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«Era un grande poeta»: César Vallejo nelle parole di Ciro Alegría

redazione Autori, César Vallejo, Ritratti, SUR

CésarVallejo_EdizioniSUR

Illustrazione di Carolina Ríos

Tungsteno di César Vallejo è in libreria. Pubblichiamo oggi la seconda parte di un suo ritratto scritto dal peruviano Ciro Alegría. Il pezzo è tratto da El Malpensante, che ringraziamo. La prima parte dell’articolo è disponibile qui.

«Il César Vallejo che ho conosciuto io» / 2
di Ciro Alegría
traduzione di Francesca Signorello

 

 

 

Fu così che conobbi César Vallejo, e fu così che lo vidi, come fosse la prima volta. Le parole che gli sentii pronunciare a proposito della Terra sono anche quelle che mi sono rimaste più impresse. Il tempo mi avrebbe rivelato nuove sfaccettature della sua persona, i lunghi silenzi in cui cadeva, il suo atteggiamento di infinita tristezza e altre che compariranno a breve tra queste righe.

La sera a casa, durante la cena, mi domandarono: «Ti piace il tuo professore?»
«Sì», risposi.

Era inesatto. Non è che mi fosse proprio piaciuto. Mi aveva colpito e turbato, sucitando in me un certo interesse, ma non senza trasmettermi un senso di distacco. Dopo cena, su insistenza di mia nonna, scrissi a papà. Una matitina spuntata cominciò a scarabocchiare le mie impressioni. Quando arrivai a quelle riguardanti la scuola e Vallejo, non seppi cosa dire su di lui. Dopo averci riflettuto parecchio e aver abbozzato varie spiegazioni, scrissi che il mio professore somigliava a Cayo Oruna. Tempo dopo seppi che mia madre, leggendo la lettera, aveva sorriso con dolcezza e che mio padre si era messo a pensare al poeta. Amava il suo paesino e potè esaminare Vallejo dal fondo della propria anima costellata di ruvidi orizzonti andini.

A Trujillo, Vallejo aveva detrattori accaniti e sostenitori acerrimi. A casa mia, come in tutte quelle della città, c’era un divario di opinioni. La maggior parte della gente lo attaccava. Mia zia Rosa, una persona coltissima e appassionata della lettura, che scriveva di nascosto, era una sua fedele ammiratrice. «È un grande poeta, è un genio!», diceva quasi urlando tra gli accesi litigi. Ricordo perfettamente che una volta arrivò uno dei miei zii sventolando un giornale con una poesia di Vallejo. Avanzò verso di noi.

«Vediamo un po’, Rosita, voglio che tu mi spieghi questo: “Dove saranno le sue mani che con aria contrita stiravano la sera candori da venire?”[1] È una poesia o una sciarada? Su, dai, sono tutto orecchie…»

Mia zia Rosa prese il giornale e, man mano che leggeva, arrossiva sempre di più. Alla fine la donnina fragile e nervosa che era si alzò piena di rabbia: «Questa è una poesia meravigliosa e, se tu non la capisci, la colpa non è di Vallejo ma tua, che sei uno zoticone…»

Esplose di nuovo la discussione.

Nel frattempo io continuavo ad andare a lezione. César Vallejo ci insegnava i rudimenti di storia, geografia, religione, matematica, nonché a leggere e scrivere. Cercava anche di insegnarci a cantare, ma noi eravamo più bravi di lui, perché lui era stonatissimo. Quanto a marciare, non si preoccupava che lo facessimo bene, a differenza dei maestri degli altri anni delle elementari, che si accanivano sui loro alunni. Quando il nostro schieramento, quello dei bambini del primo anno delle elementari, guidato dal professore capellone, attraversava le strade per una passeggiata fuoriporta, o in occasione delle sfilate del 28 luglio, noi non tenevamo un passo regolare ed eravamo una mandria piuttosto sgraziata. Alla vista del nostro professore, sentivamo la gente ferma sui marciapiedi mormorare: «Ecco lì Vallejo!», «Ecco lì Vallejo!»

Un’attività che lo deliziava era farci raccontare storie, farci parlare delle cose banali che vedevamo ogni giorno. In seguito ho pensato che di certo provava piacere nel guardare la vita attraverso gli occhi limipidi dei bambini, e scopriva fonti di poesia nascoste nel loro linguaggio pieno di metafore impensate. Forse cercava anche di risvegliare in noi le capacità di osservazione e creazione. La cosa certa è che spesso ci diceva: «Adesso facciamo due chiacchiere…» Una volta si appassionò al mio racconto sui volatili da cortile che avevo a casa. Mi fece descrivere per tutta l’ora come combattevano il tacchino e il gallo, il modo in cui l’anatra nuotava nel pozzo con i suoi piccoli, e cose del genere. Quando io mi zittivo, ecco che arrivava lui con una domanda incalzante. Sorrideva guardandomi con i suoi occhi luccicanti e tamburellava le dita sulla cattedra. Quando suonò la campanella che annunciava la ricreazione, mi disse: «L’hai raccontato bene». Ho il sospetto che questo sia stato il mio primo successo letterario.

Ma i nostri racconti non sempre gli procuravano piacere. Un giorno chiamò un bambinetto che era un po’ ritardato. Il piccolo, forse più intimorito dal cattivo umore del nostro professore – aveva la bocca contorta e le sopracciglia aggrottate – non riuscì a dire quasi niente, ripetè la stessa frase diverse volte e tutto a un tratto ammutolì. «Si sieda», gli ordinò Vallejo con una rudezza quasi sprezzante. Il bambinetto tornò al proprio banco e, incrociando le braccia, vi affondò la testa scoppiando in lacrime. Vallejo si alzò turbato e andò dal piccolo. Stringendogli le mani, se lo portò fino alla cattedra, dove gli accarezzò la testa e le guance finché quest’ultimo non si fu calmato. Tirò fuori un grande fazzoletto per asciugargli le lacrime che gli brillavano ancora sul visino olivastro, e dopo rimase a guardarlo a lungo. Senza dubbio, nell’angoscia inconsolabile del narratore frustrato, avvertì quella stessa sensazione che lo opprimeva spesso e a cui aveva accennato nei suoi versi. Quando ricordo quell’episodio, mi sembra di vederlo con lo sguardo in ginocchio, in pena per il bambino, per se stesso e per tutti gli uomini.

Ma c’erano momenti in cui l’allegria vagava per la sua anima come il sole fra le colline, e allora diventava uno di noi, anche se adulto e con l’autorità necessaria per ottenere tremendi vantaggi. Bisognava vederlo quando faceva il detective. Era vietato mangiare frutta o succhiare caramelle durante l’ora di lezione. Di solito noi bambini compravamo sempre, visto che erano abbondanti ed economiche, delle caramelle che chiamavamo quadrotti, la merce che più elargiva la scarsa generosità dei pasticceri stazionati all’angolo della scuola. Vallejo, con il naso ficcato nel libro, faceva finta di leggere mentre qualcuno ripeteva la lezione, ma quello che faceva in realtà era lanciare di traverso sguardi indagatori a tutta la classe. Quando scopriva un delinquente, si drizzava con un sorriso trionfale e, andandogli incontro, lo ammoniva: «Non vi ho forse detto di non mangiare quadrotti in classe?» E in un attimo gli sequestrava le caramelle, tirandole fuori dalle tasche con eccessiva diligenza, e le spartiva tra tutti o tra i più vicini, a seconda della quantità. Non seppi mai se gli piaceva di più cogliere in fallo i trasgressori o spartire le caramelle tra i bambini. Durante queste perlustrazioni, la sua vena giocherellona ci travolgeva e ridevamo tutti felici.

Il regolamento prescriveva la pena della reclusione per chi teneva una cattiva condotta o non ripeteva bene la lezione. Durante tutta la giornata César Vallejo compilava una lista di quelli che parlavano durante l’ora di lezione o erano impreparati, ma, non appena suonava la campanella, strappava il foglietto di carta in mille pezzi. Si capisce che noi non attribuivamo molta importanza al fatto di essere segnati sulla lista, ma da un po’ di tempo lui ci faceva delle sorprese, di sicuro per non farci prendere troppe confidenze, e alle quattro di pomeriggio consegnava la compunta quota di reclusi della prima elementare all’ispettore di turno. Il castigo era semplice e diretto: una tirata di capelli all’altezza delle tempie.

La mattina Vallejo arrivava in classe qualche minuto dopo che suonasse la prima campanella e, a volte, con un ritardo maggiore. Entravamo alle otto, ma forse il professore era troppo preso dalla veglia della creazione o a fare le ore piccole in compagnia di amici – ed erano amici suoi tutti gli scrittori giovani della città – o dai suoi studi universitari, per cui cercava sempre di scacciare il sonno. La sua mancanza di puntualità raggiunse un livello tale che, una mattina, si presentò il preside della scuola in persona per vedere cosa stava succedendo e cominciò a farci lezione. Quando giunse Vallejo, si creò una situazione imbarazzante, che il preside liquidò dicendo al professore di passare dal suo ufficio subito dopo l’uscita. Per un certo periodo Vallejo arrivò in anticipo, ma dopo ci ricascò e continuò a presentarsi tardi, anche se ormai accadeva meno di frequente.

Fuori da scuola, i suoi versi continuavano a provocare come reazione logica commenti aspri ed elogiativi, e perfino di condanna. Girava voce che il nostro professore era stato assalito durante la notte da un gruppo di individui che avevano cercato di tagliargli la chioma. Lui si era difeso con violenti calci e pugni. Guardai con curiosità la sua criniera di leone. Era intatta. Mi parve che in quei giorni, di sicuro finché persistette il ricordo dell’attacco, la sua tristezza abituale si era tinta di una violenza contenuta e di un’amarezza pungente.

L’assalto mi commosse parecchio, poiché non riuscivo a spiegarmelo. Devo ammettere che allora ero già diventato un ammiratore di Vallejo, se così posso dire. Successe che un giorno, deciso e esaminare da solo la sua poesia misteriosa e incomprensibile, osai chiedere alla zia Rosa i versi del mio professore, che lei ritagliava senza tralasciarne nessuno e conservava gelosamente. Porgendomeli, affondò le sue mani candide come gigli tra i miei capelli e mi disse che, se non li capivo, non dovevo pensare male dell’autore. Chiuso nella mia stanza, curvo sullo scrittoio e sulle poesie, mi resi conto innanzitutto che contenevano molte parole di cui ignoravo il significato. Presi un grosso dizionario che facevo fatica a tenere in mano e m’immersi in una esplorazione che trovai difficilissima.

Lontano accordo di campani mesti
dissemina nell’aria
la rurale fragranza dei suoi affanni.[2]

Cercai la parola campani. Cercai mesti. Man mano che procedevo nella mia penosa lettura, quei versi mi assalivano, trasmettendomi numerose emozioni contraddittorie. Soffrivo e gioivo, mi rincuoravo e mi affliggevo. Una piena sensazione di felicità mi invase quando, in questa stessa poesia, riuscii a cogliere il gallo («aleggiando la pena del suo canto»). Tra parole comprese e incomprese, la poesia Paesana, una delle prime pubblicate da Vallejo, mi parve bellissima. Fui travolto dall’emozione del crepuscolo rurale, dai suoni e dai colori della sera morente. Quale dono segreto faceva sì che quest’uomo scrivesse così? M’imbattei in poesie meno pittoresche che non compresi dall’inizio alla fine e, quando lessi Idillio morto, la domanda fatta alla zia Rosa qualche mese prima mi parve formulata a me stesso. Nemmeno io capivo il riferimento alle mani, e tanti altri versi. A ogni modo, mi consolai con il poco che avevo capito e pensai che forse, quando sarei diventato grande… Consegnai alla zia Rosa i suoi ritagli di giornale senza dirle neanche una parola, e neppure lei mi disse nulla. Fatta eccezione per i suoi stati di esaltazione passeggeri, era molto distinta e sicuramente temeva di ferirmi se le sue domande si fossero rivelate indiscrete. Però, da quella volta, quando elogiava César Vallejo, mi rallegravo come se parlasse a nome mio e mi sentii più vicino al mio professore. Qualcosa ero riuscito ad apprezzare della bellezza che abbondava nei suoi versi. Quanto alla sua scontrosità e alla sua tristezza… be’, Cayo Oruna… e poi uno a volte è così solo… Perché io a scuola mi sentivo terribilmente solo… I ragazzini mi prendevano sempre in giro per la mia condizione di montanaro e per il fatto che avevo le guance rosse ed ero molto ingenuo. Tanto che quando girò la voce dell’assalto a Vallejo, mi dispiacque tantissimo e mi venne voglia di sfogarmi su qualcuno. Che lo lasciassero in pace quell’uomo, una buona volta! Lui era un grande poeta. In ogni caso, non faceva male a nessuno con la sua chioma e i suoi versi…

Intanto il professore, che era al tempo stesso un artista triste e solo, continuava a farci lezione e il tempo passava. Nelle ore di conversazione mi faceva parlare non solo di quello che avevo visto ma anche di quello che avevo sentito raccontare. Ricordo che lo commosse la storia di un cieco che viveva in una tenuta vicino alla nostra, e che vagava per gli accidentati sentieri montani proprio come se ci vedesse, e riusciva a riconoscere dal timbro della voce persone che non sentiva da anni, e per di più era un indovino. Un pomeriggio mi domandò: «Stai leggendo altri libri?». Io lo misi al corrente e lui mi disse di portarne altri, visto che quelli in programma li conoscevo già. Io, ovviamente, portai in classe le raccolte di racconti che mi avevano donato i miei parenti o che avevo comprato con le mie mance, ma anche le riviste e i libri che la zia Rosa mi permetteva di prendere in prestito, tirandoli fuori dalla sua biblioteca personale. A volte Vallejo mi domandava delle mie letture, ma io, da parte mia, non gli raccontai mai che mi ero spinto a leggere i suoi versi. Temevo che mi domandasse se li avevo capiti e, in quel caso, avrei dovuto confessargli che non li avevo capiti del tutto, anzi poco o per niente. Non mi sembrava una scusa sufficiente la possibilità di spiegargli che la zia Rosa mi aveva avvertito che ero troppo piccolo per apprezzare quelle poesie. Quindi tacevo in attesa di tempi migliori. Sarei diventato grande e avrei potuto parlare con il signor Vallejo in persona dei suoi versi e di tutti i versi in genere. Quando una volta mi chiese di recitare qualcosa, respinsi i campani in fondo al petto e ripetei una delle poesie per bambini più semplici che conoscevo. Era una che cominciava così:

Nel bel mezzo di una pianta
senti il tordo come canta?
La sua voce sale al colle
dal suo nido caldo e molle.

I giovedì pomeriggio andavamo a fare una passeggiata in un posto non molto lontano dalla città, dove giocavamo a palla e correvamo. Uno di quei pomeriggi, dopo che io ebbi declamato una poesia, Vallejo mi chiamò al suo fianco e, seduti sul prato, mi chiese di recitargli tutte le poesie che conoscevo. E così io feci, costretto a ripetergli più volte quella che ho appena citato, e mi regalò un’arancia. Dopo il professore rimase immerso in un lungo silenzio. L’espressione serena che aveva qualche minuto prima era scomparsa. Immobile, con le mani sulle ginocchia, pareva che guardasse i ragazzi che giocavano a calcio, e che avevano segnato i pali della porta con mucchi di giacche e berretti. Notai che i frangenti della partita non lo interessavano e che, tutto sommato, non stava guardando un bel niente. Il suo silenzio prolungato fu tale da mettermi a disagio. Io non sapevo cosa dire né cosa fare. Lui era come assente e io speravo invano che mi permettesse di andarmene. «Posso andare?», gli domandai. Il suo silenzio e la sua immobilità rimasero costanti. Ne approfittai per svignarmela, corsi a lasciare la giacca e il berretto su uno di quei mucchi e mi misi a giocare a palla…

Nel tempo che seguì – credo che avevamo già superato metà anno scolastico – il nostro professore mi trattò con una certa cordialità. Quando mi vedeva in giro, mi dava una pacchetta amichevole sulla nuca. Ma non posso dire che facesse grosse differenze tra me e gli altri bambini. Probabilmente pensava: «Questo è un ragazzino a cui piace leggere», e in questo campo mi lasciava mano libera. Io, invece, ero andato acquistando, a poco a poco e sempre di più, una fiducia cieca nei suoi confronti. Nel cuore dei giovani e dei bambini c’è quasi una predisposizione innata a schierarsi, e io, nel caso di Vallejo, ero diventato un suo fermo sostenitore. Non avevo dubbi che quell’uomo bizzarro era un grande artista, anche se non ero riuscito a spiegare bene a nessuno perché ne fossi tanto convinto. Questa occasione arrivò un pomeriggio, prima della lezione. Uno dei miei compagni mi rivelò che suo padre sosteneva che Vallejo non era nessuno, nemmeno come poeta. Mia madre mi aveva ordinato di onorare e rispettare i maestri, perché il loro è un compito nobilissimo, così io ribattei: «E allora? È un professore, questa è una cosa buona…»

«Credi che essere professore sia una gran cosa? Per non parlare poi dell’ultimo della scuola, uno del primo anno… Un morto di fame…»

Subito mi resi conto dello sdegno con cui vengono trattati i professori in Perù. A parlare era un bambino appartenente a una delle grandi famiglie della città, figlio di un medico famoso. Era orgogliosissimo della sua condizione e, per dare il colpo di grazia al povero professore, disse: «Non è buono nemmeno come poeta… meglio Chocano. L’ha detto mio padre, lui sa di cosa parla».
«È un grande poeta», replicai io con convinzione.
«E tu che ne sai? Pensi di avere il diritto di parlare solo perché ti fa leggere qualche libro?»
«È un grande poeta», insistetti io.
«Vediamo un po’, dicci perché è un grande poeta…»
Non sapevo quali ragioni addurre. Non mi sembrava sufficiente presentare l’opinione della zia Rosa. Avrei voluto dire qualcosa di convincente.
«Dicci subito perché è un grande poeta», ripeté il mio oppositore.
Io ero perplesso. Come accade a certi pugili che stanno per cadere al tappeto, fu la campana a salvarmi.

Giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, l’anno scolastico passò. Arrivarono gli esami e il nostro professore ci promosse tutti, dandoci appuntamento per la cerimonia di consegna dei premi, fissata a fine dicembre.

Arrivò quel giorno. La sera l’ampio cortile d’onore del Colegio Nacional de San Juan era pronto per la cerimonia di gala. Ben illuminato e con le sedie disposte in semicerchio, lasciava intravedere in fondo un palco dove presero posto il preside e i professori. Quasi tutti indossavano un abito da cerimonia. Le famiglie degli alunni si accomodarono davanti, noi invece ai lati e al fondo. A noi mocciosi del primo anno ci scaraventarono in una delle ultime file. Di Vallejo, visto che occupava sul palco un posto molto secondario, si riusciva a intravedere solo la testa. Ma questa, dalla chioma voluminosa e dal colorito citrino, spiccava subito fra tutti quegli sparati bianchi e tutta quella luce… e tutte quelle teste senza carattere.

Non è il caso che io descriva la cerimonia nel dettaglio. È invece opportuno che io dica che non vinsi alcun premio, perché questi venivano estratti a sorteggio e, siccome eravamo in tanti ad aver ricevuto i voti più alti, i favoriti furono altri. Quasi alla fine della manifestazione, Vallejo abbandonò il palco e si diresse verso di noi. Vedendomi senza nessuna targhetta premio in mano, ricordò quello che era successo e mi disse: «Non badare alla fortuna». Scambiò qualche altra parola con molti di noi, ci domandò dove avremmo trascorso le vacanze e poi se ne andò. Poco dopo riuscimmo ad accorgerci che, invece di tornare sul palco, si era messo a vagare per i corridoi. Nella penombra disegnata dalle arcate si vedeva appena la sua sagoma nera, allungata, quasi spettrale, dietro la brace della sigaretta.

Quando il preside annunciò in tono solenne la chiusura dell’anno scolastico, César Vallejo si diresse verso la porta e uscì, confondendosi in una moltitudine formata dagli studenti e dalle loro famiglie. Qualche secondo dopo lo rividi per strada, mentre si dirigeva verso la piazza della città. Magro, lento, si perse in lontananza… Avrei potuto dirgli addio, dato che non l’avrei mai più rivisto. Quando ricominciarono le lezioni, César Vallejo non insegnava più al primo anno né a nessun altro. Pensando a lui ho sempre immaginato che stesse percorrendo un faticoso cammino da artista, e di uomo carico di sofferenze e distanze.

[1] «Idillio morto», César Vallejo, Opera poetica completa, a cura di Roberto Paoli, vol. I, Accademia, Milano 1976.

[2] «Paesana», César Vallejo, Opera poetica completa, a cura di Roberto Paoli, vol. I, Accademia, Milano 1976.

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