Crimine e utopia. L’ultimo romanzo di Ernesto Sabato

redazione Ernesto Sabato, SUR

Pubblichiamo oggi il testo di Mario Luzi che figura in Appendice al romanzo di Ernesto Sabato L’angelo dell’abisso, e che mette in luce il “lato demonico-dostoevskiano” della letteratura argentina cui appartiene anche l’opera di Roberto Arlt.

di Mario Luzi

Nella letteratura argentina c’è, organicamente contrapposto a quello analogico incarnato dal Borges al suo apice di magia, un lato demonico‑dostoevskiano che a tutta prima sorprende ritrovare sul Mar de la Plata salvo poi a riconoscere nella realtà o irrealtà urbana di Buenos Aires caratteri allucinatori tali da farla pensare come una Pietroburgo dell’emisfero australe; dal che anche il gran gioco di Borges o quello brillante di Cortázar ricevono del resto qualche importante riflesso di giustezza. Di questo lato apocalittico l’esponente per eccellenza fu Roberto Arlt, autore dei Sette pazzi e dei Lanciafiamme, romanzi nei quali sul calco dichiaratamente dostoevskiano (dei Demoni) fonde il febbrile metallo della paranoia bairense degli anni Trenta ed è un metallo perfettamente credibile, direi perfino autentico, se è vero che riesce a plasmare potenti figure tra rivolta e disperazione, tra crimine e utopia.

È un precedente che andava citato se non altro per allacciare a qualcosa che dunque esiste, endemicamente, l’angoscia funebre e visionaria dei libri di Ernesto Sabato dal Tunnel a Sopra eroi e tombe fino a questo recente L’Angelo dell’abisso. Esiste non importa se come componente oggettiva della psiche argentina (come si disse anima slava) o come virtualità onnipresente nella società e nella storia del resto così inafferrabile, così poco storica, della nazione secondo le stesse ossessive elucubrazioni di Sopra eroi e tombe. Di fatto quella storia è appunto tanto poco spiegabile come tale che Sabato va a colludere con l’antitetico ed esecrato Borges quando sostituisce a quella razionale una più esoterica decifrazione degli avvenimenti: tutto infatti è effetto di una diabolica congiura ordita dai ciechi che sono appunto gli emissari di Satana e devastano il mondo, portano tenebre e cancellano la luce. Ma inconciliabili se esistesse davvero materia per un reale confronto, sarebbero il vertiginoso fascino di ipotesi che assumerebbe in Borges l’invenzione e la parossistica forza persecutoria che ci mette Sabato.

Come in Eroi e tombe il mondo impazzisce sotto la subdola macchinazione anche nell’Angelo dell’abisso che del resto altro non è che la proiezione negli anni Settanta dello stesso oscuro rovello e perfino di alcuni personaggi ora alle prese con la estrema manifestazione del Male. Siamo nella Buenos Aires degli squadroni della morte, delle torture; siamo anche nella Buenos Aires dell’intelligencija radicale, di sinistra, sinistrese, tra frati borghesi e giovani sinceri e appassionati in mezzo ai quali lo scrittore si aggira nel vano tentativo di trovare una ragione da condividere che non sia la comune nevrosi di una società mai coerente e ora del tutto disgregata. Quel che dico non è per nulla una di quelle illazioni di cui la critica non può fare a meno, ma letterale verità. Con il suo nome e cognome, con i suoi connotati psichici e culturali riconoscibili, Ernesto Sabato è infatti il personaggio più insistente della frenetica kermesse: un personaggio che brucia la distanza di sicurezza e cioè quell’intervallo che l’arte lascia sempre tra il dato e la sua trasformazione, e si presenta e si espone nelle sue inquietudini e impazienze quasi che i tempi della fictio narrativa fossero finiti e non esistesse altro modo possibile d’espressione, con l’Apocalisse alle porte, che un’autotrascrizione: vale a dire la realtà fosse troppo bruciante per essere manipolata e composta.

Ernesto Sabato, personaggio divorato dalla persona reale, non più personaggio se non per convenzione, in verità Ernesto Sabato in carne e ossa si trova nell’Angelo dell’abisso come di fronte a un mobile e continuo tribunale a rendere conto delle sue parole e dei suoi scritti e soprattutto Eroi e tombe a una gioventù irriverente o a velleitari colleghi: nello stesso tempo cerca durante interminabili conversazioni stanziali e ambulanti nelle notti di Buenos Aires questo confronto con ciò che accade e non si capisce e non si afferra e intanto vanifica lo sforzo e finanche l’intento del dire. Non ha questo senso l’impotenza a scrivere il suo nuovo libro che l’Ernesto Sabato dell’Angelo si trascina di caffè in caffè, di incontro in incontro? E non può essere solo simbolico dal momento che il libro poi scritto non è che il ribaltamento speculare di quella impotenza, di quella perdita di credibilità dell’arte in un’epoca così drammatica. Così si chiacchiera molto, si percorrono tutti i luoghi obbligati della disputa attuale, ci si estenua in sterili conati.

È il libro più cupo e più straziato che Sabato abbia scritto. Anche disperato? Cesare Segre annota l’attrattiva che esercitano su di lui i giovani sia pure dogmatici o estremisti, a causa «della generosità, della passione, della fiducia che si palesano nel loro comportamento»: e non credo abbia torto. Ma è un segno di vera speranza? E questa abdicazione della «forma» di fronte alla realtà immane e improrogabile che cosa significa: una resa al caos o una breccia praticata con dolore nelle anacronistiche difese dell’arte? Non rispondo, perché non so; e forse neanche Sabato risponderebbe.

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