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L’invenzione del mondo / 2

[1]

di Alan Pauls
traduzione di Raffaella Accroglianò

(Qui [2] la prima parte)

“Fu nell’87, ero andato con un’amica tedesca a El Tropezón, dove di era ucciso Lugones. Io non sapevo; mi ero immaginato un weekend romantico, edonista… e quando arrivai capii tutto. Una stanza umida con un letto d’ospedale e una lampadina che pendeva dal soffitto. Era così deprimente! Inoltre, non avevo mai trascorso 48 ore di seguito con la mia amica, non sapevo cosa sarebbe accaduto, così mi ero portato sei libri per due giorni. Appena arrivati andai a leggere sul molo, solo. A un certo punto mi tolsi gli occhiali e li misi nel taschino della camicia; però mi scivolarono, caddero proprio verticalmente, passarono in una piccola fessura del molo e scomparvero nell’acqua. Io non potevo leggere senza occhiali. Sarà complicato, pensai. E, completamente disperato, mi misi a pensare. E a pensare. E a pensare. E lì mi venne l’idea di un manuale, una specie di descrizione antropologica di una civiltà antica. Poi la modalità del manuale sparì e rimase solamente nelle note. Ma la premessa della civiltà indirizzò tutto”.

Tutto quello che La historia rivela su Calchaqui, in modo esatto, ci giunge attraverso due strade: una, un manoscritto del XVII secolo, naufrago di innumerevoli traduzioni, in cui un uomo chiamato Oscar, nel momento in cui sta per diventare il ventunesimo sovrano di Calchaqui, distrae le ore di agonia del padre, il sovrano in carica, pensando a come risolvere il problema su cui poggia la chiave del potere calchaqui: il sistema di regolazione temporale; la seconda, più contemporanea, è l’ossessivo apparato critico con il quale lo storico argentino glossa il testo di Oscar, dopo averlo esumato in una biblioteca, lo scannerizza quasi frase per frase e ricostruisce il mondo calchaqui con lo sguardo strabico delle Lettere in versione anni ‘60 e ‘70. “Nell’88 avevo già migliaia di note, cartelle suddivise per aree tematiche. La cartella ‘riti mortuari’. La cartella ‘giochi’. Quella ‘sessualità’. ‘Pasti’. ‘Usi e costumi’.

Ma fu un anno caotico: ‘El Monitor’ in tv, la rivista ‘Babel’… così a dicembre andai a Parigi con l’idea di scrivere per uno o due mesi. Per dieci giorni fui abbastanza perso. Un flop assoluto. Il 25 dicembre, mio cugino Sebastián e sua moglie mi invitarono a casa della famiglia di lei nella Loira, in una di quelle belle case borghesi dell’inizio del XIX secolo che i francesi abusivamente chiamano châteaux. Andai. Buon cibo, cazzeggio, una bella biblioteca.

Mi ricordo i volumetti dell’opera completa di Buffon, e un articolo sulle giraffe, dettagliatissimo, che trascurava però di menzionare la lunghezza del collo. E me ne stavo lì, tutto era molto tranquillo, il cammino acceso, quando mi venne l’idea di cercare il racconto di questa civiltà in una biblioteca. E lì, seduto, cominciai a scrivere a mano la scena: uno storico argentino trova un manoscritto in un libro della biblioteca del castello di una signora un po’ più anziana di lui, nella Loira. Ebbi l’impressione di aver incontrato il detonatore che mi avrebbe permesso di raccontare tutta questa porcheria”.

Caparrós non ha evidenziato differenze gerarchiche tra il corpo principale del romanzo (la dichiarazione di Oscar) e le note (la lettura dello storico). Entrambi occupano uno spazio simile e ammettono qualsiasi ordine di lettura, come se fossero dimensioni autonome: “La prima cosa che il lettore incontra è l’epigrafe di Cervantes, ed è lì che deve decidere se leggere prima il racconto di Oscar, che comincia con la frase ‘Non ci sono più morti belle’, o le note. Io ho deciso di non prendere posizione. Ho passato anni pensando a cosa preferissi e non mi sono mai potuto decidere”.

Romanzo esotico, meno anacronistico che estemporaneo, La historia pratica una vanità iperrealista che sembra proteggerla da qualsiasi effetto allegorico e, al contempo, la radica in un’Argentina molto meno remota del XVI secolo, epoca nella quale la civiltà calchaqui – in teoria – era fiorita… nel nordest della nazione! Non è casuale che lo storico decifri il testo di Oscar durante gli anni di fuoco argentini (fine dei ’60, il decennio dei ’70, lo stesso periodo che Caparrós ricostruisce in La voluntad), che muoia nel 1976 e che i suoi commenti siano infarciti di entusiasmo militante. “Sì, il redattore delle note è un marxista un po’ dogmatico: ciò che scrive e i suoi riferimenti teorici sono tipici dell’epoca, e lo scherzo macabro è che immagina che il manoscritto ritrovato sia un testo fondante della Nazione. In questo senso, in La historia la disciplina storica è una presa in giro: il lavoro dello storico non ha oggetto, o il suo oggetto, piuttosto, è una mera invenzione dello storico. E, come è normale in ogni libro di storia, si sbaglia da cima a fondo nelle sue conclusioni. Anche se è vero che il suo errore ha una certa grandezza. La stessa cosa penso, a volte, del libro: che è un errore ‘eccellente’.”

Testa e croce. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare a prima vista, è ovvio che il Caparrós di La historia (fanatico dell’invenzione, scettico sofisticato, partitario dell’incertezza) e quello di La voluntad (scrittore di base, documentarista rivendicativo, spirito polemico) non sono due ma uno, uno solo e lo stesso, e che entrambi i libri sono uniti da affinità più profonde di una mera vocazione elefantiaca. Affinità o nemici comuni: lo small is beautiful, l’impero delle narrazioni timide, l’egemonia del frammentario, l’indietreggiamento dell’intenzionalità. E soprattutto due sparizioni ben note: la fine dei grandi racconti e la fine della storia. Questa è la mappa secondo Caparrós, e in questo paesaggio (che coinvolge contemporaneamente la sua relazione con la letteratura e con “l’impegno” politico) entrambi i libri si configurano come due facce dello stesso progetto. “La relazione è forte, anche dal punto di vista tematico. Uno dei due o tre motori di La historia è una specie di rivoluzione ‘leninista’, come La voluntad descrive un piano realista. La gente di Calchaqui comincia a riunirsi intorno a una rivendicazione: la conquista della vita dopo la morte, la ‘vita lunga’. E si mettono insieme secondo un modello di cellule per l’agitazione e la propaganda: il modello del partito leninista. L’idea stessa di avere il potere di modificare le forme del tempo, centrale nel romanzo, è l’idea chiave di qualsiasi progetto rivoluzionario. Negli ultimi secoli, di fatto, l’unico serio cambiamento nelle forme temporali si ebbe quando la Rivoluzione Francese riorganizzò il tempo a partire dall’anno zero: qualcosa era ricominciato, qualcosa che non poteva funzionare con il vecchio tempo”.

Nessuno conquista la storia senza volontà, ironizza Caparrós, sfruttando l’imprevisto successo di marketing dei suoi libri: ogni volta che uno dice “la storia” o “la volontà” sta parlando di loro. L’ironia è, senza dubbio, letterale. La historia, di fatto, deve la sua esistenza pubblica al successo di La voluntad. Due anni fa c’erano un paio di editori interessati a La voluntad, ma erano tutti spaventati dal numero di pagine di La historia. Pensò quindi di mettere in piedi una produzione molto artigianale, con una sottoscrizione per cento o duecento persone, un poco come fece Laiseca con Los sorias.

Invece vendette La voluntad alla casa editrice Norma, “e quando si vide che il libro prometteva bene potei fare un specie di patto faustiano con il mio editore, Fernando Fagnani: se gli fosse andata bene con La voluntad si impegnava a pubblicare La historia. La voluntad andò bene e Fagnani, con grande signorilità, confermò l’accordo e pubblicò La historia”.

Adesso, con il libro appena distribuito (“È arrivato nelle librerie il 6 aprile, un altro anniversario della morte di mio padre. Un dettaglio non poco rilevante per un romanzo che tratta solo di genealogie e di eredità”), Caparrós sembra al contempo perplesso e soddisfatto come un bambino che l’ha (quasi) avuta vinta. Ha fatto tutto quello che ha voluto: ha inventato una lingua (la lingua di Oscar: ”un castigliano di nessun luogo, con una dose di distanza molto forte, totalmente estraniato”), ha moltiplicato ammiccamenti e tranelli (“è un picnic per l’Accademia, ma io sogno lettori che si divertano”), ha fatto i suoi proverbiali equilibrismi da erudito (“mi piace molto Diderot, ma non per l’enciclopedia quanto piuttosto per i romanzi”), ha scritto sonetti alla maniera di Góngora e di Quevedo e opere teatrali alla Lope de Vega.

Ha addirittura manipolato il contesto nel quale ora appare il romanzo. “Ho sempre desiderato che fosse pubblicato nel 1999. Se fosse stato pubblicato l’anno scorso avrei falsificato il colofon. L’edizione è di 999 copie, e io volevo che avesse anche 999 pagine. Ma dato che ce ne erano 943, proposi a Fagnani di saltare la numerazione di alcune pagine per recuperare quelle 56 pagine di differenza. Purtroppo non accettò”. In quanto agli effetti che La historia può provocare, Caparrós confessa di aver “sospeso il giudizio” e impugna, a mo’ di scudo, la dimensione artigianale del libro: “Con una certa bravura, o codardia, ho fatto tutto il possibile perché l’edizione fosse limitata. Tutti gli esemplari sono numerati a mano, cosa che limita molto le aspettative. Che si venda o no, fa lo stesso, ciò che ho sempre desiderato è che fosse un libro ben fatto: fatto a mano, con illustrazioni (anch’esse attaccate a mano), copertina rigida, nastrino come segnalibro, un ritratto a olio invece di una foto nell’aletta. Volevo un libro ben fatto perché alcuni amici lo avessero e lo leggessero quando ne avevano voglia. Cosa che sembra totalmente in contraddizione con i tredici anni che ho impiegato lavorandoci sopra e con il fatto che è il progetto che più mi ha interessato nella vita”.

In controtendenza rispetto al mercato, La historia, senza dubbio, non è affatto un libro che voglia passare inosservato. È arrogante e lussuoso, come un objet d’art, aristocratico come un pezzo da collezione, ambizioso e progressista come lo sono stati solamente alcuni “grandi romanzi” latinoamericani come Terra Nostra (“decurtato” però dall’umorismo e dallo scetticismo borgesiani). Quando Carlos Fuentes presenterà La historia alla Fiera del Libro, il cerchio si sarà chiuso. Caparrós non dice né sì né no. Ricorda: “Otto anni fa circa, a Madrid, in un incontro su Carlos Fuentes, gli organizzatori mi presero alla sprovvista dicendomi che, oltre a leggere il mio intervento, avrei dovuto parlare alla tavola rotonda di chiusura, l’ultimo giorno. Una specie di relazione e bilancio. C’erano Julio Ortega, Bryce Etchenique, e credo Juan Goytisolo… Io ero il più giovane. Non sapevo cosa dire. E mi ricordo che, realmente senza pensarci, solo perché mi toccò iniziare a parlare, cominciai a rimproverarli perché con l’ambizione che avevano mostrato negli anni ’60 avevano tolto a noi la possibilità di essere ambiziosi. Ci avevano condannato a fare… ‘formine’. E non potevamo neanche inventare mondi, perché lo avevano già fatto loro, i nostri vecchi; al massimo potevamo pagare il nostro tributo di giovani e lavorare contro tutto questo. In quel momento La historia era in piena ebollizione, quindi suppongo che quello che gli stavo dicendo era: ‘Sì, io voglio essere ambizioso come voi’”.