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Pulp non-fiction: l’arte e il business del memoir

Michael Bourne BIGSUR, Editoria, Scrittura

Tra autenticità e finzione: una storia del memoir attraverso i mutamenti dell’industria editoriale. L’articolo è stato pubblicato su The Millions; ringraziamo l’autore e la testata.

di Michael Bourne
traduzione di Annateresa Buonpensiere

1.

Verso la fine degli anni Novanta, un giovane autore appena uscito dalla clinica di disintossicazione iniziò a scrivere un romanzo sulla sua fuga da una vita di dipendenza. Come i suoi eroi letterari, grandi bevitori, Ernest Hemingway e Jack Kerouac, il giovane scrittore voleva mettere per iscritto i fatti della propria vita con bruciante onestà, ma proprio come loro, distorse la verità per rendere la storia più interessante. Qualche anno prima, ad esempio, era stato trattenuto in prigione per qualche ora con l’accusa di guida in stato di ebbrezza. Nel romanzo, aggiunse una bustina di crack e una scazzottata con l’agente che lo aveva arrestato e lasciò marcire il protagonista in galera per tre mesi. Altro esempio: una ragazza che conosceva da giovane era morta in un tragico incidente ferroviario; nel romanzo fece partecipare il protagonista in prima persona a questa vicenda, aggiungendo una scena in cui l’intera città lo incolpava per la morte della ragazza.

Ma, quando tentò di venderlo, il suo romanzo autobiografico appena camuffato fu respinto da 17 grandi editori. In realtà, il romanzo potrebbe essere ancora chiuso in un cassetto se Nan Talese, un rinomato editor della Doubleday, una delle case editrici che in prima battuta lo aveva scartato, non avesse proposto di pubblicarlo invece come un memoir intitolato In un milione di piccoli pezzi. Quando nel 2006 Oprah Winfrey portò in tv il giovane autore James Frey, il suo memoir romanzato aveva già venduto 3,5 milioni di copie.

Dieci anni dopo lo smascheramento di Frey da parte di Oprah sulla televisione nazionale, la memorialista Mary Karr ce l’ha ancora con lui. La Karr, che a sua volta ha raccontato le proprie battaglie contro la dipendenza, afferma di aver fiutato l’inganno in tutta la storia di Frey, ma ciò che proprio non le va giù è la sfrontatezza del suo imbroglio. «Non poteva davvero credere di essere stato incarcerato per mesi, visto che non ha scontato neanche un giorno», scrive la Karr nel suo nuovo libro, The Art of Memoir. «Voleva prendersi gioco della gente».

È un punto di vista. Un altro modo di vedere le cose è che Frey aveva scritto un mediocre romanzo autobiografico e un editor astuto si è reso conto che, per la struttura dell’editoria moderna, quell’invendibile opera di narrativa aveva la potenzialità di diventare un memoir di successo.

Come genere letterario, il memoir risale almeno alle Confessioni di sant’Agostino, eppure, come ci ricorda Julie Rak nel suo libro Boom!: Manufacturing Memoir for the Popular Market, è solo di recente che scrittori non ancora famosi hanno cominciato a trasformare i propri racconti autobiografici in bestseller. Questo non significa che gli scrittori non stessero già vendendo con grande successo le loro autobiografie molto prima del cosiddetto «memoir boom», scoppiato nei primi anni Novanta. Come Frey stesso osserva in un’intervista sul quotidiano ingleseThe Guardian poco dopo la disputa con Oprah, molti classici del ventesimo secolo potrebbero essere pubblicati oggi come memoir. «Cioè, l’idea che Fiesta non parli della vita di Hemingway», dice, «oppure che On the Road non parli della vita di Kerouac, o che qualunque cosa mai scritta da Bukowski o Céline o Henry Miller non parli delle loro vite, è un’idea ridicola».

Poi Frey aggiunge:

È interessante sapere che On the Road doveva essere pubblicato come non-fiction, ma fu modificato per timore di conseguenze legali e perché a quel tempo la narrativa era molto più in voga della non-fiction. Be’, per me è stato piuttosto il contrario. Adesso è la non-fiction a essere molto più in voga.

Che sia o meno la verità su On the Road, Frey ha ragione ad affermare che i lettori sono stati attratti a lungo dalle narrazioni autobiografiche delle disavventure giovanili degli autori. Ma le cose sono cambiate e non abbiamo più bisogno che questi scrittori indossino il decoroso velo della finzione letteraria, anzi, come acquirenti di libri preferiamo che non lo facciano.

Mentre gli autori di narrativa letteraria si accorgono sempre di più che devono inserirsi in uno specifico filone commerciale oppure accontentarsi del ben poco remunerativo rispetto della critica, un autore con una storia personale da raccontare, di carattere psicologico, ha più possibilità di registrare maggiori incassi se può dichiarare che si tratta di una storia vera. Il risultato sono scrittori come James Frey e un numero sempre crescente di «fauxmoir», come Love and Consequences, un romanzo del 2008 sulle questioni razziali e la vita delle gang nella zona South Central di Los Angeles, scritto da Margaret Seltzer, una donna bianca della classe media che ha modificato il suo nome in Margaret B. Jones e in un intervento alla radio ha parlato con voce commossa per far credere ai lettori che il suo romanzo fosse un memoir.

2.

I critici del moderno memoir attribuiscono la sua crescita a una cultura di narcisismo e autocompiacimento diffusa tra i giovani, oppure, con meno disprezzo, a un desiderio di autenticità, a una fame di realismo nata dall’assottigliarsi dei confini tra finzione e realtà nella vita pubblica. In realtà, la maggiore popolarità di questo genere ha altrettanto o più a che vedere con la riorganizzazione dell’editoria che con un qualsiasi cambiamento culturale. Come osserva la Rak nel suo Boom!, l’avvento delle edizioni tascabili economiche negli anni del dopoguerra creò nuovi mercati non solo per i romanzi gialli, rosa e fantascientifici già molto diffusi, ma anche per libretti che raccontavano la vita di personaggi di pubblico interesse. Questi potevano essere prodotti con rapidità e a basso costo, con un taglio che li avvicinava più al mondo del giornalismo che non a quello più serioso dell’editoria libraria, e non erano venduti nelle librerie, bensì negli empori e nei chioschi di giornali all’interno delle stazioni, accanto ai loro fratelli della narrativa «pulp».

Pertanto, per uno o due decenni dopo la seconda guerra mondiale, l’editoria americana operava su due binari paralleli. Gli editori più antichi e prestigiosi producevano sia volumi di saggistica di alta qualità in copertina rigida sulle vite di ex presidenti e altri personaggi importanti, sia narrativa letteraria scritta per un’élite istruita che acquistava nelle librerie indipendenti. Allo stesso tempo, case editrici di prestigio molto inferiore vendevano narrativa e non-fiction di basso livello a lettori della classe media e operaia che acquistavano i libri negli stessi posti in cui compravano giornali e riviste, cioè negli empori e nelle stazioni.

Questi due modelli si scontrarono, tuttavia, quando le case editrici iniziarono ad accorparsi in grandi gruppi editoriali, negli anni Sessanta. Tra il 1960 e il 2001, secondo i calcoli della Rak, ci sono state 1250 fusioni editoriali, in seguito alle quali migliaia di piccole case editrici, spesso a conduzione familiare, sono state assorbite in una manciata di conglomerati multinazionali, nella maggior parte dei casi di proprietà di media companies di dimensioni perfino maggiori. In questo folle rimescolamento, case editrici di prestigio e altre che producevano libri più economici furono rilevate dalle stesse aziende, sfumando la linea istituzionale tra «letterario» e «pulp».

La corsa alle fusioni rappresentò un’iniezione di capitale nuovo per l’editoria, ma portò con sé uno stile aziendale incentrato su alti margini di profitto, spingendo sempre di più verso la produzione di bestseller. Allo stesso tempo, le case editrici cominciarono a pubblicare i loro libri sia in edizione hardback sia in tascabile, sfumando ulteriormente la distinzione tra libri «di qualità» ed «economici», e dando così vita a una nuova tipologia di libri, i «trade paperback», i tascabili di qualità: non a caso la forma con cui comincia ad avere successo la maggior parte dei memoir bestseller.

Proprio come l’editoria, negli anni del dopoguerra anche le librerie e le media companies si stavano evolvendo. Cinquant’anni fa, le buone librerie erano rare al di fuori dei grandi centri culturali, ma entro i primi anni Ottanta le catene di librerie avevano invaso i centri commerciali degli Stati Uniti, prosciugando gli affari degli empori e dei chioschi che fino a quel momento avevano venduto i libri «pulp». Adesso, non solo gli editori producevano sia letteratura alta che narrativa commerciale, ma i lettori le trovavano nello stesso negozio, a volte sullo stesso scaffale, una accanto all’altra. Intanto, mentre i quotidiani cominciavano la loro lunga discesa nell’irrilevanza digitale, le pagine dedicate ai libri furono tra le prime vittime, e gli strumenti chiave per la vendita dei libri divennero la televisione e la radio. Poiché la mera recensione di un libro fatta da un mezzobusto è estremamente noiosa, i conduttori dei talk show cominciarono invece a invitare gli autori nei propri programmi per raccontare i loro libri, faccenda resa molto più interessante quando autore e protagonista di un libro sono la stessa persona.

Questa, quindi, era la situazione nel 1989, quando Tobias Wolff, autore di diverse raccolte di racconti osannate dalla critica e di una novella con cui aveva vinto un premio letterario, pubblicò il suo primo memoir, Un vero bugiardo. Vita di un ragazzo nell’America degli anni ’50, che divenne un bestseller nazionale e da cui è stato tratto un film di successo, Voglia di ricominciare, con un giovane Leonardo DiCaprio nel ruolo del protagonista. Qualche anno dopo, Susanna Kaysen scalò le classifiche con La ragazza interrotta ed Elizabeth Wurtzel si mise a nudo nel suo La felicità difficile, e nel 1995, quando la Karr pubblicò il suo primo memoir, Il club dei bugiardi, la corsa all’oro era già cominciata.

3.

Tutta questa storia non viene esplicitamente raccontata in The Art of Memoir, eppure in un certo senso è presente, sottintesa nell’atteggiamento difensivo che la Karr adotta verso le critiche al genere letterario che ha scelto. In sostanza, la difesa del memoir da parte della Karr poggia sulla sua fede in uno scaltro miscuglio di verità e grinta narrativa. La Karr ammette senza indugio che non ci si può aspettare che un memorialista rievochi perfettamente dialoghi risalenti a decenni prima, e anche se potesse farlo, lo stesso atto di scegliere un dettaglio invece di un altro distorcerebbe la verità oggettiva degli eventi in questione. «Un memoir ben fatto è un’arte, una creazione», scrive. «Non si tratta di un semplice reportage spiattellato sulla pagina».

Tuttavia, non le interessano i memorialisti che non mirino alla versione più autentica possibile delle storie della propria vita. Parlando di un altro scrittore che ammette di colorire qualche dettaglio, la Karr mostra con franchezza il suo sdegno: «È come se dopo che ho mangiato il mio panino, il ragazzo dell’alimentari mi dicesse: “Le ho messo un cucchiaino di cacca di gatto nel panino, ma lei non se n’è accorta”. Per me un pezzettino di cacca di gatto equivale a un panino di cacca di gatto, a meno che non sapessi dove si trova la cacca e potessi mangiare la parte attorno».

È divertente e anche vero, ma mentre la Karr sembra rivolgere le maggiori critiche ai memoir, il suo libro evita con cura i problemi strutturali più profondi del genere. Anche se lei non usa questo termine, The Art of Memoir, che è nato dai corsi per il Master of Fine Arts che la Karr tiene all’Università di Syracuse, si concentra su quella che si potrebbe chiamare in modo approssimativo «non-fiction creativa». Questo termine assume valori diversi per persone diverse, ma se ha un significato pratico in senso editoriale, è quello di indicare un’opera di non-fiction elaborata e scritta solo dal suo autore, non inventata o modellata da un agente o da un editor.

Tuttavia, anche se il modello della non-fiction creativa può essere insegnato nelle classi universitarie, non è il modo in cui la maggior parte dei memoir commerciali viene davvero prodotta. Con rare eccezioni, i romanzi vengono sottoposti ad agenti ed editor solo dopo essere stati terminati, mentre i libri di non-fiction, compresi i memoir, vengono comprati, di solito, sulla base di un proposal. Il proposal di un libro può avere forme diverse, ma in genere comprende alcuni capitoli esemplificativi, un sommario degli argomenti e spesso l’indicazione di chi saranno i potenziali lettori. In altre parole, mentre gli scrittori di romanzi arrivano sul mercato editoriale con un prodotto finito, gli autori di memoir si presentano con un business plan, che di solito è stato abbondantemente modellato ed editato da un agente letterario.

Durante le mie inchieste giornalistiche nel mondo dell’editoria, ho conosciuto agenti il cui lavoro è quello di setacciare la blogosfera e la propria rete di contatti personali, tentando di scovare qualcuno che, grazie a un blog al passo con i tempi o alla vicinanza ai riflettori della cultura popolare, potesse ottenere il contratto per un libro. In alcuni casi, queste persone creavano il blog o cercavano un breve momento di celebrità proprio allo scopo di guadagnarci. In altri casi, i futuri memorialisti non si immaginano per niente come potenziali protagonisti di un libro e sono sorpresi quando scoprono di poterlo essere. Comunque, l’agente aiuta il memorialista a costruire un proposal, dando consigli su come strutturare la narrazione, come posizionarla all’interno del mercato attuale e, se necessario, fornendo un ghostwriter per scrivere il libro vero e proprio.

Questo, la mentalità della vecchia scuola «pulp» che produce tutti quegli strani libri usa e getta che appaiono e scompaiono dagli scaffali delle librerie, è il vero nemico della non-fiction creativa che la Karr difende con tanto ardore in The Art of Memoir. Perché, che gli scrittori di questo genere lo ammettano o no, il memoir contemporaneo, molto più della narrativa contemporanea, è un genere modellato da agenti ed editor. I lettori, anche quelli a cui non potrebbe interessare meno il funzionamento dell’editoria, lo avvertono, e ne vengono respinti.

4.

Quando il consolidamento dell’editoria riunì editori di basso livello e case editrici prestigiose, artisti letterari come Tobias Wolff e Mary Karr ebbero la possibilità di accedere a un pubblico di massa e a un mercato redditizio, possibilità che altrimenti non avrebbero avuto. Ma allo stesso tempo furono obbligati – e forse lo furono ancora di più gli scrittori che vennero dopo di loro – a seguire le regole del mondo «pulp», che enfatizza le esperienze estreme, coinvolgendo spesso traumi fisici o emotivi, insieme a una ricerca di normalità borghese.

Pensate per un momento agli autori i cui libri hanno messo in moto il boom dei memoir. Wolff e la Karr erano docenti universitari. Frank McCourt insegnava alle superiori. Susanna Kaysen era la figlia di un famoso economista del MIT. Ogni lettore americano istruito poteva identificarsi con queste persone, addirittura aspirare a essere come loro. Nei loro libri rivelano traumi orrendi che hanno vissuto in passato, ma ciò che ha commosso (e spinto all’acquisto) così tante persone è che sono sopravvissuti, grazie a un miscuglio di intelligenza, forza d’animo e a un profondo desiderio di una rispettabile vita borghese. In un modo o nell’altro, tutti questi libri riformulano il sogno americano in una forma simile alla favola, con la differenza che queste favole sono storie vere.

Nell’immaginario collettivo, in cui la sensibilità letteraria e quella «pulp» si incontrano, il fatto che le storie siano vere conta moltissimo. Wolff ha scritto racconti strazianti sul crescere povero con una madre mezza matta, compresa una delle mie storie preferite di tutti i tempi, «Firelight», contenuta nella raccolta Best American Short Stories del 1992, ma fino a quando non ha usato nomi reali, Hollywood non ha chiamato. Se la sua storia è autentica, e Wolff è davvero sopravvissuto all’infanzia che descrive in Un vero bugiardo, allora anche qualunque lezione abbia da impartire è autentica e io, come lettore, posso metterla in pratica per superare i traumi che ho sofferto.

Per questi pionieri, le cui vite ricalcavano il modello senza bisogno di far ricorso a troppi ornamenti, era un trucco abbastanza semplice. Ma una volta che la non-fiction creativa ha lasciato la sfera rarefatta dell’editoria letteraria, dove l’autore è il re, è entrata in un mondo «pulp» più rude, i cui libri sembrano uguali ai loro cugini letterari, vengono venduti negli stessi negozi e seguono più o meno lo stesso gioco narrativo, ma sono parzialmente o totalmente creati da professionisti editoriali che sanno riconoscere una formula di successo.

In questo mondo, l’agente nota che una foodblogger era single quando ha cominciato e adesso è sposata e propone, solo come possibilità, il titolo «Una tavola per due: come ho preso per la gola l’uomo dei miei sogni». Le tue ricette sono grandiose, spiega, ma il libro ha bisogno di un arco, un viaggio che il lettore possa percorrere. In questo mondo, un editor chiede a un nuovo imprenditore di successo se, per caso, ha avuto un padre dispotico che sminuiva le sue idee. Era dislessico da bambino? Era un adolescente con una vena ribelle che faceva uso di droga? In breve tempo l’intero genere viene ricoperto da un tocco «pulp» e anche l’autore più onesto sa che ha bisogno di almeno un’overdose di eroina nel suo passato, perché un’infanzia semplicemente triste, non importa con quanta abilità sia resa, equivale a una vita modesta di disperazione letteraria.

E poi, in questo mondo, arriva il prossimo James Frey.

© Michael Bourne, 2015. Tutti i diritti riservati.

Michael Bourne scrive per The Millions e per Poets & Writers Magazine. I suoi saggi sono apparsi sul New York Times, sul Globe and Mail, sul National Post e sull’Economist online. I suoi racconti sono stati pubblicati su Tin House, December, The Southampton Review e The Cortland Review, tra le altre riviste. Il suo sito è www.michaelbournewriter.com

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