Edwidge Danticat

«Siate intrepidi»: una conversazione con Edwidge Danticat su fiction e memoir

Meredith Maran BIGSUR, Interviste, Scrittura Lascia un commento

Pubblichiamo un’intervista di Meredith Maran alla scrittrice haitiana-americana Edwidge Danticat sull’arte del memoir e il rapporto tra la nonfiction e la fiction. L’intervista è stata pubblicata originariamente sulla Barnes and Noble Review e viene qui riprodotta per gentile concessione dell’autrice.

di Meredith Maran
traduzione di Milena Sanfilippo

Dagli articoli sui blog agli aggiornamenti di stato, le forme scritte di espressione del sé non sono mai state tanto numerose come nella nostra epoca. Ma per lo scrittore di memoir, le domande e le sfide restano sempre le stesse dall’epoca di Mointaigne: in cosa consiste la «verità» di un’esistenza? Quando i giorni di uno scrittore vengono rimodellati sulla pagina della narrazione creativa, fino a che punto la storia che ne deriva dovrebbe aderire alla realtà? E cosa spinge uno scrittore a trasformare le sue esperienze personali in arte? Queste e molte altre domande sono al centro di Why We Write About Ourselves: Twenty Memoirists on Why They Expose Themselves (and Others) in the Name of Literature di Meredith Maran. In queste conversazioni diversi scrittori, tra i quali Cheryl Strayed, Pat Conroy, Jesmyn Ward, James McBride, Meghan Daum e altri, riflettono sulla più intima e insidiosa tra le forme letterarie.

Questa settimana, per la Barnes and Noble Review, Edwidge Danticat, scrittrice premiata e autrice di memoir (anche lei presente in Why We Write About Ourselves) ha parlato con Maran dei luoghi in cui fiction e memoir s’incontrano, dei punti in cui si allontanano e di come gli scrittori alle prime armi dovrebbero affrontare questa forma narrativa.

Meredith Maran: La maggior parte della tua opera è fiction, ma hai anche scritto il memoir Brother, I’m Dying e saggi per diverse raccolte. In che modo decidi quale materiale utilizzare per un romanzo o un racconto e quale per un memoir o un saggio personale?

Edwidge Danticat: So che potrà sembrare sciocco, ma lascio che sia il materiale a decidere. Quando scrivo saggi, c’è un’urgenza che mi fa desiderare di scrivere, qualcosa che devo far uscire dalla mia testa immediatamente, che ho bisogno di capire meglio. Non posso dire di essere velocissima a scrivere saggi – sono abbastanza lenta nel rielaborare le cose – ma li scrivo comunque molto più velocemente rispetto ai romanzi e ai racconti. Appena ho il filo del discorso, una prima riga o un’idea chiara di ciò che voglio dire, il resto segue abbastanza veloce, anche in forma lunga. La fiction richiede molto più tempo. E più ne scrivo più tempo richiede, perché provo a non ripetermi, a non dire la stessa cosa continuamente. Nella saggistica si corrono meno rischi di ripetersi perché, spesso, stai scrivendo o rielaborando qualcosa che è lì fuori nel mondo, qualcosa che ti sta cambiando o ti ha già cambiato, anche in minima parte. La saggistica tende a essere più intima, più catartica per me, sebbene anche la fiction abbia in sé questo elemento.

MM: Nella tua terra d’origine, Haiti, il memoir è un genere diffuso o un’anomalia? Affronti qualche sfida in particolare scrivendo di te stessa come cittadina «interculturale», sia di Haiti che degli Stati Uniti?

ED: Quando vivevo ad Haiti, durante la mia infanzia, la poesia era usata come forma di memoir. Probabilmente era il mezzo più diretto che gli scrittori che conoscevo utilizzavano per parlare dei loro sentimenti privati e degli eventi della loro vita. C’è stata prima la poesia, poi il romanzo. A scrivere la propria autobiografia potevano essere grandi uomini e grandi donne, spesso protagonisti della politica, ma raramente si trattava di qualcosa di veramente personale. Oggi, autori più giovani stanno scrivendo memoir. Dopo il terremoto del 2010 sono stati pubblicati diversi memoir, saggi e raccolte di saggi. Dany Laferrière, uno scrittore haitiano che ora vive in Canada, ha scritto quella che lui definisce una lunga autobiografia in dodici volumi. Scrive in una forma ibrida, che è in parte memoir in parte narrativa, ma che a volte scorre come poesia. Mi piace molto. Nella mia famiglia ha sempre aleggiato la sensazione che non fosse opportuno parlare apertamente di qualsiasi cosa. In parte questo deriva dal fatto che i miei genitori e i parenti più anziani sono cresciuti sotto una dittatura. In quelle circostanze, la rivelazione di sé non era molto utile, quella privata era una sfera che i miei genitori hanno sempre tenuto nascosta. Per questo scrivere troppo di me stessa è piuttosto impegnativo per me. Mi fa sentire estremamente fragile, ma allo stesso tempo c’è un senso di pericolo.

MM: Hai in programma di scrivere più fiction o saggistica in futuro?

ED: Spero di cimentarmi in ogni genere possible. E scherzo solo a metà quando lo dico. Mi piace scrivere generi differenti. Mi aiuta a crescere. Ho sempre sentito un grande entusiasmo per ogni progetto intrapreso, a prescindere dal genere. Spero di esplorare diversi generi andando avanti, soprattutto quelli in cui sento di avere il passo meno fermo, in cui mi sento meno sicura di me stessa. Non voglio diventare troppo compiaciuta o sentirmi troppo a mio agio, a costo di fallire inizialmente.

MM: Nel 1993 hai conseguito un MFA (Master of Fine Arts) alla Brown. Come ha influito, e come influisce, sulla tua scrittura e la tua carriera? Raccomanderesti un master agli aspiranti scrittori?

ED: Sono molto felice del master che ho fatto, ma i programmi di MFA non sono sempre facili, soprattutto per gli scrittori di colore. Quello del master alla Brown era, ed è, un programma sperimentale: lavorare con gente come Robert Coover e Meredith Steinbach, insieme agli altri scrittori che tenevano i workshop, mi ha sicuramente aiutata a spostare il limite sempre un po’ più in là. L’aspetto che mi è piaciuto di più è stato avere a disposizione due anni per concentrarmi sulla mia scrittura, per vivere praticamente da sola, scrivere e basta e vedere un po’ di gente durante i workshop, una volta alla settimana. È stato un regalo enorme. Così come lo è stato essere circondata dai poeti e dai drammaturghi di quella comunità. Persone come Aisha Rahman e C.D. Wright, purtroppo scomparse entrambe di recente. Conoscere loro e gli altri scrittori che ho incontrato, dentro e fuori dall’aula, è stato meraviglioso. Vedere la vita di uno scrittore nel suo svolgersi, osservare da vicino l’amore e la dedizione per la sua professione è stato un immenso esempio. Ma non consiglierei a tutti di indebitarsi per seguire un programma di MFA. Tra le dinamiche di classe e gli insegnanti, non sai mai quello che ti aspetta. Se ottieni un finanziamento o altre forme di aiuto, benissimo. Altrimenti, si possono cercare gruppi, workshop, conferenze e altre tipologie di comunità educative che ripropongano la stessa cosa, a minor prezzo.

MM: La tua tesi è stata pubblicata in forma di romanzo ed è entrata nell’Oprah’s Book Club Selection. In che modo essere selezionata da Oprah ha influenzato la tua scrittura e la tua carriera?

ED: Be’, grazie all’Oprah’s Book Club un maggior numero di persone ha avuto la possibilità di leggere la mia opera. È stato un regalo magnifico in questo senso: essere una scrittrice di ventinove anni e vedere il tuo libro nella selezione dell’Oprah’s Book Club è stato semplicemente incredibile. Oprah mi ha fatta conoscere a lettori che continuano a seguirmi ancora oggi. È qualcosa di molto speciale e le sarò sempre grata per questo.

MM: Quali sono state la cosa migliore e la cosa peggiore accadute all’indomani della pubblicazione del tuo memoir, Brother, I’m Dying?

ED: Di brutto non è successo nulla. Sentivo che dovevo scrivere quel libro. Dovevo scriverlo e l’ho fatto. Di tutti i libri che ho scritto, è quello che sentivo più necessario, quello che resterà fondamentale per la mia vita, per il racconto della mia storia familiare, anche se non dovesse più leggerlo nessun altro. È il libro che i miei figli, e i figli dei miei figli, leggeranno per conoscere la storia della nostra famiglia, e questo significa molto per me. Brother, I’m Dying è stato il primo libro di nonfiction scelto per il programma di lettura del National Endowment for the Arts. Vuol dire che incontro tantissime persone che parlano della mia famiglia come fossimo vecchi amici. Amo questo aspetto, è il miglior risultato dell’aver scritto questo genere di memoir: la gente si sente così intimamente connessa a te da considerarti una persona di famiglia.

MM: Hai consigli da dare agli scrittori di memoir?

ED: Siate audaci, siate coraggiosi. Siate intrepidi. Almeno mentre scrivete il memoir. Ecco quello che continuavo a ripetermi per poter scrivere di me stessa. Tirate fuori tutto, anche se in un secondo momento magari taglierete qualcosa. Censurarvi durante la fase di stesura iniziale, di prima bozza, potrebbe impedirvi di scrivere altro. Dite la vostra verità e continuate così fino al punto in cui vi sentite consumati, in cui sentite di aver tirato fuori tutto quello che volevate scrivere per quel particolare progetto. Poi, tornate indietro e procedete alla revisione, fino ad avvicinarvi il più possibile al tono e al contenuto che intendete trasmettere.

© Meredith Maran, 2016. Tutti i diritti riservati.

Meredith Maran è autrice di una dozzina di libri di nonfiction e di un romanzo acclamato, A Theory of Small Earthquakes (2012). Fa parte del National Book Critics Circle e del MacDowell Fellows West. Scrive articoli, saggi e recensioni per People, Salon, The Los Angeles Times, The Boston Globe, The Chicago Tribune, The Los Angeles Review of Books, Real Simple, Mother Jones, Good Housekeeping, e altre pubblicazioni. Il suo account Twitter è @meredithmaran.

Condividi