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Sogni che il denaro può comprare. Il romanzo di Alan Pauls

Vi presentiamo la postfazione di Giorgio Vasta a Storia del denaro [1] di Alan Pauls, che abbiamo pubblicato di recente. Il romanzo conclude la “trilogia della perdita” dello scrittore argentino, dopo Storia del pianto (Fazi, 2009, di prossima pubblicazione per SUR) e Storia dei capelli (SUR, 2012).

di Giorgio Vasta

Ricostruire un albero genealogico sostituendo alle ramificazioni familiari i flussi di denaro. Mettere da parte la superstizione ingenua delle storie individuali e dei loro incroci e dare forma a una stirpe collocando semplici transazioni economiche al posto di matrimoni nascite e morti. Pensare alla propria origine come a un investimento, molto probabilmente avventato, a tutta la propria vita come a uno scoperto che la banca ci segnala allarmata ma che si rivela incolmabile (noi versiamo, continuiamo a versare ma lo scoperto non si riduce, al contrario progredisce, si fa abisso). E ancora percepire, non con disillusione ma con un senso di meraviglia, che quanto si è, si è stati e si sarà – e che gli altri prima e dopo di noi sono, sono stati e saranno – può venire riassunto nello schema lapidario della partita doppia. Riconoscere infine, con sgomento e stupore, che non abbiamo fatto altro, per anni e anni, che sentirci immensamente creditori – di tutto e di tutti – solo per tenere a bada il presentimento che in realtà nella nostra storia non c’è stato altro che debito e sperpero, la dissipazione di tutto ciò che in forme diverse abbiamo potuto pensare come patrimonio, e che dunque non c’è attivo e non c’è pareggio ma un saldo sempre in difetto che ci chiarisce come in quanto esseri umani non possiamo che coincidere con una strutturale inadeguatezza.

Storia del denaro di Alan Pauls – titolo conclusivo di una trilogia cominciata con Storia del pianto (Fazi 2009) e proseguita con Storia dei capelli (SUR 2012) – è un romanzo che risponde al desiderio delle narrazioni di raccontare il divario che nonostante tutto non si colma, il tentativo frustrato di modificare una distanza. In termini più secchi, la mancanza come condizione inevitabile e addirittura necessaria: dunque un’esperienza sentimentale.

Ponendo a epigrafe del romanzo una frase tratta dal Complesso del denaro di Franziska zu Reventlow – «Le assicuro che appena arriverà il denaro tornerò a essere assolutamente normale» – Pauls suggerisce che senza forzature o paradossi il denaro, sempre vacillando tra presenza e assenza, è una tra le possibili incarnazioni dell’amore. Nel raccontare la storia di una donna che trascorrendo un periodo in clinica per curare la sua mania non fa altro che attendere e contare (perché contare, quando l’oggetto d’amore è il denaro, significa pregare), Reventlow mette in scena una vera e propria storia d’amore. Soltanto che se il personaggio femminile ècanonicamente una Penelope che aspetta tessendo paure e desideri, «lui» – l’amato, l’amante – è il denaro, anzi il Denaro, maiuscolo e romantico, un Ulisse che va, viene, si allontana e ritorna, e non è mai chiaro che cosa intenda fare: se infine, manifestandosi in forma di eredità, corrispondere al desiderio di chi impaziente lo invoca, o se continuare invece a latitare, al limite esistendo come presentimento, allusione e illusione, orgoglioso di perdurare nella sua condizione di fantasma.

Pauls usa i soldi come un radiologo usa i sali di bario, facendone cioè uno strumento di contrasto che rende percepibili i sentimenti familiari, consapevole che ogni sentimento è contraddittorio e ambiguo, il luogo in cui gli opposti vengono a coincidere. Del denaro si ha pudore, eppure il denaro suscita impulsi inverecondi; è la soluzione, l’antidoto definitivo al disastro, ed è anche veleno, la sostanza tossica che dissolve il pensiero; è tangibile e immateriale, è qui ed è (soprattutto) altrove, presenza assente oppure pelle sangue ossa organi tessuti; è vero, indiscutibilmente concreto, eppure non smette mai di essere finzione (ci sono – ci sono sempre stati e sempre ci saranno – due bambini che giocano; uno allunga la mano verso l’altro tenendo tra due dita il vuoto e porgendolo al compagno che lo prende, il vuoto, lo sfoglia, lo conta, verifica che sia tutto a posto e se lo mette in tasca: il denaro è immaginazione). E ancora il denaro oscilla e fa oscillare tra responsabilità e colpa, eroismo e miseria, cupidigia e prodigalità; è laico ed è religioso, locale e transnazionale, inalterabile e metamorfico come Orlando nel romanzo di Virginia Woolf; è oggetto di una pratica culturale diffusa in ogni sistema sociale ed è comportamento ancestrale, qualcosa di intessuto alla nostra biologia. Il denaro è un solido liquido, è fisico e metafisico, nuovo e vecchissimo, è ciò che viene ininterrottamente discusso, auspicato oppure rimpianto, e allo stesso tempo è un interdetto linguistico, il de cuius (come la morte), ciò di cui non si deve parlare, ciò di cui è preferibile tacere (se solo parlasse e potesse raccontare di sé il denaro potrebbe dire, con il Baudelaire di «L’Heautontimoroumenos»: «Io sono la piaga e il coltello! Io sono lo schiaffo e la gota! Io sono il corpo e la ruota, la vittima e il suo carnefice»).

Infine il denaro è figura della crisi, vale a dire strumento del capitalismo finanziario più feroce, parvenza, doping, culto di Mammona, sostanza materiale e siderale, contemporaneamente causa ed effetto, ciò che muore e ciò che resuscita, un’eterna partita di giro che circolando per i mercati simula il cambiamento riuscendo nell’impresa di lasciare tutto invariato. E mentre si ragiona sul denaro in crisi e sulla crisi del denaro si finge di ignorare che tutto ciò non ha senso perché il denaro è la crisi (etimologicamente parlando: ciò che distingue, ciò che giudica: la vertigine della scelta).

In questo romanzo il denaro è rumore di fondo. Brusio, meglio ancora crepitio. Un basso continuo sottile eppure implacabile, l’effetto di una corrosione perpetua o di un altrettanto perpetuo ruminio. A sconvolgere, però, non è tanto la qualità permanente di questo rumore quanto la scoperta che le sue sorgenti non stanno altrove, in giro, fuori dal corpo (sempre pronte, il corpo, a provocarlo): il rumore del denaro è un acufene. Sembra esterno ma è interno. Interiore. Intimo. È una battaglia che infuria nelle orecchie e dentro il cranio, si propaga nel petto,modifica il respiro, indurisce la muscolatura delle braccia, disfa le gambe. Eppure a questa battaglia domandiamo di servirci da orologio, di distinguere il tempo e di individuare le epoche (perché ci ricordiamo di noi anche in relazione alla volta in cui il nostro conto era vicino al rosso, o a quando si impennò verso l’alto per un accredito imprevisto che se anche ci spettava di diritto in quel momento percepimmo come un miracolo, oppure in relazione agli anni in cui entrate e uscite dialogavano sempre nei pressi dello zero, o a quell’altra volta in cui una serie di spese impreviste fece introflettere il credito, non generavamo reddito, nient’altro accadeva se non lo stillicidio – e tutto questo veniva chiamato età adulta).

Nelle pagine di Pauls la percezione del denaro ha a che fare con un’avventura sempre fluttuante (il denaro ha in sé la salda instabilità dello psicotico) che rivela però una certezza amarissima: tutto il rumore che abbiamo ascoltato, quella protratta allucinazione uditiva slittata in allucinazione emotiva, non ha generato niente. Destino di ogni capitale è la malora. Il rumore del denaro – quel rumore che ci consegna a noi stessi – è, come in Shakespeare, much ado about nothing.

Storia del denaro, come anche gli altri due capitoli della trilogia, procede per lunghe incursioni della lingua – veloci e icastiche – che si intersecano a nuovi flussi e ad altri ancora, un succedersi e un mescolarsi di immagini tramite cui, seguendone il ritmo battente, prende forma la storia. Un romanzo a scie, a sciami – subordinate dilaganti e macroincisi, vagabondaggi, digressioni, nastri di parole e ondulazioni, un narrare labirintico fondato sull’erranza (la sensazione è quella di un moto perpetuodel linguaggio, qualcosa di simile all’Ascending and Descending di Maurits Cornelis Escher, un trucco e insieme una trappola utile a non venire mai fuori dalle parole). Eppure questo moltiplicarsi spiraliforme conduce sempre a un disegno nonché a una particolare esperienza del tempo: gli anni Settanta in Argentina sono un decennio mutevole, non ancorabile a una cronologia oggettiva, un tempo vitale e sorgivo e ancora una volta contraddittorio, infanzia del Paese nonché suo presente perenne, l’epoca in cui tutto accade, il desiderio sessuale e l’orrore, una febbre della Storia che la lingua di Pauls fa esistere in tutta la sua cupa esuberanza.

Come detto, Storia del denaro ricompone un piccolo albero genealogico. Al suo interno ogni ritratto è costruito per via economica. Attraverso il particolare rapporto che ognuno instaura col denaro.

Il padre è colui che paga. Non possiede un conto in banca, non usa gli assegni, l’unico istituto di credito concepibile è il cavo della sua mano, il patrimonio è qualcosa che fa la spola tra palmo e tasca. Quando il padre per pagare – e per lui pagare tutt’altro che qualcosa di subordinato è un «gesto sovrano» – conta i soldi, le sue dita rimangono pulite. Sempre spudorato, se gioca al casinò pretende che il figlio non lo veda; quando poi avrà paura di non riuscire a moltiplicare il denaro che il figlio gli ha affidato, vivrà una vergogna pietrificante.

La madre, un’esattrice senza soldi, da giovane domanda spesso al figlio qualche spicciolo in prestito; invecchiando gli impone di saldare ogni suo insoluto, e lo fa con il piglio aspro di un creditore nei confronti del suo debitore. In lei, soprattutto in lei, ogni particella di vitaemotiva si è trasformata in pensiero economico. Del tutto invasa dal denaro, sogna di vederlo e di toccarlo, ma senza avidità, semmai come si potrebbe sognare l’ossigeno o il sangue nelle vene.

Il figlio, dunque, proviene da due diversi sentimenti del denaro. «A lui non è toccato fare soldi, come a suo padre, né ereditarli, come a sua madre. Di tutte le missioni possibili, a lui tocca quella di saldare, di ripianare i debiti». Essere colui il quale chiude ciò che la storia dei suoi genitori ha socchiuso aperto spalancato (come chi alla fine di una guerra deve riempire i crateri provocati dalle bombe). Allo stesso tempo la sua missione è rispondere alle domande, o meglio a quell’unica specifica domanda che chiunque gli rivolge: «Che significa?» Che significa, per esempio, che alla morte di qualcuno può corrispondere un valore economico? Cosa vuol dire stipulare una polizza di assicurazione sulla vita? In che modo si calcola la cifra con cui, in caso di morte, quella vita verrà valutata? «Come fanno i capi dell’organizzazione guerrigliera, una volta catturato l’obiettivo, così lo si definisce nel gergo militare allora in voga, a calcolare la somma del riscatto?» Cosa succede cioè quando l’habeas corpus smette di essere un diritto inalienabile e diventa un bene acquistabile?

Portando al limite estremo il nesso tra morte e denaro, privilegio e condanna del figlio è comprendere cosa vuol dire ereditare.

«Ora mi rendo conto che anche ereditare è una di quelle cose che bisogna prima aver imparato», scrive ancora Franziska zu Reventlow nel Complesso del denaro. Ereditare è il compito del figlio, il suo apprendistato. La stessa consapevolezza raccontata da Philip Roth inPatrimonio (1991), la storia vera in cui raccontando la malattia del padre lo scrittore di Newark comprende che quello che resta di una morte non è dato, non è detto e non è per niente chiaro (e non sarà la presunta evidenza notarile di un testamento a dissolvere l’oscurità): l’eredità è un rischio. Al termine di una scena in cui al figlio tocca in sorte soccorrere il padre che in bagno ha perduto ogni controllo del proprio corpo inzaccherando dappertutto, Roth scrive: «Questo, dunque, era il mio patrimonio. E non perché pulire fosse il simbolo di qualche altra cosa, ma proprio perché non lo era, perché non era altro, né più né meno, della realtà vissuta che era. Ecco il mio patrimonio: non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda».

L’unica domanda che allora ha senso porsi circa un’eredità non è quanto, forse non è neppure cosa: se ereditare non è un evento inerziale e passivo, ciò che la forza di gravità che collega tra loro le generazioni lascia precipitare da un padre a un figlio, e se i paradigmi sono davvero mutati ed ereditare viene a coincidere con l’azzardo di una scelta, allora il patrimonio è ciò che il figlio decide che sia. La merda, in Roth, che non è metafora di nulla ma è semplicemente la materia ignobile da rimuovere per prendersi cura di qualcuno; la coscienza improvvisa, in Pauls, che madre e padre sono indistinguibili dalla dissipazione.

Quando verrà chiamato a sgomberare l’appartamento della madre, il figlio si muove disorientato nello spazio semivuoto. Dentro un armadio stracolmo percepisce un brillio proveniente dall’interno di uno stivaletto basso da pioggia; in un sacchettino di cellofan trasparente ci sono dei soldi. Continua a esplorare, trova un altro sacchettino, un altro, un altro ancora, «nidi di denaro disseminati tra i pullover, nel cassetto dei reggiseni, nascosti tra le calze, sul ripiano delle maglie, da dove emergono come giacimenti di naftalina o sorprese di Pasqua». Non si tratta di risparmi ma di denaro non speso. Erano stati messi da parte per qualcosa – una bolletta da saldare, gli innumerevoli piccoli debiti che sono l’endoscheletro della vita della madre – e alla fine per qualche ragione ormai imperscrutabile non sono stati usati. Davanti a tutto ciò il figlio comprende che il suo patrimonio, quello che eredita, è una quantità incalcolabile di denaro perduto, «sterile e glorioso, desolante come i fossili che vengono portati alla luce», un gioco di prestiti e di ammanchi, di gruzzoli tragicomicamente racimolati e di restituzioni impossibili, una girandola di rate anticipi e caparre (e di sospetti recriminazioni accuse) che vorticando non ci lascia comprendere, a volte per una vita intera, che l’unico capitale disponibile giace nella moneta corrente del legame.