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Il narratore onnipresente

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Torniamo oggi sulla recente scomparsa di Carlos Fuentes, che ha commosso la scena letteraria mondiale, con un articolo comparso sulla rivista «Ñ» e firmato da Julio Ortega, peruviano, uno dei più importanti critici letterari latinoamericani, docente presso l’università di Brown (Stati Uniti).

di Julio Ortega
traduzione di Raffaella Accroglianò

Non mi sembra vero che sia morto Fuentes e sono disposto a provare il contrario. Così come Borges dimostrò che siamo la realizzazione di quello che abbiamo letto e Cortázar provò che se non possiamo cambiare il mondo dobbiamo cambiare la funzione della lettura, ho la sensazione che Fuentes abbia stabilito che non smetteremo mai di leggere ciò che abbiamo letto. È così, uno legge ogni volta di nuovo, come se il tempo fosse un’invenzione della lettura.

Per questo Fuentes confessò che leggeva il Chisciotte ogni anno, perché nel calendario della lettura il libro è sempre diverso. Di modo che leggere è un modo di rifare il tempo, e scrivere è dare al tempo un’altra opportunità. Carlos Fuentes è stato particolarmente generoso con il tempo, gli ha dato varie vite: mitiche, apocalittiche, fantastiche, politiche, storiche e simmetriche. Nelle sue mani il tempo è diventato malleabile, in divenire, transitivo, puro decorso nell’errare della vita.

Qualche anno fa ormai, lessi in una rivista argentina, Crisis, un racconto di Carlos Fuentes nel quale una pantera, scappata da uno zoo, si nasconde nell’appartamento di un uomo. M’impressionò il tratto dinamico, leggermente ironico, di questo racconto fresco, allo stesso tempo mondano e angosciante. Quando incontrai Fuentes gli dissi quanto mi aveva intrigato il suo ultimo racconto, Pantera en jazz. «Ma quello è uno di primi racconti che ho scritto» protestò divertito. Pantera en jazz è un racconto che non fu incluso nel Los días enmascarados, un libro del 1954. La rivista aveva omesso l’anno di pubblicazione, ma perché potei leggerlo come un racconto recente? Nella Casa de América, a Madrid, durante un incontro di scrittori, con accanto Carlos Fuentes come testimone della difesa, raccontai questa storia, aggiungendo però una variante.

Scritto dal Fuentes giovane, suggerii, era evidente lo stile maturo, che padroneggia con sapienza la dinamica cangiante di una prosa autocosciente. Di contro, scritto dal Carlos Fuentes attuale, quale audacia da racconto surreale, quale libertà di gioco, in una prosa che riproduce il ritmo del jazz. Fuentes, provai a dire ricorrendo alla favola di Pierre Menard, ha romanzato la lettura, perché è nel momento della lettura che diamo senso a un suo testo; a tal punto che acquisisce la forma della nostra lettura. Se Borges drammatizza la scrittura come interpretazione del lettore che si appropria del testo, Fuentes converte in finzione l’atto stesso del leggere, tanto che si produce una sorta di sdoppiamento del tempo, la libertà di rifarlo per piacere.

Per questo, conclusi, tutto indica che Fuentes ha scritto da giovane le sue opere più mature, articolate e solide; e l’ha fatto per poter scrivere, da grande, la sua opera più giovane e audace. Si potrebbe, quindi, postulare l’ipotesi che la temporalità narrativa della sua opera non segua la logica della cronologia e, per lo stesso motivo, non sia dovuta a un’archeologia della sua lettura; si tratta invece di una narrativa il cui tempo scorre in avanti cercando il proprio inizio non nel passato ma nel futuro.  Paradosso, in effetti, di questo tempo restituito, generato dalla forza romanzesca della temporalità, il cui asse di lettura decide il reinizio costante della sua produzione narrativa. Fuentes è il nostro maggiore esploratore del tempo come supplemento di vita, come eccesso dei limiti naturali e come simmetria pulita e brillante del barocco messicano, formalista e combattivo.

Cristóbal Nonato (1988), per esempio, mi è sembrato in vari sensi un romanzo più giovane, dotato di maggior inventiva e irriverenza. È chiara finanche l’ironia, che il fatto storico fondante, la scoperta dell’America, fosse qui riscritto dal futuro, da una sorta di ucronia e distopia, perché questo romanzo riscrive il passato per dimostrare la sua apocalittica dissoluzione futura. Se Joyce credette che la Seconda Guerra Mondiale fosse stata dichiarata per interferire nella lettura del suo Finnegans Wake, si potrebbe dire, con lo stesso humour paradossale, che il quinto centenario della scoperta dell’America si poteva celebrare solo come sua disfunzione radicale. Così in questo romanzo si tratta il reinizio del Messico come una scoperta, o una rivelazione futuristica della sua frammentazione, ciò che accade nel linguaggio, e il suo smantellamento carnevalesco e al contempo tragico, della perdita del mondo conosciuto.

E non a caso il suo libro più temporale, così incalzato dal presente che rifiuta di concludersi, El naranjo (1993) (L’albero delle arance, Il Saggiatore 2003), suggerisce in vari momenti un dialogo con i primi libri dell’autore, come se questi libri si guardassero, per un istante, nei nuovi racconti, e comprovassero, grazie a questi fuori dal tempo e intertempo, che sono stati appena scritti.

È rivelatore, per la stessa ragione, che Fuentes abbia chiamato La edad del tiempo la serie narrativa rilanciata dall’editrice Alfaguara. Riordinamento di “tempi” narrativi dove s’includono libri che l’autore ancora non aveva scritto, come se fossero già parte della mappa tangibile della sua opera. Un’opera, per la maggior parte delle persone, che più che geografia è una tempo-grafia, dove fluisce l’inchiostro dell’attualità permanente della scrittura.

Ma, se quest’opera non si ordina grazie alla cronologia della sua scrittura né alla realtà che riscrive, è perché organizza un’altra temporalità, fatta di anticipazioni e anacronismi, dove il tempo della favola circola nel suo registro, compiendo e consumando gli scenari della sua energia inquieta e del suo aspetto barocco.

Precisamente l’ordine è qui il reinizio, il progetto di una lettura dove i testi si leggono mutuamente e dove tutto accade un’altra volta sotto una nuova attenzione. Il “tu” al quale si rivolge il Narratore di Aura è il giovane storico, ma è anche il lettore giovane per sempre, nel linguaggio che gli apre le porte del tempo narrativo.

Ebbene, se leggere Fuentes è sospendere la temporalità (età ciclica), è anche percorrerla lucidamente (età storica). E questo avviene perché nella lettura passiamo da una sponda all’altra, e da un margine raggiungiamo quello successivo. Voglio dire che l’opera acquisisce impreviste e rinnovate risonanze nella rilettura. Si direbbe che è fatta per ingrandirsi nella rilettura. E non è più casuale che riletta al contrario ci riveli le sue anticipazioni, come un altro insediamento nel nostro margine di presente. Fuentes scrive nello scenario della lettura, del linguaggio sviluppato e trasformato dal presente senza fondo di leggere un testo all’interno di un altro, una conversazione sotto un’altra: rappresenta la lettera e la voce della verbalizzazione cangiante del mondo, della sua permanente invenzione. Per questo c’è una dimensione unica del reale che ci parla da questi suoi libri. Se García Márquez ebbe bisogno di cento anni per scrivere, come se fosse letto in alcune ore, il suo romanzo miracoloso; e se Joyce ebbe bisogno di un giorno per provare la banalità del buon Leopold Bloom, Carlos Fuentes ha avuto bisogno, di contro, dei cinquecento anni (con l’eccezione del suo romanzo preistorico dedicato a Numancia e di un racconto futuristico su Adamo ed Eva, due robot innamorati) della nostra età storica per la sua spettacolare temporalità narrativa. Per questo rileggiamo i suoi libri non solo come se fossero tutti recenti, ma come se stessimo leggendo il passato nel futuro e noi stessi in un racconto sempre in divenire. Fuentes, voglio dire, ha conferito attualità alla nostra storia, nel recuperare le sue voci come se appartenessero al domani.

Il presente conquistato

La storia smette di essere cronologica e acquisisce un’altra età discorsiva, quella della nostra storicità. Contro le versioni traumatiche dell’esperienza latinoamericana (che assicurano che il nostro essere storico sta per farsi, che la nostra identità “dipendente” è stata requisita da poteri dominanti, che la nostra forma psicologica ci condanna alla ripetizione del pessimismo e che la colonia è il modello che ci ripete), l’opera di Fuentes ci riafferma nel presente riconquistato dalla lettura, rivelando non la facile sintesi né il mero pluralismo, ma la realizzazione e il dramma del miscuglio, l’allegria e il rischio della differenza, la scommessa per il nostro spazio, mappa e habitat fatto nelle affermazioni plurali e la sua energia inquisitiva, il suo potere critico che disarticola i programmi di controllo egemonico e diversifica radicalmente la rappresentazione della storicità del presente. Di lì che il senso dell’elemento storico si dia come sua attualizzazione, che altro non è se non politica dell’immaginazione del cambiamento e la radicalità del nuovo. Come dice bene Anthony Giddens: “La storicità può essere definita come l’uso del passato per aiutare a dar forma al presente… (È) la conoscenza del passato come mezzo di rottura del passato… la storicità, difatti, ci orienta precisamente verso il futuro”. È il caso straordinario di La morte di Artemio Cruz (1962) (La morte di Artemio Cruz, Net 2002), scritto agli albori della rivoluzione cubana, ma esattamente come suo contrario: gli inizi dell’esperienza rivoluzionaria vengono visti dalla fine dell’esperienza rivoluzionaria messicana, e così i tempi dell’inizio si leggono, si decifrano, nei tempi della fine.

Una strategia personale

Se i racconti e i romanzi di Carlos Fuentes accadono come distinte versioni della temporalità, questa esplorazione è un ampliamento della natura della favola. La qualità favolosa e leggendaria di questi libri diventa evidente nella diversità delle loro formule, nel cangiante registro delle loro rappresentazioni, nel diverso protocollo della loro lettura. Ma questa esplorazione temporale è anche una testualità complessa. Ogni libro proietta una propria strategia narrativa, che non può essere ripetuta in un altro racconto, e che si esaurisce come la forma stessa dell’affabulazione. Possiamo, ugualmente, proporre l’ipotesi che queste opere si realizzino come una delle istanze paradigmatiche del cambiamento letterario. Per questo l’innovazione le distingue. Innovare implica rinnovare, ricominciare, riformulare. Per questo il suo primo capolavoro, Aura (1962) (Aura, Il Saggiatore 2011) è un romanzo breve gotico che si svolge nel futuro. La sua opera più singolare, La morte de Artemio Cruz (insolitamente dello stesso anno), è un romanzo critico e politico che distribuisce in ogni persona narrativa (tu, io, lui) un tempo complementare, che è uno spazio d’assedio, azione e memoria. La sua opera maggiore, Terra Nostra (1975) è una monumentale costruzione mito-poetica che somma i tempi e li fonde. E Cristóbal Nonato (1987), il suo romanzo più libero, fa dell’Apocalisse una ri-creazione umoristica.

Teoricamente le poetiche del cambiamento si contrappongono alle poetiche della normatività, così è, dei codici e dei canoni che configurano da una parte l’orizzonte della ripetizione come sistema di riferimenti colti, e dall’altra la matrice discorsiva, l’archivio dei modi del discorso, che definiscono uno stile, una produttività, una modulazione generica. La ripetizione è necessariamente strutturante, perché corrisponde alle norme, ai rituali e ai protocolli della continuità. L’archivio discorsivo invece corrisponde alle forme del parlato, alla dizione di uno stile, e serve da modello. Per questo, dopo aver privilegiato la nozione di cambiamento e di automatizzazione sotto l’influenza delle avanguardie e dei formalisti russi, si passò a favorire le nozioni strutturali che privilegiarono le ribellioni cartografiche dell’enunciato e del significante. E, più recentemente, alla luce dei cambiamenti suscitati dalla critica dei modi di produzione tecnologica, e grazie ai nuovi movimenti sociali e politici che mettono in discussione il programma della modernità, si sono privilegiate le articolazioni socio-culturali. Le opzioni  oggi sono meno polari, più inclusive, e anche maggiormente indipendenti dagli apparati che totalizzano la lettura. Di vari di questi modi accettati dal processo critico di lettura ha beneficiato l’opera di Fuentes nel contesto internazionale. E così è stata letta come parte del realismo magico, come anticipazione del racconto postmoderno, come iniziatrice del nuovo romanzo storico… Lo stesso Fuentes ha messo in pratica una riarticolazione delle sponde remote e contrarie, in quel trattato di compendi ispanoamericani che è El espejo enterrado (1992), una delle anticipazioni della prospettiva critica transatlantica.

Per la stessa ragione, l’idea che le avanguardie fossero finite, e che si vivesse la fine della sperimentazione (un’idea favorita dallo scetticismo conservatore e dal pragmatismo liberale) è stata contestata dalle riappropriazioni formali del postmodernismo; specialmente da Jean-François Lyotard quando afferma che “nei diversi inviti a sospendere la sperimentazione artistica, c’è uno stesso appello all’ordine, al desiderio di unità, di identità, di sicurezza o di popolarità… per quegli scrittori nulla è più urgente che liquidare l’eredità delle avanguardie”. Questo patrimonio del romanzo contemporaneo, consacrato dall’opera di Carlos Fuentes, rappresenta oggi la nostra strumentazione narrativa, attuale come ieri, capace di dare vigore al progetto di un nuovo romanzo, quel mito permanente del presente nel quale quest’opera ci ha educati a leggere più di quello che leggiamo.

Se l’opera di Fuentes è un paradigma del cambiamento non è perché segue il dettame modernista della ricerca dell’originalità a oltranza, ma perché le sue formulazioni esplorano le aperture del testo e ampliano le funzioni rappresentazionali. È rivelatore il fatto che i suoi romanzi più innovatori sono quelli che lavorano sugli spazi socio-storici più codificati; come se la frattura della sintassi narrativa, delle attribuzioni del linguaggio stesso, fosse lo strumento più sicuro per ignorare e mettere in discussione ciò che passa per il reale; per questo, quei romanzi non sono gratuitamente sperimentali ma diligentemente esploratori.

È il caso di La región más transparente (1958) (La regione più trasparente, Il Saggiatore 2011), che mina una società convenzionale che riproduce il fallimento; o di La morte de Artemio Cruz, la cui frammentazione e diversificazione cerca di sovvertire l’edificio del potere corrotto, le articolazioni della politica e dell’economia nel monopolio dello stato; e di Cristóbal Nonato, che immagina una fine del mondo messicano dove le forme del potere autoritario sono messe in dubbio dalla libertà faceta del linguaggio mutante. Ciò non significa che l’innovazione sia strumentale, ma contraddice la saturazione dei linguaggi, l’usurpazione dei significati. In questo modo ha implicazioni politiche e forza emancipatrice. Si può anticipare la conclusione che questi romanzi sono potenti meccanismi contro la Retorica: svelano, dietro le rappresentazioni, il loro carattere costruito, i luoghi che sostengono i discorsi, l’interesse e la banalità dei poteri di controllo e anche la forza di rivelazione e contraddizione che c’è nella ricerca di una verità, che pur essendo improbabile non ha meno urgenza di farsi spazio nei discorsi.

Ma, anche se accade fuori dalla sfera sociale, l’innovazione possiede implicita la forza combattiva del desiderio. Come si sarebbero potuti scrivere Aura insieme con La muerte de Artemio Cruz se non fosse che entrambi i romanzi rispondono alla tirannia della morte con il desiderio? In una lettera a Fuentes, Cortázar si mostrò sorpreso per la coincidenza di entrambi i romanzi nello stesso anno, dato che li trovò, come sono, troppo diversi, e preferì il carattere fantastico del primo. Ma sono anche intimamente vicini, come se si fossero messi d’accordo per assalire i limiti, in un caso, della soggettività dell’amore oltre la morte; e nell’altro caso della rappresentazione del potere a partire dalla sua dissoluzione. Cambiare, dunque, è desiderare; è proiettare nello spazio del desiderio la strategia di una celebrazione ripromessa attraverso il simulacro, lo spettacolo e il dialogo, per recuperare con il flusso puro dell’arte la mutualità della cultura, le sue magie imparziali e le allegrie filiali. Gli dobbiamo, a lui e alla sua opera, questa lezione di integrità creativa; la sua fedeltà alla promessa, così nostra, di cambiare questo mondo a partire dalla prossima lettura.