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Mi onorerete quando sarò morto. Qualche appunto sulla posterità e sull’arte

Drew Nellins Smith BIGSUR, Editoria, Società

Questo articolo è apparso originariamente su Electric Literature; ringraziamo l’autore e la testata.

di Drew Nellins Smith
traduzione di Chiara Gualandrini

Credo sia perché il mio primo romanzo è stato pubblicato da poco che mi sento stranamente tanto sensibile alla questione della posterità. La verità, però, è che è sempre stato un mio complesso. Sapendo quanto è improbabile che il mio libro riesca a guadagnarsi l’approvazione dell’opinione culturale, mi aggrappo alla fantasia che qualche generazione futura possa riscoprirlo molto tempo dopo la mia morte e apprezzare la mia scrittura come i contemporanei non farebbero mai. Se trascuro lo scenario più probabile – in cui la Terra è un’enorme vasca idromassaggio in subbuglio priva di forme di vita umane – traggo conforto immaginando il mio futuro da adorato, anche se defunto, scrittore d’enorme importanza.

Un tempo Jim Thompson, scrittore di polizieschi pulp, aveva in mente per sé uno scenario altrettanto ottimista: «Devi solo aspettare», disse alla moglie in punto di morte. «A dieci anni dalla mia scomparsa diventerò famoso». È vero, senza alcun dubbio, che Thompson ha scritto dei libri eccellenti, fra tutti I truffatori, L’assassino che è in me e Colpo di spugna. Ed è vero anche che ha saputo garantirsi decenni di solvibilità finanziaria – come molti scrittori non riuscirebbero mai a fare – esclusivamente con la forza della propria produzione artistica. Eppure, considerando che negli Stati Uniti i suoi libri erano tutti fuori catalogo, che non è mai stato particolarmente amato dalla critica, e che si muoveva in un genere che non veniva preso sul serio, è curioso che abbia assunto un atteggiamento così ottimista sulla fortuna dei suoi libri.

La sua previsione – come molti dei miei sogni a occhi aperti di fama futura – non era completamente priva di fondamento. Chiunque vi presti attenzione sa che opere d’arte ignorate o perfino ridicolizzate in un’epoca possono godere di un’inaspettata riscoperta in qualsiasi momento, specialmente se si tratta di opere considerate troppo poco intellettuali dall’élite.

Sicuramente Thompson finì per avere ragione. Sul finire degli anni Ottanta, a circa un decennio dalla morte, la sua opera è effettivamente diventata oggetto di riscoperta. I suoi libri tornarono a essere stampati, prevalentemente grazie alla casa editrice Black Lizard. Poi a metà degli anni Novanta Robert Polito scrisse una biografia di Thompson che vinse vari premi, assicurandogli un posto nel pantheon dei più grandi scrittori polizieschi.

Ma questo accade anche in altre espressioni artistiche. Douglas Sirk, regista di film come Magnifica ossessione (1954), Secondo amore (1955) e Lo specchio della vita (1959), non fu preso in considerazione per molto tempo perché considerato un produttore di film patinati strappalacrime e «ritratti di donne». Oggi viene osannato per l’intelligente sovversività e la bellezza e l’eleganza delle sue regie. Poiché agli occhi degli spettatori moderni il loro valore è dato per assodato, è facile dimenticare che un tempo i film di Sirk erano considerati un po’ come quelli che per noi oggi sono i film tv rivolti a un pubblico femminile. È stato soltanto nel 1971, con la pubblicazione della raccolta di interviste Sirk on Sirk, , che il regista – e il genere stesso del melodramma – ricevettero la giusta considerazione, più di un decennio dopo l’uscita dei film che ne definirono la carriera. Solo cinque anni prima il libro di Truffaut Il cinema secondo Hitchcock aveva fatto la stessa cosa per il thriller e per la carriera di Alfred Hitchcock.

Circa ottant’anni fa lo scrittore horror H.P. Lovecraft morì sul lastrico e quasi nell’anonimato più assoluto, eppure oggi il suo nome spunta sistematicamente in notizie di ogni tipo, che venga annunciata una nuova raccolta commentata, o la realizzazione di un romanzo basato sulla sua vita e la sua opera, o l’ennesimo videogioco basato sui suoi miti. Sebbene una volta Edmund Wilson abbia recensito l’opera di Lovecraft sul New Yorker sostenendo che «l’unico orrore nella maggior parte di questi racconti è l’orrore del cattivo gusto e di una pessima scrittura», le sue storie oggi persistono in un circolo sempre più ampio di crescente apprezzamento, analisi e attenzione.

Pensando a questo fenomeno – questa seconda e più potente ondata dell’opera di un autore – continuo a tornare a quel famoso detto «La commedia è tragedia più tempo», un concetto che secondo me sarà per sempre esemplificato da quegli enormi scivoli gonfiabili a forma di Titanic semi affondato. In più di un sito web, l’annuncio recita: «Un divertimento strabordante». Se un centinaio d’anni riescono a trasformare una tragedia marittima realmente accaduta in un’occasione per giochi di parole e per divertirsi con gli scivoli («senti il brivido e l’esaltazione mentre scivoli e scappi dal Titanic che affonda»), allora deve essere vero che è necessario anche meno tempo per far diventare il più piccolo disastro della cosiddetta «arte popolare» in un tipo di arte che viene considerata grande o addirittura essenziale.

Ovviamente le riscoperte artistiche non sono limitate alle persone che agiscono al di fuori delle forme d’arte comunemente accettate. Anche moltissimi scrittori non di genere non hanno il successo che meritano in vita. L’opera di Zora Neale Hurston non ha trovato un pubblico fino a quindici anni dopo la sua morte. A Kate Chopin c’è voluto un decennio. Il romanzo Stoner di John Williams vendette poco e andò fuori catalogo un anno dopo la prima edizione, nel 1965, ma da quando è stato ristampato nel 2003 gode di una quantità smisurata di sostegno e approvazione, al punto che ho scritto un saggio su quanto sono stanco di sentirne parlare. Infine ecco un fatto tanto grandioso in tutta la sua grottesca ingiustizia da essere praticamente tatuato nel mio cervello: Moby Dick ha distrutto la carriera di Herman Melville.

Cosa possiamo imparare, allora, da questi scandalosi precedenti se non che non possiamo fidarci del nostro attuale giudizio? Quanta meravigliosa arte ci stiamo perdendo oggi! Cioè, è facile dire fra una chiacchiera e un’altra che, sì, Van Gogh ha venduto un solo dipinto in tutta la sua vita prima di morire in quello che molti credono sia stato suicidio, ma affrontare a mente fredda la realtà di questo fatto è tutta un’altra cosa. Ve lo assicuro, è sconcertante.

Tuttavia, per un artista il fatto di «farcela» durante la propria vita non offre nessuna garanzia certa. Nel video YouTube di una tavola rotonda intitolata: «Scrittori americani: la fragilità della fama», il poeta, romanziere e accademico Jay Parini ricorda un episodio a metà degli anni Settanta in cui, mentre stava facendo ricerche per un pezzo sull’ora famoso poeta modernista Wallace Stevens, si imbatté nella seguente (presumibilmente parafrasata) citazione: «Sembra un poeta interessante e promettente questo Wallace Stevens, ma ammettiamolo, non è Trumbull Stickney».

Parini ricorda di aver chiesto a un professore più anziano – l’oggi sconosciuto, già vincitore del Pulitzer e del National Book Award, Richard Eberhardt – «Chi è Trumbull Stickney?» Domanda alla quale Eberhardt rispose: «Quando studiavo a Dartmouth nei primi anni Venti tutti noi volevamo essere il nuovo Trumbull Stickney».

Per corroborare ulteriormente la sua tesi, Parini racconta di aver fatto un sondaggio in una classe di ventun laureandi in Letteratura inglese al college di Middlebury chiedendogli: «Quanti di voi hanno letto l’opera di Norman Mailer?»

Il responso? «Nemmeno uno studente è stato in grado di identificare Norman Mailer. Nemmeno uno… Nessuno aveva sentito parlare di Norman Mailer. Possiamo quindi semplicemente concludere che il Grande Cancellino è stato molto impegnato».

Ma come è potuto accadere? Un tempo Norman Mailer era considerato un gigante. Appariva nei talk show, litigava pubblicamente, faceva film ed era coinvolto in risse. È stato il cofondatore del Village Voice di cui, ovviamente, è probabile che quegli studenti non abbiano mai sentito parlare. Ma per l’amor del cielo, Mailer ha vinto il National Book Award e due premi Pulizer, uno di questi − per Il canto del boia − non più tardi del 1980. E ora sembra sul punto di essere dimenticato, divorato dalla storia fino al giorno in cui verrà riscoperto. Oppure no.

Per un individuo, è del tutto normale che la reazione a un’opera d’arte (e il conseguente ricordo) sia soggetta a dei cambiamenti con il trascorrere del tempo. Prendete, ad esempio, le discussioni su quanto sembri migliore o peggiore un film dopo averlo riguardato, o un libro dopo averlo riletto. Mi è spesso capitato di dire che un libro o un film non «ha resistito», come se l’opera stessa perdesse la sua integrità o la sua potenza, o come se durante il primo incontro fossi stato ingannato in qualche modo, catturato da un’illusione che, a un esame più attento e razionale, mi appare invece evidente, così come i trucchi di un mago si dissolvono se li si osserva da vicino.

La quintessenza dei testi famosi per suscitare reazioni differenti nei lettori via via che invecchiano è Il giovane Holden. I lettori al culmine del periodo adolescenziale di ribellione e narcisismo si identificano perfettamente in Holden Caulfield. «Diglielo tu, Holden», pensavo a sedici anni. Ma gli anni passano e le opinioni cambiano, qualche volta a ogni incontro. A seconda del punto di vista del lettore, Caulfield può sembrare alternativamente un piagnucolone, un personaggio disperato che grida aiuto, uno stupido bastian contrario, un eroe sincero, o un’anima in pena troppo sensibile per sopravvivere in questo mondo. E, poiché le reazioni ai libri sono spesso commiste alla possibilità di identificarsi nei loro personaggi, il lettore può scegliere se considerare Il giovane Holden un bel libro o un brutto libro molte volte nel corso della vita – forse tante quante prova il desiderio di rileggerlo.

Un protagonista che usa insulti razzisti o che assume posizioni sessiste può andare bene, o almeno essere tollerato, in un’epoca ma può sembrare un bastardo in un’altra. L’amore libero dato per scontato in un libro degli ultimi anni Sessanta o dei primi anni Settanta può sembrare impensabile o addirittura disgustoso in un periodo più puritano. O forse un’opera d’arte viene disprezzata quando è la prima del suo genere, in rottura con gli stili narrativi del suo tempo, per essere poi retroattivamente accumunata ad altre opere di maggior successo che ha ispirato o a cui ha fatto da apripista.

È impossibile spiegare tutti i motivi per cui il giudizio di un singolo individuo su un’opera d’arte può cambiare, perché un film può far piangere durante una visione e sembrare stupido durante un’altra; tanto più è un tentativo senza speranza cercare di comprendere tutte le ragioni possibili per cui la cultura in senso lato, o anche soltanto la critica, può cambiare i suoi parametri di giudizio.

Si pensi al film del 1999 di Sam Mendes, American Beauty. All’epoca della sua uscita incontrò l’incondizionato favore del pubblico. Praticamente chiunque lo considerava un film grande, importante, e quell’anno vinse cinque Oscar: miglior film, migliore regia, miglior attore protagonista, miglior sceneggiatura originale e migliore fotografia. Presto ci fu un incomprensibile rovesciamento di fortuna e nel 2005 American Beauty finì nella lista dei «20 film più sopravvalutati di tutti i tempi». Anche Mendes ha poi descritto il film come «un po’ troppo osannato a suo tempo». Nel 2014, su Entertainment Weekly è apparso un lungo articolo di rivalutazione del film intitolato «Esaminando American Beauty nel 2015: capolavoro o farsa?»

Non si può fare a meno di chiedersi: se le recensioni e i giudizi sull’arte cambiano così radicalmente con il passare del tempo – anche un lasso di tempo relativamente breve – allora qual è il loro valore? Dato che mi sento obbligato almeno a fingere di difendere le mie occasionali – e probabilmente indifendibili – recensioni di libri, posso solo razionalizzare che il fine più alto di ogni recensione che scrivo risiede nel suo utilizzo futuro, come metro di paragone per misurare quanta strada è stata fatta da quel retrogrado e palesemente sbagliato punto di vista. Forse, in un futuro imprecisato, qualcuno rileggerà le mie recensioni (alcune delle quali mi sembrano completamente sbagliate anche solo a pochi anni di distanza) e dirà: «Questo è ciò che si diceva allora di questo libro. Guarda quanto si sbagliavano». O, passando a un altro punto nella vita di un’opera: «Guarda quanto avevano ragione».

La verità che ho accettato è semplicemente che non c’è una verità univoca su ciò che costituisce buona arte o arte mediocre, specialmente oltre un certo livello di competenza artistica o di scrittura. Mi sembra sempre di più che la risposta più sincera a ogni domanda sulla qualità di un’opera sia: «è complicato».

Meglio arrendersi alle nostre preferenze idiosincratiche, abbracciando la consapevolezza che, piuttosto che buone o mediocri, le opere d’arte possano essere più opportunamente definite come «fa per me» o «non fa per me». O – perché, non si sa mai, forse faccio ancora in tempo a cambiare idea su Infinite Jest – «fa per me in questo momento» o «non fa per me in questo momento». C’è libertà nella contraddizione che l’arte possa essere buona e mediocre allo stesso tempo, che un libro possa avere un indice di gradimento del 50% presso il pubblico generale ed essere allo stesso tempo adatto al 100% per un singolo lettore.

Ma dimenticando il pubblico per un momento, cosa significa tutto questo per noi artisti? Be’, forse è una buona notizia. Se non c’è veramente un’arte mediocre, o se ogni forma artistica ha il suo momento di gloria sul lungo periodo, la prospettiva per gli artisti è ottimistica. Significa che il vero lavoro dello scrittore, fotografo, pittore o regista è semplicemente creare un’opera che nasce dal proprio punto di vista individuale e poi lanciare quell’opera nel mare della cultura. Dopodiché uno può soltanto restare ai margini e vedere cosa viene accettato e cosa viene respinto, senza mai sapere se il giudizio iniziale resterà immutato o cambierà. Liberarsi dal giudizio dei contemporanei significa che non esiste il fallimento, solo il potenziale di una futura gratificazione – sapendo che tale gratificazione ritardata con ogni probabilità arriverà qualche tempo dopo la nostra morte.

È risaputo che F. Scott Fitzgerald morì credendosi un fallito e sicuro che il Grande Gatsby non aveva e non avrebbe trovato un pubblico o la vera popolarità. Il New York Times scrisse nel suo necrologio del 1940: «La promessa di una brillante carriera non è mai stata mantenuta». C’è così tanta tristezza nello scomparire così, in particolare se ci guardiamo indietro con queste nostre lenti futuristiche, in grado di vedere – per ora, almeno – il genio della sua opera. Ma quando comprendiamo il segreto che l’unico e solo fallimento nell’arte è non riuscire a produrne, siamo tutti maggiormente disposti a morire come Jim Thompson, con quella vanagloriosa affermazione fatta in punto di morte: «Un giorno mi ameranno».

© Drew Nellins Smith, 2016. Tutti i diritti riservati.

 Drew Nellins Smith scrive di libri su numerose testate, cartacee e online. È autore del romanzo Arcade.

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