tomba presso Père Lachaise, il cimitero monumentale che, come eterna attrazione turistica, ospita da Jim Morrison a Edith Piaf passando per Molière. Molti, soprattutto guatemaltechi, rimproverano ad Asturias di aver scelto la Francia e aver finito per aggiudicarsi uno status europeo dopo una vita dedicata a trasformare in letteratura la verità maya.

«Eppure questo è un grande errore. Non aveva lasciato niente di scritto, la decisione fu della famiglia e in particolare mia», racconta il figlio. «Cercammo di pensare a cosa avrebbe scelto lui. La Spagna e il Guatemala erano sotto la dittatura, e mio padre era sempre stato contrario alle dittature. La Francia, che lui amava, offriva gratuitamente quel posto. Le sue spoglie furono trasportate a Parigi in un aereo concesso dal governo messicano, altra terra importante dove conobbe Valle Inclán e José Vasconcelos e dove mio fratello visse in esilio. Ricordo che, saliti sull’aereo, sentimmo la voce del presidente Echeverría, che aveva registrato un messaggio di cordoglio in nome di tutto il popolo messicano».

LV: Non ci fu modo di chiedergli quali fossero le sue volontà?

MAA: Non appena arrivato in clinica, mi fecero entrare in una sala dove i medici mi mostrarono gli esami, che evidenziavano la presenza di metastasi praticamente in tutti gli organi. Mi chiesero l’autorizzazione per operarlo e io dissi loro di applicare tutte le loro conoscenze mediche per farlo soffrire il meno possibile. E così fu, non lo operarono. Quando andai a trovarlo nella sua stanza, mi chiese assai meravigliato cosa facessi a Madrid. E io, altrettanto meravigliato ma soprattutto triste di vederlo così, lui che era stato tanto grasso e corpulento, e ora era così magro, gli dissi che ero lì per lavoro. «Allora rimani, che tra qualche giorno esco di qui e ce ne andiamo insieme», mi rispose contento. Rifiutò sempre l’idea della morte, l’aveva rifiutata da quando, un anno prima, aveva ricevuto la diagnosi, e non smise mai di viaggiare per il mondo a tenere conferenze. Di fatto, lo avevano ricoverato già diverse volte, e all’epoca si trovava a Madrid di passaggio di ritorno da Siviglia, dove aveva assistito a un congresso su Bartolomé de las Casas.

LV: Rifiutò la morte, ma non rifiutò il Guatemala.

MAA; Chiaramente no, lo si può vedere nelle sue grandi opere, e lo si evince dai libri e dagli studi che lo riguardano. Io però posso fornirti i dettagli. Mio padre, che poteva permettersi di essere assistito dai medici migliori, non consentì mai a nessuno di toccarlo senza aver prima consultato il suo “medicuccio”, come lo chiamava lui. Era un suo amico medico, anche lui in esilio, e del quale si fidava più di chiunque altro perché era un suo compatriota. E mi ricordo di un gesto in ospedale, in uno di quei momenti di andirivieni di medici e infermieri: quando se ne andavano, mio padre, assai dolorante ma sempre cortese, salutava ponendo il pollice tra l’indice e l’anulare, gesto che in Guatemala equivale a un grave insulto. Se la rideva molto con noi pochi intenditori presenti. Era la sua vendetta guatemalteca.

LV: In quei momenti l’altro figlio, Rodrigo Asturias, stava combattendo sulle montagne.

MAA: Mio fratello rimase in guerra quasi trent’anni, partì nel 1971 dopo essersene già andato a Parigi un anno prima, senza che mio padre lo sapesse. Per un certo tempo continuò a credere che Rodrigo fosse ancora direttore della casa editrice Siglo XXI. Era comandante guerrigliero della ORPA (Organización del Pueblo en Armas). Logicamente era isolato, e quindi io non potevo chiedergli consigli né avvisarlo di nulla.

LV: Come venne a conoscenza suo fratello della morte del padre?

MAA: Rodrigo aveva adottato il nome di Gaspar Ilom, l’indigeno ribelle liberatore del Guatemala di Uomini di mais, il romanzo più caro a mio padre e quello più votato all’espressione del pensiero indigeno. E anni dopo, quando mio nipote Santino, il figlio di Rodrigo, crebbe e decise di seguire suo padre sulle montagne, adottò il nome del personaggio figlio di Gaspar. Noi lo abbiamo sempre saputo, perché una volta mio fratello mandò a mio padre una lettera scritta di suo pugno in cui diceva: «Papà, gli uomini di mais sono diventati guerriglieri», e firmava Gaspar Ilom. Immagina l’ignoranza di quei militari che mai sospettarono di una relazione tra il loro comandante con quel nome e il figlio di mio padre. Anni fa, presso la camera ardente di mio fratello, mi si avvicinò un uomo alla buona, di montagna, e mi disse che voleva raccontarmi una cosa: «Il giorno in cui morì suo padre io lo seppi dalla radio e allora chiesi il permesso di vedere il comandante, perché ero certo che il comandante Ilom doveva essere il figlio di Asturias. Entrai nella tenda e gli dissi: Comandante Gaspar, voglio comunicarle che è morto Miguel Ángel Asturias. Lui mi guardò, io vidi che gli si riempirono gli occhi di lacrime e mi disse soltanto: Può andare. Dopo un po’ uscì dalla tenda, riunì tutti e ci diede gli ordini come sempre».

LV: La dittatura guatemalteca accettò pacificamente che non fosse sepolto in patria?

MAA: Spiegai loro che non c’erano le condizioni perché un governo che stava assassinando il popolo avesse l’onore di avere con sé Miguel Ángel Asturias. Dato il caso, perché non si dicesse che era il governo a non consentire il suo ritorno, chiesero che fossi io stesso a comunicare la mia decisione sul canale nazionale. Anni dopo, mio fratello mi raccontò che aveva sentito alla radio che avrei dovuto decidere io e che pensò: Sicuramente Miguelito lo riporta in Guatemala. Ma quando ascoltò le mie parole mi disse: «Mi sentii di nuovo molto unito a te».

Asturias aveva un motto decifrabile in termini letterari, di cultura maya e persino politici: «Dentro la parola tutto, fuori della parola niente». Il cammino della violenza gli pareva inutile e pericoloso, certamente anche un attentato al suo spirito di bon viveur, il che non lo rendeva meno risoluto. Asturias si mise in gioco come diplomatico per la causa più coraggiosa della storia del Guatemala. Fu funzionario del governo di Jacobo Arbenz, grande personalità guatemalteca, precursore di tutte le rivoluzioni sociali possibili e impossibili, l’eroe che impone la riforma agraria e ottiene un’alba di democrazia negli anni Cinquanta. Con lui, il Guatemala diventa non soltanto il primo tentativo di rivoluzione (non violenta) ma anche il primo paese latinoamericano assoggettato e bombardato dagli Stati Uniti. Accusato di essere comunista e inseguito dalla CIA, Arbenz deve abbandonare il suo progetto letteralmente “allo scoperto”, obbligato a denudarsi in aeroporto davanti ai flash dei giornalisti che ne stavano testimoniando l’esilio. Asturias, spogliato della sua cittadinanza, torna in Argentina dove resta otto anni per andarsene di corsa nel 1962 quando, la stessa notte del colpo di stato che rovesciò Frondizi, gli scagnozzi del vice Guido ordinano l’arresto degli intellettuali di sinistra. Resta in libertà, anche grazie a una lettera aperta di Sabato, in cui avvertiva: «In futuro non si parlerà di chi arrestò Asturias, bensì del fatto che Asturias sia stato arrestato in Argentina».

MAA: Credo che se qualcosa gli facesse paura era proprio la polizia. Da quando era nato, aveva vissuto fino ai vent’anni sotto la dittatura di Estrada Cabrera, il dittatore del Signor presidente. Ricordo che quando lo stavano cercando qui per arrestarlo, si era nascosto in una delle stanze e alla fine lo scovarono. Quando il commissario lo derise per essere scappato, gli rispose: «Be’, se i cani hanno paura alla vista di uno stivale, come si fa a non averne degli umani». In Argentina non tornò più.

La famiglia Asturias

L’ingegnere Miguel Ángel Asturias Amado, che vive in Argentina dal 1958, si è fatto una vita al di fuori delle scelte generazionali di suo padre e di suo fratello. Oggi, forse per effetto dei tempi che hanno trasformato gli scontri in globalizzazione, fa parte del Comitato per il centenario di Jacobo Arbenz, un’organizzazione fondata da donne e uomini del Guatemala allo scopo di denunciare le condizioni di ingiustizia in cui riversa il paese, la cui crudeltà resta quella del secolo scorso. Nel suo ufficio ha un kit di sopravvivenza (il caffè migliore, cioccolato, rum e la canzone «Luna de Xelaju», beni di più semplice trasloco rispetto a vulcani in eruzione e una primavera che dura tutto l’anno) assieme a una cartella con documenti, oggetti e libri di Asturias, che funge, senza tante altre spiegazioni, da biografia 3D. Lo scrittore fu ritratto e caricaturizzato da artisti dell’epoca come Castagnino, Xul Solar, Toño Salazar, le copertine delle successive edizioni del Signor presidente superano il centinaio e le oltre 300 foto in cui Asturias compare testimoniano la vita politica e mondana del XX secolo: negli anni Venti si trova nella Parigi del Surrealismo; negli anni Trenta a Madrid quando ha inizio la Repubblica; è in Bolivia nel 1952 su invito di Paz Estenssoro per celebrare la rivoluzione; nel 1960 all’Havana con Fidel; in Cina durante la Campagna dei cento fiori di Mao; nel 1973 è a colloquio con Perón a sostegno del suo ritorno. Quasi trasformato in un papa laico dopo il Nobel, compare con gli astronauti dell’Apollo 11 o con Paolo VI; con l’amico De Gaulle; è presidente della giuria del Festival di Cannes (uno scrittore non era mai stato convocato). La sua voce risuona in lontananza simile a quelle di Carpentier, Uslar Pietri, Alberti, Neruda, da una buona quantità di dischi (allora i longplay registrati dagli scrittori erano una hit) e, a distanza di tempo, quel che rendeva la sua scrittura più illeggibile diventa oggi più strano e interessante. Fuori dal gusto e dalle convenzioni dell’epoca, Asturias consente di essere letto oggi come un filone. Se il magico, il surrealista, l’argomentativo hanno perso il loro fascino, i libri di Asturias continuano a guardare a un paese in attesa di redenzione. Il Guatemala, che sia colpa del Guatemala o merito di Asturias, continua a vivere in questa letteratura.

LV: Conservare la corrispondenza e ogni piccola testimonianza, è forse un’usanza di famiglia? O ritiene che suo padre s’impegnò da subito per i posteri?

MAA: Credo che si tratti di una combinazione delle due cose. In effetti, sembra che si tratti di un’usanza di famiglia, perché sono appena comparse in Guatemala delle lettere che mia nonna e mio padre si scambiarono quando lui era giovane e stava a Parigi. Le nostre le abbiamo sempre conservate e io, che sono quello rimasto stabile in un luogo fisso, ho fatto da archivista. A sua volta, mio padre era iscritto a un’agenzia che gli mandava periodicamente ciò che usciva sulla stampa mondiale. Pochi anni prima di morire si preoccupò di cedere i suoi archivi alla Francia. Fece molto affinché la letteratura latinoamericana e, chiaramente, le sue opere divenissero oggetto di studi accademici.

LV: Ora che si celebrano i quarant’anni dalla sua morte, sulla stampa guatemalteca compaiono reclami per l’oblio in cui è caduto un Nobel che non figura neanche nei programmi scolastici. Per quale ragione, secondo lei, Asturias non è stato letto nel suo paese?

MAA: Credo che le ragioni siano molte. Chi legge, legge poco; gli aristocratici non leggono. La classe politica lo guarda con diffidenza; lo criticano dicendo che è stato comunista, il che è assurdo visto che pur essendo un uomo di sinistra non si è mai iscritto a nessun partito; gli rimproverano di essere diventato ambasciatore di Méndez Montenegro, suo amico personale, quando questi tornò sui propri passi vendendosi ai militari e ordinando un tremendo massacro, un indubbio errore politico ma che ha le sue spiegazioni. C’è chi, in atteggiamento di critica, ritiene che avrebbe dovuto rifiutare il Nobel. E la ragione più importante la segnalò lui stesso quando ricevette il premio. «Come mi piacerebbe se in Guatemala mi leggessero come mi leggono in Svezia; ciò significherebbe porre fine all’analfabetismo una volta per tutte». Be’, non gli abbiamo posto fine. La popolazione umile, la maggior parte della popolazione, che è anche quella cui interesserebbe leggerlo, non sa leggere.

Condividi