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I giocatori sono come i poeti

L’Argentina si gioca oggi pomeriggio, contro il Belgio, l’accesso alle semifinali della Coppa del Mondo brasiliana. Il percorso fin qua è stato poco spettacolare ma estremamente concreto, e quattro delle sette reti messe a segno finora portano la firma (le altre sono di Rojo e Di Maria, più un’autorete) di Lionel Messi, l’erede – e al contempo l’alter ego – di altri due diez storici dell’albiceleste: Omar Sivori e Diego Armando Maradona.
Attorno alle somiglianze tra questi tre fuoriclasse ruota il racconto di Ricardo Piglia, già apparso su Página12.

«I giocatori sono come i poeti»
di Ricardo Piglia
traduzione di Fabrizio Gabrielli

Presto sempre più attenzione ai giocatori che alle squadre, alle individualità più che allo schieramento tattico. Nel calcio, come nella letteratura, ciò che interessa è la creatività e lo stile.

Ho iniziato ad andare allo stadio nel 1954 (quell’anno, con mio padre, abbiamo seguito tutta la stagione del Boca Juniors, dove giocava come enganche[1] [1] – o numero 10 – l’uruguayano Roselló e in mezzo al campo – con il numero 5 – il grande Eliseo Mouriño), e in questi sessant’anni ho visto moltissimi giocatori e moltissimi cambiamenti nel modo di difendere o di attaccare e bloccare una squadra; ma se dovessi sintetizzare la tradizione del calcio argentino, farei tre nomi: Enrique Omar Sívori, Diego Maradona e Lionel Messi.

Si somigliano molto, giocavano uguale, intendevano il calcio nello stesso modo: sono piccoletti per niente atletici, assai individualisti, e sanno riprodurre a memoria tutte le figure poetiche del calcio: lo scatto, la finta di corpo che disorienta il difensore, la apilada,[2] [2] il cambio di ritmo, il tiro a effetto, il dribbling stretto, la pisadita[3] [3] («ce l’hanno attaccata al piede», dicono i ragazzi in curva); non corrono, sono rapidi, molto intelligenti, sono sempre un millesimo di secondo avanti, come se giocassero nel futuro della partita. Imparano a giocare a pallone nei campetti improvvisati, di terra battuta, con l’erbetta rasa. Giocano con le calze calate, debuttano in Prima Divisione a tipo sedici anni, ma la gente si alza presto anche per vederli giocare in Terza Divisione e si passa la notizia in segreto, come quando uno legge il primo libro di un giovane che è destinato a cambiare il linguaggio della poesia.

Vamo vamo los pibes, dài dài ragazzi, è il grido di battaglia nelle tribune argentine; ma è anche la disperata richiesta che appaia nuovamente uno di quei giocatori che da soli giustificano il fatto di andare allo stadio. Come se un giorno i lettori si unissero – nelle Fiere del Libro di Madrid o di Guadalajara o di Buenos Aires o nell’esclusivo Salon du Livre di Parigi – e gridassero Vogliamo un Rimbaud! Vogliamo un Rimbaud!

Quel tipo di giocatore viene su così, non ha bisogno di imparare nulla, si somigliano tutti tra loro, ogni volta è come se reinventassero il fútbol argentino. Mio padre, che ha visto giocare Di Stefano, Pelé e Maradona, ha detto che non aveva mai visto un calciatore come Adolfo Pedernera, un nove arretrato che giocava nel River; e il mio amico Jorge Herralde, che si intende di libri quanto di calcio, ricorda ancora con ammirazione Farro, Pontoni e Martino, i tre attaccanti del San Lorenzo che girò la Spagna in tournée alla fine degli anni Quaranta; e poi ho uno zio che diceva che Maradona gli allacciava gli scarpini a Capote De la Mata, una mezzala dell’Independiente che segnò dopo aver fatto un tunnel, una rabona,[4] [4] due sombrero[5] [5] e dopo aver scartato mezza difesa del River. Non l’ho visto giocare con i miei occhi, ma lo considero ugualmente parte dello storico stile del calcio argentino.

I brasiliani – Pelé, Didì, Zico, Nilton Santos, Socrates – sono straordinari, unici, ma sono diversi – dribbling larghi, ampia falcata, passaggi filtranti, foglie morte –, hanno un altro stile – somigliano più a T.S. Eliot che a Rimbaud, e per questo vincono sempre il premio Nobel; tutti gli altri – i tedeschi, gli inglesi, gli italiani, gli olandesi, gli spagnoli – ci piacciono pure, però ci sembrano un po’ rustici, meccanici (come la poesia di Günter Grass), triangolano, corrono, difendono tutti e addirittura si buttano!

«Miro al pubblico sportivo», diceva Bertolt Brecht, e aveva ragione; i tifosi argentini sono appassionati ma molto critici, i rumoreggiamenti e i commenti che si ascoltano allo stadio sono sempre giudizi da esperti. Gli basta vedere come un giocatore stoppa a terra un passaggio alto o come addomestica una palla quadrata («gli ha tirato un mattone e lui l’ha fatta tornare tonda», dicono) per valutare un calciatore.

In questo Mondiale noialtri argentini vedremo Messi (e il Kun Agüero). Che succederà? Difficile saperlo. Il calcio è come la vita – diceva mio padre –, a vincere non è mai il migliore.


[1] [6] Calciatore che opera da raccordo tra il centrocampo e l’attacco, qualcosa di simile al nostro trequartista. [n.d.t.]

[2] [7] Fuga solitaria, in dribbling, tra molti avversari: la apilada più famosa della storia è quella di Diego contro l’Inghilterra ai Mondiali di Messico ’86. [n.d.t.]

[3] [8] Spostare la palla con la pianta del piede verso un’altra direzione rispetto a quella di marcia per scartare l’avversario. [n.d.t.]

[4] [9] Gesto che consiste nel calciare la palla incrociando la gamba di tiro con quella d’appoggio. [n.d.t.]

[5] [10] Movimento con cui si scavalca l’avversario facendogli passare la palla sopra la testa. [n.d.t.]