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Il Campionato del Mondo degli scrittori

In questi giorni Merritt Tierce è in Italia [1] per presentare Carne viva [2]. Pubblichiamo una sua riflessione sul mestiere di scrivere, apparsa su Electric Literature [3]. Ringraziamo l’autrice.

di Merritt Tierce
traduzione di Martina Testa

Pensate un po’ se la scrittura fosse come il Campionato del Mondo di calcio. A partire dal finale, pensate se alla fine di una partita di scrittura, una battaglia vittoriosa tra le forze che abbiamo dentro, in cui le nostre energie creative e la nostra conoscenza, il nostro buon senso, la nostra resistenza e capacità di concentrazione hanno dato il tutto per tutto non solo per novanta minuti regolamentari di scrittura ma per un torneo intero di partite da novanta minuti in cui ciascuna si aggiunge alla precedente, e ognuna è un paragrafo che porta avanti la narrazione, la discussione, finché l’ultimo scontro da novanta minuti non ci mette davanti, una buona volta, il nostro avversario più tosto, il finale, e mettiamo che quest’anno è il nostro anno e siamo noi i vincitori, che la stracciamo la squadra chiamata Finale, incredibile che qualcuno ne dubitasse, l’abbiamo fatto secco, il Finale – pensate se, in quel momento di esultanza davanti alla scrivania, dopo aver messo il punto alla fine dell’ultimo, decisivo periodo, ci alzassimo in piedi e ci strappassimo la maglia da scrittori e la gettassimo ai tifosi correndo in tondo e strillando, senza strillare una parola particolare, strillando e basta, strillando come se provassimo un forte dolore quando in realtà siamo in estasi, un’estasi maggiore di quella che abbiamo mai trovato nel letto della fidanzata che ci tratteniamo dal toccare da più di sei settimane, un lasso di tempo assurdo in cui astenersi dal leccare la curva delle sue gambe assurdamente lunghe e perfette, astinenza studiata per salvaguardare e scatenare proprio questo momento, proprio questo suono, questo preciso strillo, astinenza che ha avuto l’effetto sperato, ci ha donato il sovrumano guizzo di genio artistico arrivato appunto nel finale, il sovrumano guizzo che ha dotato la nostra penna di una volontà, una mente, una memoria tutta sua, per culminare in un gol dalla traiettoria matematicamente improbabile, per culminare in una dolcissima soddisfazione tanto assoluta che in pratica si può paragonare solo a quell’altro glorioso atto dal quale ci siamo astenuti, ed evidentemente abbiamo fatto bene, come testimonia questo strillo trionfale ai centomila tifosi che ci hanno guardato scrivere l’ultima frase qui dentro lo stadio del nostro studio, e ai milioni che hanno guardato la partita in televisione in tutto il mondo, che hanno gridato contro lo schermo quando siamo stati in difficoltà, quando abbiamo fatto casino con gli antefatti sulla nostra tre quarti, i milioni di tifosi che ci hanno strillato contro quasi con la stessa ferocia e passione con cui stiamo urlando noi ora, mentre facciamo un bellissimo giro di campo nel nostro studio, a torso nudo, con le braccia al cielo.

Pensate se nel nostro studio ci buttassimo in ginocchio e baciassimo i fogli sparsi a terra e scoppiassimo a piangere e le telecamere zoomassero sulle lacrime che ci rigano le guance, muscolose come è muscolosa ogni altra parte di noi, e anche le nostre lacrime sembrano fatte di un liquido più fibroso delle lacrime di chi non è uno scrittore. Pensate se la scrittura si facesse in squadra e i nostri compagni corressero a raggiungerci mentre siamo accasciati a piangere sul pavimento dello studio, se ci avvolgessero nella bandiera nazionale e ci tirassero su e ci portassero in spalla e noi sapessimo che per il resto della nostra vita andrà tutto bene ed è valsa la pena fare tanti sforzi, ogni secondo che abbiamo passato a raffinare le nostre capacità, ogni volta che ci siamo alzati prima dell’alba per scrivere, o neppure per scrivere veramente ma solo per allenarci a palleggiare un’idea in testa finché la testa non ci bruciava, non ci sembrava appiattita, eppure continuavamo, potevamo andare avanti per due ore e no cazzo, quell’idea non toccava terra manco una volta, abbiamo imparato a fare in modo che la nostra testa diventasse il terreno per l’idea e dopo due ore di palleggi eravamo in grado di colpire di testa quell’idea con la potenza di un camion in corsa, di spedirla in rete sulla pagina come un missile, senza problemi. Pensate se ci allenassimo tutto il giorno con esercizi del genere fino a sera inoltrata, spingendo la nostra mente a superare le prestazioni del giorno prima, così come nel calcio i corpi si evolvono giorno dopo giorno fino a diventare macchine balistiche danzanti. Pensate se forgiassimo noi stessi con ostinazione folle e ossessiva, superando ogni dolore e ogni dubbio, per arrivare a essere altrettanto aggraziati e letali.

E se avessimo degli sponsor? Pensate se ci corteggiassero per farci scrivere esclusivamente con penne Pilot su carta Crane in uno studio arredato Ikea, se dovessimo tenere tutto il tempo una lattina di Red Bull sulla scrivania, se fossimo obbligati per contratto a bere da quella lattina almeno una volta ogni quarto d’ora anche se in realtà dentro c’è del Gatorade perché preferiamo il Gatorade, ma il nostro agente era sposato con una dirigente della Coca-Cola e la Coca-Cola stava puntando ad acquisire la Red Bull quindi del Gatorade non se ne parlava proprio.

Pensate se il resto del mondo chiamasse la scrittura «scrittura» ma esistesse solo in America un’attività che si potrebbe descrivere, anche se un po’ approssimativamente, come una derivazione primitiva o una versione brutale della scrittura chiamata, solo in America, «scrittura», tanto che quando gli americani usano la parola «scrittura» all’estero gli venisse subito chiesto se intendono la «scrittura» nel senso della scrittura, o la «scrittura americana» in quell’altro senso.

E se avessimo il replay? Non quello che usano nella «scrittura americana», e che gli ufficiali di gara utilizzano direttamente per stabilire se c’è stato o meno un fallo, ma quell’altro tipo, che si usa per riassaporare o svergognare il momento in cui come scrittore hai fatto quella scelta magnifica o sbagliata: pensate se i canali televisivi potessero scegliere di far rivedere quella sequenza di tre secondi rallentata quanto vogliono, se potessero cerchiare con una penna digitale gialla il punto esatto dove è venuta a mancare la giusta sfumatura.

Pensate se il nostro rendimento di scrittori influisse sull’autostima di ogni cittadino del nostro paese, perché ovviamente ogni cittadino da piccolo sognava di diventare uno scrittore e ha cominciato a fare pratica appena ha potuto tenere in mano una penna, appena si è ritrovato sottomano della carta, pensate se i nostri ricordi più belli fossero senza dubbio quelli delle pagine scritte da bambini coi nostri amici, che si trattasse di una partita giocata scalzi sulla terra battuta o di macchie d’erba e spicchi d’arancia per merenda all’intervallo, il ricordo di quello scrivere tutto il giorno finché non rischiavamo una bella punizione se non tornavamo a casa, pensate se questo ricordo dorato risuonasse nei cuori di una nazione intera tanto che vincere il Campionato Mondiale di scrittura significasse santificare la fede in te di tutti i tifosi, significasse premiare la resistenza dei bambini e delle bambine innamorati dei tuoi poteri e del modo in cui quella volta sei scattato contro l’arbitro, con una tale violenza che erano sicuri stessi per dargli un pugno su uno di quegli occhi impassibili da pallone gonfiato, ma certo che potevi mettere un avverbio dove meglio ti pareva, l’aveva visto o no cosa sapevi fare nei dialoghi, come osava cercare di importi certe regole pedanti, idiote e inutili, se lo poteva ingoiare quel cartellino rosso per gli avverbi, poteva masticarlo lentamente, attentamente, vigliaccamente e mandarlo giù, perché tu avresti infranto tutte le regole compresa quella che dice mostra, non raccontare e gli avresti mostrato che con la facilità con cui si infrange una regola si può anche spaccare una faccia, gliel’avresti detto dove poteva andarsene… e per via di tutto questo i bambini avevano fiducia in te e per solidarietà indossavano la maglia con il tuo nome e numero sulla schiena finché il colore non sbiadiva e diventava troppo piccola e gli si scopriva la pancia, ma pensavano che portasse sfiga togliersela e quindi la usavano per dormire e quando arrivava il giorno del bucato la facevano sparire, per portarsi dietro, sulla schiena, ogni lettera del tuo nome e ogni cifra del tuo numero, salva ancorché sporca.

Quest’orgoglio battesimale che puoi suscitare magicamente con il tuo inchiostro, con i movimenti della mano che graffia sulla pagina, quest’orgoglio non sarebbe altro che il riconoscimento dell’impatto delle azioni altrui sul nostro valore di individui e di collettività, nonché una pura felicità per il fatto che, attraverso il nostro amore per la scrittura e la devozione con cui pratichiamo la scrittura e la lettura, il sostegno che diamo alla scrittura e le scommesse in soldi veri che facciamo sulla scrittura, con questo entusiasmo che cresce, cresce, cresce sempre più, siamo stati noi stessi a creare te, lo scrittore, e tu dici in nome nostro quello che speravamo dicessi, quello che ti sapevamo capace di dire anche quando non ci credeva nessuno, e il nostro orgoglio nasce direttamente dalla consapevolezza di essere stati noi a crearti, con l’amore per te e per la scrittura.

Pensate se essere uno scrittore si riducesse a quanto si è desiderato farlo, quanto si è sacrificato per farlo, quanto si è stati pazzi. Se ci foste solo tu e la palla davanti al portiere a tempo ormai scaduto, se a dividerti dalla fama ci fosse soltanto un calcio di rigore, se fossi arrivato al bivio fra la leggenda e la vergogna armato soltanto delle tue doti e dei tuoi sforzi e del tuo cuore, tanto o poco che sia, per guidarti verso il tuo destino di scrittore, e se l’unica barriera fra te e tutte le donne che potresti mai arrivare a rifiutare fosse il modo in cui gestirai questo evento fondamentale della tua storia, come girerai il piede, come rigirerai la frase, se foste solo tu e tutto ciò a cui ti ha condotto la tua vita, tu e una pressione di intensità oceanica alle tue spalle anche se di fatto dietro di te c’è solo una fila di altri venti scrittori, metà dei quali darebbero le palle per vederti sbagliare e metà dei quali maledirebbero la madre pur di vederti segnare, di vederti scegliere la parola giusta, e per Dio quelle madri capirebbero e li perdonerebbero, se ci volesse questo per fare di te un grande scrittore.

© Merritt Tierce, 2014. Tutti i diritti riservati.