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Il cowboy che cadde sulla terra:
Gram Parsons, 5-11-1946/19-9-1973

Settant’anni fa nasceva Ingram Cecil Connor III, meglio noto come Gram Parsons: songwriter, cantante e chitarrista tra i più influenti della musica country e rock americana. Ne pubblichiamo un profilo a cura di Antonio De Sortis.

 di Antonio De Sortis

Molte storie della musica pop che ci sono familiari iniziano con un imperdonabile atto di insubordinazione. O almeno questa è la vulgata, ed è legittimo pensare che, se tutte queste storie hanno assunto i tratti del peccaminoso, è perché la stessa musica pop nasce dalle ceneri di un mondo più composto, più devoto, del quale ci siamo liberati soffrendo, faticando, provando a non pentirci.

Eppure, forse non basteranno altri sessant’anni di mercato discografico infarcito di ogni nefandezza, impudicizia, eresia culturale, a sopprimere la categoria dei mistici mondani. In questo insieme – coniato da un personaggio di Sul Monte Verità di Edgardo Franzosini, ma per altre ragioni – rientrano alcuni dei musicisti più interessanti che vengano alla mente: si tratta in particolare di fulminati dalla controcultura o più precisamente dal rock’n’roll che non sanno fare a meno della zavorra perbenista, spirituale, lasciatagli in consegna dalle generazioni precedenti. Il mistico mondano è un Giano bifronte, la cui ubiquità morale è spesso conseguenza dell’uso di stupefacenti e lo costringe a dividersi fra il desiderio di spassarsela e l’osservanza delle tradizioni. In un ipotetico schema della mistica mondana, Johnny Cash è il dannato vecchio stile, che infrange le regole del proprio universo musicale, mentre George Harrison, dopo aver frequentato a lungo le feste più lussuose, è il pentito della modernità che abbraccia le filosofie orientali.

In una posizione invece più difficile, al centro del pendolo, si collocano una serie di personaggi che non tendono verso nessuno dei due poli. Uno di questi è Gram Parsons, il cosmic cowboy.

Gram Parsons, cantautore, chitarrista e interprete attivo fra il 1965 e il 1973, è stato definito in tempi recenti «the father of Americana»; tuttavia il cowboy non compare nei crediti del sontuoso disco/film The Last Waltz, tratto dal concerto d’addio della Band il giorno del Ringraziamento del 1976, e generalmente considerato il trionfo del genere in questione. Tutti i maestri del country rock, del blues, del folk presenziarono a questo omaggio – una sintesi di traditional music e di rock melodico con un debole per le emozioni forti. Gram Parsons invece non c’era perché era già morto ventiseienne di un’overdose di morfina a Joshua Tree, il 19 settembre 1973, avendo seminato nel frattempo sei dischi con quattro moniker diversi e piantato la bandiera del suo eldorado in un punto di convergenza molto prossimo all’idea di origine, di aurorale, che ogni mistico mondano insegue.

Questo incrocio di coordinate non si trova in Florida, dove Gram nasce nel ’46 per vedere la sua famiglia già andata in pezzi scomparire del tutto, non è ad Harvard dove inizia i suoi studi di teologia, né a San Francisco dove nel 1965 registra il suo primo disco, Safe at Home, con gli International Submarine Band, bensì a Nashville, dove, da session-man sostituto di David Crosby, trasloca con i Byrds, la band più importante di sempre per il sound americano. Qui nel 1968 vede la luce Sweetheart of the Rodeo.

Il lavoro fece sensazione per l’assurdità dell’intento. Qualche anno prima Dylan si era fatto tagliare i cavi dell’amplificazione a colpi d’accetta da Pete Seeger a causa di un fraintendimento – a lui il folk blues, il combat folk e la musica rurale piacevano eccome, ma li aveva stravolti – l’omaggio di Gram Parsons invece è dichiarato: riprende la tradizione più didascalica e inoffensiva del country – non «John Henry», ma «The Christian Life» – e la rimodula fino ad estrarla dal suo guscio canonico. Finiamo ad ascoltare un disco di inni come fosse la trasgressione in voga del momento, senza che Gram ci mostri mai il trucco. Nelle tracce di Sweetheart, sia nelle cover che nelle originali, l’insubordinazione è sottile: il tocco personale nella scrittura, le variazioni armoniche dolorose, sfacciate, tipicamente country ma già così pop, la pedal steel elettrica che si affianca al fiddle, sono tutte valide ragioni per contestare ogni definizione di genere.

Quando Gram Parsons parlava di Cosmic American Music a proposito della sua produzione vedeva alcune cose. La prima è che il tentativo di mettere insieme country, soul, folk e rock’n’roll non riguardava la confluenza di un genere in un altro, in un senso evolutivo; la sua musica voleva essere olistica, un pandemonio irredento di attitudini diverse e sincroniche da conciliare in uno stile che fosse, appunto, Americano con la maiuscola. La seconda ci dice dell’immaginario. Il cosmic cowboy rappresenta bene la cultura post-hippie alla fine degli anni Sessanta, che torna all’immanenza, al vagabondo in cerca di redenzione, ma conserva della stagione psichedelica una tendenza alla meditazione e al sincretismo. Questo canale scorre prevalentemente lungo la linea di demarcazione fra il country rock e la psichedelia residuale, due terreni che rimarranno isolati fino a quando, presi tutti i sacramenti, la Cosmic American Music sfocia nel cosiddetto alt-country degli anni Novanta.

In effetti il primo gruppo di country alternativo della storia, secondo le parole del co-fondatore Chris Hillman, furono i Flying Burrito Brothers, la nuova band in cui confluì, con Gram Parsons frontman, nel 1968. Parsons e Hillman fecero del discorso iniziato con i Byrds un’operazione culturale ma soprattutto una questione privata. La nuova band è un’enciclopedia che cammina, che elargisce improvvisazione rock’n’roll su uno sterminato repertorio di old-time music.

Guardando il set fotografico di The Guilded Palace of Sin, primo disco della band uscito nel 1969, Gram sfoggia un completo disegnato da Nudie Cohn – lo stilista delle star del country – che è incontestabilmente pop. La variazione sul tema dello stile cowboy è affidata al taglio e alle stupende decorazioni floreali, un minimo aggiornamento chic su una divisa solitamente dozzinale, che fa sembrare Gram un santone, un samurai, oltre che un duro. Questo processo di delicatissima virata verso il pop – e dunque verso una posizione indipendente, da autore moderno al di là dei generi – è uno dei giochi di prestigio più misteriosi messi in atto dai Flying Burrito Brothers.

Il genio di Gram Parsons si celebra nella sua capacità di innestare sulla musica tradizionale una componente forte di coolness suffragata da un atteggiamento stilistico personale, da una biografia intellettuale che investe il repertorio country della propria dannazione privata, di un modo specifico di stare nel Generale, nell’Universale che è l’immaginario americano. La scrittura e le pose di Gram sono un antidoto contro il kitsch, capaci di flettersi ed estendere il dominio del rock’n’roll fino alle ballad più smielate e perbene, le più struggenti, per poi lasciare la presa e tornare indietro senza fare le pieghe al vestito.

Out with the truckers and the kickers and the cowboy angels
And a good saloon in every single town

Oh and I remember something you once told me
And I’ll be damned if it did not come true
Twenty thousand roads I went down, down, down
And they all lead me straight back home to you

‘Cause I headed West to grow up with the country
Across those prairies with those waves of grain
And I saw my devil, and I saw my deep blue sea
And I thought about a calico bonnet from Cheyenne to Tennessee

[In giro coi camionisti e i kicker e gli angeli cowboy
E un bel saloon in ogni città

Oh, e ricordo di una cosa che mi hai detto
Che Dio mi fulmini se non si è avverata
Ventimila strade, le ho fatte fino in fondo, in fondo, in fondo
E tutte mi riportano dritto a casa da te

Ché ero partito per il West per farmi uomo con la terra
In mezzo a quelle praterie e quelle onde di cereali
E lì ho visto il mio diavolo, e ho visto il mio mare profondo e blu
E ho ripensato a quella cuffietta di cotone da Cheyenne fino al Tennessee]

da «Return of the Grievous Angel»

Questo pezzo apre l’ultimo disco di Gram Parsons, Grievous Angel, registrato con la backing band di Elvis, ribattezzata per l’occasione the Fallen Angels, e con l’immancabile Emmylou Harris alla seconda voce e alle acustiche. Uscirà postumo nel 1974, ed è testimonianza del periodo più dissoluto della sua vita. Gram è reduce dall’insuccesso del bellissimo precedente GP (1973) e dall’occasione mancata di entrare nei Rolling Stones dell’amico Keith Richards. Questa canzone riassume tutta la sua capacità espressiva. Il testo è un connubio fra il trascendentalismo vitalista del beatnik, la mitologia rurale e una cifra poetica decadente, urbana, da giovane tossico che vive in California e che della «land of the cotton» ha un po’ nostalgia ma non di più. Grievous Angel è un disco moderno in disguise, tormentato da un demone laico, il cui fascino è ancora una volta inspiegabile. «Return of the Grievous Angel» si colloca in mezzo a quel segmento di produzione di mistica mondana; è un mid-tempo, eppure la sensazione è che vada più veloce, che sia un pezzo che tende al rock’n’roll. La voce di Gram è rileccata come al solito, impostata da macho secondo la scuola hillbilly, ma spezza il cuore, e tutti sanno che nella voce di Gram c’è questa cosa, qualcosa di cedevole, senza che si capisca mai quando cede, in che senso lo fa, cosa scaturisce da questo cedimento. Come riesce una ballata dolente à la Hank Williams a farci camminare a testa alta nella vita?

A settant’anni dalla nascita di Gram Parsons, e a quarantatré dal tragico, rocambolesco epilogo, allo schema dei mistici mondani si aggiungono decine di eredi della Cosmic American Music, che nel frattempo è diventata un’istanza della moderna storia musicale con cui confrontarsi. Ryan Adams, i Wilco, Beck sono alcuni degli esponenti del rock americano recente che hanno fatto tesoro dell’insegnamento di Gram Parsons declinandolo in modo sofisticato. Questi artisti provengono da scuole diverse – Ryan Adams è passionale e radiofonico, i Wilco e Beck tendono alla sperimentazione – ma condividono la capacità di mascherare lo sconfinamento dal proprio terreno; forse è questa la grande eredità della Cosmic American Music, la cifra che accomuna le nuove band a prescindere dalle sonorità. Oggi come allora i musicisti deviano dalla lezione, aggiungendo al proprio repertorio elementi altrui, e allargando ancora il bacino ecumenico dell’Americana, oppure vi approdano da esuli, da figlioli prodighi, da turisti o da predoni, tali sono le dimensioni assunte dalla landa mitologica, la Gerusalemme celeste che Gram Parsons ha contribuito a edificare. La sua versione di Americana è il miraggio di quel luogo originario e familiare, la terra dei padri in acetato, un posto cool.

© Antonio De Sortis, 2016. Tutti i diritti riservati.