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Se la fiction è morta… tutto è permesso?

Alberto Gordo Editoria, Scrittura, SUR

In un’epoca in cui i confini del romanzo si fanno sempre più labili, editor, scrittori e critici partecipano a un’inchiesta di Alberto Gordo sulle sorti di fiction, non fiction e autofiction.
Il pezzo è uscito su
El Cultural, che ringraziamo. La fotografia è di Arnaud Théval.

di Alberto Gordo
traduzione di Elisabetta Fanti

Il romanzo ha dei confini? Se tutto è romanzo, niente lo è? Può un romanzo non essere di fantasia? Da tempo assistiamo all’auge della letteratura «transgenere», che dissolve i generi o li scavalca, che attacca certe convenzioni, come il narratore onnisciente e il modello classico – ottocentesco – di romanzo, che ha dispensato tanto piacere ai lettori. E tutto in un contesto in cui la letteratura del «reale» – inserite qui tutte le virgolette che volete – guadagna terreno tra gli scaffali delle novità. Scrittori, critici e editori intervengono in un dibattito appassionante e, probabilmente, senza fine.

All’inizio di uno dei suoi romanzi, Graham Greene avvertiva: «Questa è un’opera di fantasia. Nessun personaggio qui ritratto ha alcuna somiglianza con persone reali, vive o morte, ecc. ecc. Londra non esiste». David Shields in Fame di realtà utilizzava questa citazione scherzosa per parlare del carattere ibrido del romanzo: un genere, spiegava, nato (da Defoe a Flaubert, da Cervantes a Dickens) come una mescolanza imperfetta di documenti realisti, un po’ di storia e di autobiografia occulta. Più tardi, proseguiva lo scrittore molto in sintesi, Henry James avrebbe affermato che il romanzo come «prodotto artistico» doveva essere interamente di fantasia, concetto al quale alcuni scrittori del postmodernismo (i più audaci, ovviamente: Naipaul, Sebald) avrebbero risposto con un «necessario» ritorno al romanzo ibrido, in cui «il materiale che non è fiction viene ordinato, modellato e immaginato come fiction».

Ci troviamo dunque a una specie di nuovo punto di origine della storia letteraria? Da tempo alcuni degli scrittori più riconosciuti – indipendentemente dalla provenienza – sono passati alla non fiction e alla prima persona (molte volte insieme). Perché l’hanno fatto? Hanno pensato improvvisamente di non essere capaci di «inventarsi» una storia? «Certo, sicuramente non ne sarebbero capaci», risponde il critico Nadal Suau, «proprio per questo non devono farlo! Non significa che non capiscano come funzioni un romanzo classico, che funzione abbia, a cosa “serva”. Significa, semplicemente, che sono un altro tipo di scrittori. E finché parliamo di buoni scrittori, è normale che si dedichino a scrivere quello che possono e sanno scrivere».

FictionUna traiettoria paradigmatica è quella di Javier Cercas (che nel suo ultimo libro, Il punto cieco, spiegava con precisione la sua idea di romanzo). Nel suo caso, spiega a El Cultural, si è reso conto che la prima persona era «lo strumento migliore» a sua disposizione «per parlare del mondo». E aggiunge: «Io sono fondamentalmente un romanziere e, per me, la mescolanza di generi è connaturata al romanzo; è così che Cervantes ha inventato il genere: come un genere fatto di generi, in cui tutti i generi trovano spazio (compresi quelli non letterari). Questa è una delle virtù principali del genere – la sua capacità di fagocitare tutto, il suo camaleontismo cronico, la sua versatilità quasi infinita – e anche una garanzia della sua durevolezza: contro coloro che dicono che il romanzo è morto (lo dicono da quando è nato il romanzo), io credo che sia in fasce. Il problema è che non vedo i romanzieri approfittare di questa virtù capitale del genere, perché quello che continuiamo a scrivere per lo più, temo, sono romanzi aggrappati al modello tradizionale, ottocentesco. Cioè non stiamo sfruttando a fondo la lezione di libertà di Cervantes».

del MolinoSergio del Molino, un altro rappresentante di questa nuova (o vecchia) ondata, ubbidisce, afferma, a un mandato di onestà. Se racconta delle storie, e queste storie sono «reali», perché non dirlo al lettore? Secondo lui, oggi si «abusa dell’etichetta di autofiction» per indicare qualsiasi testo scritto in prima persona. Quando l’unica certezza è che il romanzo non ha né può avere origine se non nell’esperienza: «Quello che facciamo oggi non è per niente lontano da ciò che faceva Proust. Nella prima persona di Alla ricerca del tempo perduto, in quell’attaccamento alla realtà, troviamo Proust, che alla fine ha vinto la battaglia. Tutti i narratori del XX o XXI secolo che utilizzano la prima persona devono riconoscersi in lui».

Autofiction o civetteria

Nell’ambito del successo delle narrazioni del reale, è già emersa (era inevitabile) la sua manifestazione più notevole, l’autofiction, che genera i dibattiti più accaniti. Ritratto onesto o posa conveniente? Per lo scrittore Luis Magrinyà è chiaro: «In generale potremmo definire il genere chiamato “autofiction” come un “autoritratto favorevole”. Anche quando si racconta di quanto uno sia sfortunato o dispiaciuto, che è poi un altro modo per allungare il brodo». Darío Villanueva, direttore della RAE (Real Academia Española) e professore di Letteratura Comparata, parla di una sorta di inevitabile impostura. «La svolta avviene con il New Journalism e il non-fiction novel. Un genere di grande successo, che ha prodotto opere maestre. Ma non dimentichiamo che scrivere della propria realtà presuppone di per sé una certa forma di impostazione. Lo diceva già Pessoa, il poeta è un fingitore. Stando così le cose, il confine tra realtà e fiction è molto sottile».

MagrinyàAltri – come Magrinyà – vanno più indietro alla ricerca delle origini. «Quando il romanzo è incentrato sull’io, forse l’origine è da ritrovarsi nel Malte Laurids Brigge di Rilke. Quando il romanzo non è del tutto incentrato sull’io, sicuramente – e curiosamente – i pionieri sono i narratori onniscienti del XIX secolo: quelli che, se dovevano inserire in un romanzo a che ora arrivava il primo treno della mattina da Parigi a Rouen, si alzavano all’alba, andavano alla stazione, aspettavano e alla fine segnavano l’ora. Capote lo chiamava “romanzo reale”: assicurava che tutto ciò che raccontava era “reale”; poi si è visto che non era vero, che si era inventato molte cose, eppure mi è sempre sembrato che A sangue freddo fosse molto flaubertiano».

Quindi che cosa è cambiato? È solo una questione di pudore? Mancanza di immaginazione forse? «L’idea che l’immaginazione sia sinonimo di inventare fatti e personaggi è molto riduzionista», segnala Nadal Suau, «è immaginazione anche trovare connessioni insospettate tra fatti reali, dare una forma convincente ai propri ricordi d’infanzia o trovare, in una genealogia familiare privata, gli elementi che permettano di trasformare quella famiglia nello specchio di altre. Detto ciò, la prima persona o la referenzialità autobiografica sono un’altra strategia stilistica, non è togliersi la maschera ma scegliere la maschera adeguata». Secondo Cercas, «la fiction pura non esiste, e se esistesse, non avrebbe il minimo interesse. La fiction pura è un’invenzione di chi non sa cosa sia la fiction. La fiction parte sempre dalla realtà, che è il suo carburante: la fiction è, in definitiva, una rielaborazione della realtà che vuole dotare il particolare di significato universale».

PronAnche secondo Patricio Pron, l’affermarsi dell’autofiction non ha a che fare con la mancanza di pudore, ma con «uno sforzo da parte di alcuni autori di mettere in discussione i modi in cui è possibile produrre realtà in letteratura e al di fuori di essa». Questo, aggiunge, in un contesto mediatico (i produttori di notizie, le reti e i mezzi di diffusione) «in cui la manipolazione e l’errore sono inevitabili se non si rivedono le modalità di pensare il reale». Pron tuttavia riconosce che «ci sono centinaia di scrittori che, lungi dal voler mettere in discussione nulla, desiderano solo raccontarci le cose che gli sono successe, che siano rilevanti o, come nella maggior parte dei casi, perfettamente dimenticabili».

Soluzioni di modernità

Luis Mateo Díez, che nel suo ultimo libro, Los desayunos del Café Borenes, attaccava il discorso relativista della dissoluzione dei generi, malgrado ciò riconosce che nell’ambito dell’autofiction «sono state trovate soluzioni di modernità», e che si tratta di «un rifugio legittimo per lo scrittore che, sotto un apparente guscio autobiografico, reinventa ciò che vuole».

La settimana scorsa, Julian Barnes diceva su El Cultural che non gli interessava come avrebbero definito il suo libro su Šostakovič. Romanzo? Biografia? Non importa. «Critici e romanzieri litigano su cosa sia e cosa non sia un romanzo», interviene Del Molino. «Per me non è importante, va bene che tutto sia romanzo; il romanzo è il genere più proteiforme che esista, contiene tutto. Definire oggi i confini del romanzo non ha senso». Per l’autore di La hora violeta, «l’unica certezza è che il narratore onnisciente è stato distrutto e la terza persona è stata diluita. E che questa dissoluzione nasce in parte come rifiuto di quelle teorie strutturaliste e post-strutturaliste che proclamavano la morte dell’autore».

EchevarriaDavid Shields attribuiva il successo del romanzo reale al fatto che viviamo in tempi artificiosi, e che i reality, i memoir o le biografie saziano totalmente il desiderio di autenticità della gente. Ignacio Echevarría, critico e editore, sottoscrive la diagnosi di Shields. «Non ho dubbi che la tendenza verso la non fiction ubbidisca a ciò che possiamo considerare, molto vagamente, come “fame di realtà”. Ma bisogna diffidare dell’identificazione tra realtà e non fiction, così come dell’opposizione tra realtà e fiction. Non è così facile distinguere l’una dall’altra. D’altra parte, ciò che presumibilmente è testimoniale, documentaristico, rivela spesso un margine maggiore di manipolazione ideologica. Come se non bastasse, la questione è viziata dall’insinuarsi di categorie intruse, come quelle di verità e menzogna. Tutte quelle assurde chiacchiere sulla fiction intesa come la verità delle bugie e sciocchezze simili».

Secondo Luis Mateo Díez «l’eccesso di realtà è disorientante», perciò oggi sono più importanti che mai «le fiction che spiegano ciò che succede attraverso elementi metaforici». È significativo che la letteratura «transgenere», la letteratura che dissolve i generi, riservata in origine – secondo Walter Benjamin – alle grandi opere, si sia trasformata in un ulteriore prodotto dell’ortodossia. «È già un genere da accademia», ritiene Magrynà, «per aspiranti al Premio Nobel e immagino ormai anche a premi comunali». «Senza dubbio il “transgenere” è un genere in più, e la “moda” antiprecettista è un classicismo al contrario», aggiunge Echevarría. E Nadal Suau: «Non so se sia un genere in sé, ma certamente è un’opzione che ha una sua tradizione, con le sue regole e i suoi riti. Il che mi sembra positivo. Alla fine l’importante è capire se lo scrittore sa cosa sta facendo, se c’è una coscienza estetica e il talento necessario per metterla su carta». Secondo Patricio Pron, «è evidente che come genere sia molto più interessante della ripetizione di qualcosa di già visto e provato».

È legittimo divertirsi?

Quasi tutti gli intervistati sono scettici sul fatto che oggi i lettori preferiscano la non fiction. Di certo, mentre il lettore letterario può oscillare verso la non fiction, il successo della formula ottocentesca del best seller, il genere poliziesco e persino l’erotico smentiscono il fatto che il lettore medio cerchi più di prima ciò che è basato su fatti reali. «I lettori preferiscono la non fiction?», si chiede Cercas. «Non mi pare sia così, né in Spagna né nei Paesi vicini. Per quanto riguarda i romanzi convenzionali – ossia, brutti – mi sembra normalissimo che siano molto letti: da quando il romanzo è romanzo – cioè dal XIX secolo – sono sempre stati i più letti».

Jorge_Herralde_Anagrama_Pollito_LibrosLettori diversi cercano esperienze diverse nella lettura, secondo Jorge Herralde (nel suo catalogo Anagrama troviamo forse il caso europeo più emblematico di autofiction contemporanea: Emmanuel Carrère). «La lettura di tanti best seller», sostiene l’editore, «risponde a un desiderio (legittimo, persino legale) di intrattenimento, mentre tra i romanzi di non fiction compaiono titoli di altissima qualità letteraria». Basandosi sulla sua esperienza di editore per Lumen, Silvia Querini è convinta che certi lettori oggi cerchino sì più realtà nei libri, nei «memoir romanzati» per esempio, che sarebbero un caso di «genere ibrido»; libri con «storie personali e universali allo stesso tempo».

 

Romanzi dopo i 40

«Ritengo che un uomo che dopo i quarant’anni legge ancora romanzi sia un cretino completo, il che non significa che al mondo non esistano otto o dieci romanzi magnifici». Sotto la superficie di questa clamorosa frase di Josep Pla ci sono almeno due idee da tenere in considerazione: ci sono lettori che smettono di leggere romanzi quando maturano, e ci sono lettori che ritengono che i buoni romanzi siano già stati scritti tutti, e quindi diventano più intransigenti. «L’affermazione di Pla è solo una boutade» commenta Cercas, «ed è quasi un insulto al suo autore prenderla sul serio: Pla, che per gran parte della sua vita ha cercato di diventare romanziere, non era così stupido da ignorare che è divertentissimo e utilissimo leggere, a qualsiasi età, il Chisciotte, o Moby Dick, o Il processo. In conclusione: a me, da adulto, piacciono i bei romanzi così come mi piacevano da bambino o da adolescente. Solo che a quel tempo me ne piacevano alcuni e ora me ne piacciono altri».

Nonostante con l’età il suo gusto per la fiction sia rimasto intatto, Pron assicura che alcune convenzioni narrative sono per lui «irritanti». Come «il narratore onnisciente, anche se ciò può essere dovuto non all’età ma al fatto che la carenza dei mezzi tecnici in molti degli scrittori contemporanei fa sì che questo tipo di convenzioni siano dappertutto, rovinando quasi tutti i libri». Ignacio Echevarría e Luis Magrinyà alludono a un’idea simile. «Come lettore sono sempre più intransigente, più impaziente con i romanzi brutti o mediocri», dice Echevarría. «Ma è una cosa che ha a che fare con l’aspettativa di vita, con il passare del tempo, non necessariamente con il fatto di non credere nel genere». E aggiunge: «Considero la fiction in generale, e il romanzo in particolare, come uno specifico modo di pensare. È una funzione dell’intelligenza, connaturata alla specie. Se si prescinde da essa, per qualsiasi ragione, si perde l’accesso a determinate forme di complessità, a interi territori dell’emozione, dell’immaginazione, del mondo, della bellezza».

Secondo Magrinyà, «a partire da una certa età, e se si è letto un po’, non è che costi di più leggere un genere rispetto a un altro, ma il fatto è che non ci si trova più nella fase empirica. Vale per i romanzi e per tutto. Anche a rischio di sbagliare e di perdersi qualcosa, si giudica attraverso alcuni indizi, e se gli indizi di un libro non ci convincono, non lo si legge o lo si abbandona subito». Nadal Suau, secondo cui «a partire dai quattordici anni è poco raccomandabile leggere con ingenuità», sospetta che l’abbandono della fiction possa avere a che fare «con un pregiudizio utilitaristico, secondo cui un libro che racconta “fatti reali” è più istruttivo di un altro interamente inventato, e perciò si perde meno tempo».

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