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In memoria di Ernesto Sábato

di Raul Schenardi

Alla morte di Ernesto Sábato i quotidiani argentini hanno ovviamente dedicato un largo spazio. Oltre alla cronaca dei funerali e all’omaggio che gli è stato dedicato alla Fiera del libro di Buenos Aires in corso in quei giorni e dove già era previsto un evento dedicato a lui, si sono succeduti testimonianze di persone che lo avevano conosciuto con interventi di critici e scrittori. Di seguito si cerca di rendere conto in sintesi dei contributi più interessanti con particolare riguardo per gli aspetti letterari dell’opera di Sábato.

Al quotidiano argentino «La Nación» lo scrittore Jorge Fernández Díaz ha dichiarato: «Mi domando che cosa mi affascinava di Sábato da ragazzo e devo confessare che era il suo tentativo cosciente o incosciente di creare il grande gotico argentino. Io ho letto per la prima volta la parola “lóbrego” (tenebroso) in una pagina di Sábato. Per me il termine “lóbrego” giocava arbitrariamente con il cognome Lovecraft. E il gotico di Sopra eroi e tombe, con le sue strade moribonde, le sue grandi case sinistre, le sue catacombe, i suoi rettilli e i suoi ciechi e le sue cospirazioni, provenivano da Poe. O meglio: venivano dai racconti scelti di Poe appena tradotti da Cortázar. Tutti loro – Poe, Lovecraft, Sábato e Cortázar – praticavano in modi diversi uno stile fantastico e cupo».

Sempre su «La Nación» lo storico Pacho O´Donnell ha rievocato quello che a  suo parere rimane un errore politico di Sábato, ovvero l’accettazione di un invito a pranzo dall’ex dittatore Jorge Rafael Videla, aggiungendo però che, quando ebbe l’occasione di domandare allo scrittore il motivo per cui aveva accettato (come del resto Borges e altre personalità del mondo artistico e scientifico), la risposta fu: «Me lo avevano chiesto i figli di Haroldo Conti (poeta desaparecido durante le dittatura), perché tentassi di salvare la vita al padre». Sempre secondo O’Donnell, «Così come Borges descriveva la Buenos Aires mitologica, labirintica, Sábato ci ha parlato della Buenos Aires reale (…). Ha incorporato nella leteratura la psicologia e il linguaggio quotidiano dell’uomo comune di Buenos Aires, il suo personaggio ha una solidità assolutamente reale e riconoscibile, e questo ha anche prodotto tutta una corrente di imitatori».

 

Sul quotidiano argentino «Clarín», lo scrittore e giornalista Horacio Salas, ha rievocato la pubblicazione verso la fine del 1961 della prima versione di Sopra eroi e tombe. Il libro andò a ruba, Salvatore Quasimodo lo definì «Un’apocalisse del nostro tempo» e Witold Gombrovicz dichiarò: «Non conosco un altro libro che introducameglio ai segreti della sensibilità contemporanea dell’America latina, ai suoi miti, alle sue fobie, alle sue allucinazioni…». Scrive ancora Salas: «A partire da quel momento Sábato volle seguire l’esempio di Sartre e trasformarsi nello scrittore/personaggio, capace di intervenire su tutti i problemi di un paese con un elevatissimo grado di conflittualità: il riflesso sudamericano dello scrittore impegnato tracciato sia dall’autore della Nausea sia da Camus (…) Sábato scrisse anche saggi sul romanzo e la crisi della nostra epoca, e si costruì un suo spazio di pensatore, ma allo stesso tempo nasceva con una forza incontenibile il boom della letteratura latinoamericana: Fuentes, Cortázar, Vargas Llosa e García Márquez, che pubblicò Cent’anni di solitudine nel 1967. Era evidente che il gusto dei lettori era cambiato. In Argentina, Martín (personaggio di Sopra eroi e tombe) fu sloggiato da Horacio Oliveira, protagonista del Gioco del mondo, e la sventurata Alejandra dalla misteriosa Maga del libro di Cortázar. Sábato subì la sorte dei pionieri e continuò a scrivere di personaggi nevrotici e angosciati».

Sempre sul «Clarín», lo scrittore Santiago Kovadloff ha scritto: «Il carattere metafisico dei tre romanzi di Sábato costituisce il loro tratto distintivo. Quel carattere è la sua bussola e con esso esplora la situazione dell’uomo sottomesso alle tensioni imposte dalla contraddizione fra la sua sete di trascendenza e la sua iscrizione nella finitezza; fra la cecità che lo incatena e la lucidità che lo rende libero; fra l’onnipotenza che lo isola e lo travia, e l’occasionale fraternità che lo riconcilia e lo salva». E ancora: «Sábato non ha mai sottovalutato il valore della sofferenza. Fedele all’esempio di coloro che lo hanno preceduto, ha saputo fare del mistero del tempo e dell’identità la materia della sua indagine primordiale. Voglio dire che con lui il romanzo argentino è stato in grado di diventare una commovente fonte di lucidità, di espressività poetica e di responsabilità. Perciò, nell’esaminare la storia argentina, nell’interrogarla con una insolita profondità, Sábato ha fatto del nostro passato una metafora eloquente del presente. Leggerlo significa affacciarsi a quello che siamo. Riconoscerlo non è altro che riconoscerci. Ammirarlo, una prova di maturità culturale».

Secondo Norma Morandini, scrittrice, giornalista e senatrice, a proposito di certe polemiche nate intorno al prologo scritto da Sábato per il famoso rapporto Nunca más sulle atrocità commesse dalla dittatura, ha scritto: «Il Nunca más servì come base per accusare in un processo sommario la giunta militare, ma soprattutto fu il rapporto che smantellò il sistema di terrore che aveva trasformato in una strategia deliberata la scomparsa delle persone per evitare che ci fossero prove al momento dei processi nei tribunali». E ancora: «L’insurrezione dei guerriglieri commise delitti che lo Stato avrebbe dovuto punire garantendo processi equi e non trasformandosi in boia. Il demonio è solo uno: la violenza come modalità per risolvere le differenze. E se la guerra fu tanto cara alle organizzazioni dei guerriglieri quanto alle gerarchie militari, l’equiparazione porta a un altro equivoco, e cioè supporre che vi siano guerre pulite, giuste o sporche. Il passato finì nelle mani della giustizia, ma si evitò il dibattito politico sulle cause dello sbandamento. Modificare il prologo del Nunca más sarebbe come reinventare la genesi della democrazia, senza la generosità storica che meritano quelli che fecero quanto era possibile di fronte a un potere militare umiliante ma minaccioso. Malgrado queste limitazioni, riuscirono a far sedere i gerarchi dell’ultima dittatura sui banchi degli accusati. Questo è il Nunca más: la testimonianza di quello sforzo e di quel coraggio, un documento sull’epoca più brutta della storia contemporanea».

 

Su «La prensa» la scrittrice Maria Rosa Lojo ha scritto: «Il simbolismo di Sábato disarma le certezze della conoscenza visiva (paradigma della conoscenza per la tradizione occidentale) e propone un nuovo criterio di verità per il quale l’evidenza passa attraverso l’invisibile. Dal Tunnel, tragedia della conoscenza separata, fino ad Abaddón el exterminador, vero “teatro del mondo” dove il male contamina e colpisce ciascuno degli individuo che agiscono nel “sinistro carnevale”, la narrativa di Sábato si avvicina al confronto dialogico con il mito. In una scommessa rischiosa e marginale, gli eroi che cercano l’origine e la totalità attraverso la via oscura erigono di fronte all’impenetrabile simulacri di una cosmogonia terrificante. Lo scrittore continua così un’antica aspirazione romantica: quella che voleva vedere nel romanzo una somma di generi, e lo concepiva come erede dell’epopea e del mito. Espulso dal Logos – afferma Sábato ­– il Mito si rifugia nell’arte, che insieme lo profana e lo riscatta. Perciò la grande letteratura costituirà, secondo questa prospettiva, una rivelazione della sacralità, una esposizione del reale spogliato di ogni maschera. E per questo si rivelerà anche un mezzo per la salvezza dell’anima (la propria e quella della comunità». E in conclusione: «Questa ambiguità rende tanto arduo quanto indesiderabile stabilire un “messaggio” univoco per i romanzi di Sábato, dove il male si rivela anche una forma di purezza, le tenebre un ambito della sapienza, il mero spirito un pericoloso tradimento nei confronti dell’imprescindibile passione, la scrittura un patto con i demoni e una via di redenzione, una scelta e una maledizione. (…) In questo senso tutta l’opera di Sábato è una ricerca angosciata della scrittura primaria, di un originale celato dietro le copie, falsificato e frammentato da un logos che non è consapevole della totalità dell’essere. Totalità irrecuperabile, dalla quale l’essere umano è stato gettato nella Storia e nell’insoddisfazione, che è anche il motore di qualsiasi creazione e di tutta la scrittura. (…) Fra l’eroismo e il tradimento, l’autenticità e la farsa, il senso di abbandono e il potere della parola, la scrittura traccia così il suo strano itinerario verso il “sole nero” dell’allucinazione o della rivelazione, in cerca del passaggio o del tunnel capace di collegare gli opposti nei quali, al di qua del paradiso, nel regno di questo mondo, vediamo scindersi la trama delle apparenze».

 

Sul quotidiano spagnolo «El Pais», il critico letterario J. Ernesto Ayala-Dip ha scritto: «Nei suoi tre romanzi, Il tunnel, Sopra eroi e tombe e Abaddón el exterminador l’uomo diventa un essere, i suoi personaggi indizi metafisici e le sue trame itinerari infernali. Per Sábato l’uomo è un mistero che vale la pena indagare. Dal mistero l’uomo deve combattere il razionalismo. E Sábato mette a profitto il surrealismo e l’impronta camusiana. Il romanzo, con tutte le risorse compositive che prende in prestito dalla modernità, serve all’autore per avvicinarsi all’amore, alla morte, al male e al più severo pessimismo. In una inevitabile sintesi, questo è il profilo filosofico e narrativo di Sábato. Coerente, ostinato nella ricerca della verità e pessimista nella diagnosi morale del presente».

 

Per il quotidiano spagnolo «ABC», lo scrittore Pablo De Santis: «La letteratura argentina è sempre stata un campo di battaglia, dove le diverse forze si scontrano per imporre questo o quel nome. E il nome di Sábato è stato come una bandiera che non aveva nessuno al seguito. I soldati che avrebbero potuto difenderla erano gli adolescenti che noi eravamo, ma solo una macchina del tempo avrebbe potuto portare nel presente quei lettori sprovvisti di senso dell’umorismo, oppressi dalla vita, attenti solo a scoprire nella letteratura passione, tragedia e oscurità».

Mentre lo scrittore Blas Matamoros ha tracciato un confronto fra Sábato e Borges: «Non esistono altri due scrittori che differiscano tanto, e giustamente questa divergenza li avvicina. Borges, neoclassico, lavora la sua scrittura, economizza, teorizza con termini scelti attentamente, rifugge dal romanzo ed è fecondo di poesie, racconti e brevi saggi. Sábato eredita il Romanticismo. Il suo linguaggio ubbidisce alla sua affettività e cerca di esprimere i suoi amori, i suoi orrori, le sue paure, le sue vertigini. Si manifesta in modo privilegiato nel romanzo, inteso anche in senso romantico: un discorso in cui ci sta tutto e dove non vi sono formalità che lo precedono, perché punta all’infinito e al frammento. Alla lacerazione, direbbe lui. Vale la pena rileggere i loro testi in parallelo. Non solo per le loro divergenze sul piano estetico rispetto alla qualità del linguaggio letterario, alla sua natura. Si tratta di una forma di artigianato la cui materia prima è la parola trasformata in un precipitato chimico, di un’opera di distillazione, di un’alchimia? O al contrario è il luogo in cui l’unica verità umana, che è il sentimento, si fa strada fra le convenzioni della lingua? Se Borges arriva all’incubo nei suoi racconti e a diluire qualsiasi certezza nei suoi saggi, Sábato fa la cosa opposta: parte dall’incubo dichiarandolo padrone e signore della sua opera intanto che cerca un luogo per la sua fede smarrita, magari senza trovarlo ma confidando nella sua esistenza. La morte borgesiana è una congetttura. La morte sabatiana è una realtà esistenziale. L’infinito di Borges è una modalità di seduzione logica di un linguaggio paradossale. Per Sábato, una vertiginosa constatazione. I sogni, in Borges, sono un motivo di dubbio circa la realtà del mondo reale. In Sábato occupano il luogo della vera realtà, alla quale giungiamo ogni tanto in maniera intermittente».