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La possibilità di una poesia

Hernán Ronsino Scrittura, SUR

Pubblichiamo oggi la terza parte di un testo di Hernán Ronsino, scritto in occasione del 10° Congreso Argentino de Literatura de Santa Fe: un viaggio attraverso la scrittura, possibile, impossibile, interrotta. Potete leggere la prima parte qui e la seconda qui.

«La casa e il violino» / 3
di Hernán Ronsino
traduzione di Giulia Zavagna

Allora cercai di scrivere una poesia dopo aver letto, per esempio, Alberto Szpunberg, dopo aver letto questo verso di «Cap de Creus». Szpunberg scrive: «Anche le parole necessitano di una promessa per affollarsi in un / punto, in una poesia, / come la spuma nel vuoto della roccia». Questo scrive Szpunberg. E io penso a quella casa come una promessa che intrappola come un astro. Come un astro nel bel mezzo della pampa infinita. Scrivere una poesia mi lancia in un vuoto simile a quello che sento quando ho tra le mani uno strumento musicale, un violino, per esempio. Un’estate, avrò avuto sette anni, morì il vicino di casa dei miei genitori, suo figlio dopo il funerale iniziò a svuotare la casa. Iniziò a buttare via cose. Mio padre sapeva che l’uomo che era morto aveva un violino – aveva suonato per un po’, in gioventù, in un’orchestra di tango. Il violino era poco curato, impacchettato. Non funzionava. Eppure il figlio non esitò e lo diede a mio padre. Quel violino divenne quindi uno dei miei giochi preferiti. Per questo, dopo un paio di settimane, dissi ai miei genitori che volevo imparare a suonare. Durante le vacanze invernali mio padre mi fece salire sulla Falcón 64 e andammo al conservatorio che c’era in centro, di fronte alla piazza. Per andarci mio padre si mese delle scarpe che aveva usato per qualche comunione o per un matrimonio. Piovigginava. Entrammo rispettosamente. Come si entra in casa di un medico. Il conservatorio per me era un luogo impossibile da immaginare, forse per quella stessa parola, conservatorio, e credo che a mio padre succedesse qualcosa di simile. Ma quando entrammo fu come se fossimo entrati in una scuola. Ci accolse una segretaria. Mio padre le raccontò il motivo per cui eravamo lì. La segretaria ci guardò e ci chiese di aspettare un minuto. Poi ci fece passare nello studio del direttore. Il direttore salutò mio padre – lo conosceva di vista, così disse – e ci fece accomodare. Mio padre raccontò di nuovo il motivo. Io guardavo le foto del direttore sopra la scrivania: insieme a familiari, a ex alunni, mentre suonava la tromba. E sulla parete alle mie spalle un ritratto di Alberto Williams accanto a un ritratto di San Martín. Allora, dopo aver ascoltato mio padre, il direttore ci disse che ciò che volevamo non sarebbe stato possibile. Purtroppo, disse. Quando mio padre sentì quelle parole, alzò la voce. Ma come, strillò. Io mi feci piccolo piccolo. Il direttore lo fece calmare e disse, chiarendo il concetto, che non sarebbe stato possibile perché da un anno il conservatorio non aveva più un professore di violino. Non ci mandano nessuno, disse. E che se volevo studiare violino avrei dovuto viaggiare per più di cento chilometri, fino a Pergamino. Ma se vuole, propose, il ragazzo si può iscrivere a piano o a chitarra. Il direttore parlava con mio padre. Allora mio padre mi guardò. E io sentii per la prima volta qualcosa che non riuscivo a spiegare molto bene. Scegliere violino non era lo stesso che scegliere piano o chitarra. E poi, io avevo un violino. Il direttore e mio padre restarono d’accordo perché mi prendessi un po’ di tempo per pensarci. Ma il tempo si dilatò poco a poco. E io non presi mai quella decisione. Per questo i miei genitori hanno pensato che quel capriccio di imparare violino mi fosse passato. Per questo non ho mai studiato musica. Ogni volta che mi avvicino alla scrittura di una poesia sento la stessa impossibilità che sento quando ho tra le mani un violino, per esempio. Ogni volta che mi cimento nella scrittura di una poesia mi appare l’immagine di una casa abbandonata in mezzo alla campagna. E di quel mistero, che la sostiene nell’abbandono. Eppure sappiamo, e questo è certo, che la parola mistero ormai non spiega nulla come diceva Zelarayán («il poeta che scrive perché non riesce a scrivere», così lo definiva Osvaldo Aguirre). E Zalarayán lo dice in quel bellissimo verso di La gran salina: «La parola mistero bisogna schiacciarla come si schiaccia una pulce, tra i due pollici/tra due dita. La parola mistero ormai non spiega nulla. / (Il mistero è nulla e il nulla non si spiega di per sé) / Bisognerebbe rimpiazzare la parola mistero / per ciò che io sento quando penso ai / treni merci / che passano di notte per la salina».

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