I racconti di Enrique Serna | Seconda parte

redazione SUR

Pubblichiamo la seconda parte del racconto «Uomo con minotauro sul petto» di Enrique Serna. Qui la prima parte.

Mi svegliai quarantotto ore dopo in un sotterraneo maleodorante. Immagino che mi avessero dato una dose di sonnifero capace di stordire un cammello. Non vidi mai in faccia i sequestratori. Temendo che potessi identificarli, quando mi portavano da mangiare indossavano maschere di Paperino. Disteso in un giaciglio pidocchioso, sentivo il gocciolio della pioggia, gli squilli di un telefono, il lontano ronzio dei tram. A tormentarmi, più della scomodità, era non sapere quale sarebbe stato il mio destino. Avrebbero chiesto un riscatto alle autorità di New Blackwood? Mi avrebbero strappato la pelle per venderla al mercato nero?

Recuperai la serenità quando uno dei rapitori ebbe la bontà di dirmi che mi trovavo ad Amburgo. Il mio furto era stato un lavoretto commissionato dal magnate tedesco Heinrich Kranz, meglio conosciuto come il Re delle Nevi per la sua implicazione nel traffico internazionale di cocaina. Kranz aveva ordinato di non portarmi via dal sotterraneo fino al giorno del compleanno della moglie: voleva farle una sorpresa. Venni condotto con gli occhi bendati in un castello nella Selva Nera – la casa in campagna di Kranz – dove si teneva la festa. In un salone enorme, illuminato con gli effetti pirotecnici di una discoteca, era riunito il fior fiore dei corrotti del jet set europeo. Appena mi ripresi dalla vertigine iniziale, contemplai inorridito alcune sagome che in seguito mi sarebbero divenute familiari.

L’invitato più serio aveva i capelli tinti di verde. Un boyscout settantenne carezzava il culo di un ragazzo che poteva essere suo nipote. Tre ermafroditi ballavano la rumba su una piattaforma circolare. Accanto alla pista da ballo c’era una fossa piena di fango dove si rotolavano delle coppie nude. Attraversai il salone con una coppa di champagne che qualcuno mi aveva messo in mano. Girava cocaina in abbondanza. Un travestito in abito monacale mi baciò a tradimento. Le donne vere – quasi tutte bellissime – al mio passaggio si mordevano le labbra, come per invitarmi a fornicare sotto gli occhi dei mariti. La loro condotta era oscena quanto l’arredamento del castello. I Kranz possedevano una collezione impressionante di quadri e sculture, ma bistrattavano deliberatamente i loro tesori, che non apprezzavano affatto. Il Cristo giallo di Gauguin era collocato a testa in giù, come in una messa nera, e aveva un pene di plastica incollato sulla bocca. C’erano alcune donne in bronzo di Henry Moore mascherate da puttane, con mutandine trasparenti e reggicalze di lustrini. Vidi un troglodita spegnere una sigaretta su un autoritratto di Rembrandt, e un altro vuotare il bicchiere su un’icona russa del XIV secolo. Che uso avrebbero fatto del mio tatuaggio? Non intendevo verificarlo. Mi precipitai a cercare un’uscita.

Stavo per saltare dalla finestra, disposto a rompermi l’osso del collo se necessario, quando venni afferrato per la collottola da un guardaspalle cinese. “La signola stale aspettandola” grugnì minacciandomi con una pistola. Dovetti accompagnarlo nella sala della cultura greco- romana, arredata come un’osteria di quart’ordine. Una luce rossa postribolare illuminava statue di atleti olimpici, busti di Traiano e Marco Aurelio, anfore etrusche usate come sputacchiere. Un jukebox suonava insulsi brani di musica country. Sembrava più vecchio delle antichità millenarie. Il cinese mi ordinò di sedere a un tavolo sghembo, occupato da una puttana squallida con occhiaie, efelidi posticce sulle guance e una maglietta con la scritta Fuck me and leave me. Era la mia nuova proprietaria: la perversa Uninge. Mi salutò alla maniera di Caligola, con una risoluta strizzata di coglioni.

– Benvenuto nel Club dei Profanatori dell’Arte. Non sai quanto mancavi alla mia collezione. Tu sei diverso. Cominciavo a stancarmi delle opere inanimate. Per quanto puoi odiarle, ti stufi di calpestarle.

– Perché odia l’arte? – domandai, intimorito dal suo saluto affettuoso.

– Ma che meraviglia. Oltre che bello sei anche ingenuo – la perversa Uninge mi guardò con un misto di compassione e disprezzo.

– Credi che il tuo effimero tatuaggio meriti rispetto? No, tesoro, non qui. Io me la rido di Picasso e dei suoi estimatori, a cominciare dalla tua vecchia padrona, riposi in pace. Povera balena. Si credeva colta e raffinata. Io ho voltato le spalle a tutto questo. Viviamo nell’epoca dell’impostura, mio caro. L’arte è morta quando le abbiamo dato un prezzo. Adesso è un pretesto per giocare in Borsa. Muovo un dito, e la tela che al mattino vale 100 dollari, la sera è quotata 50.000. Se sono capace di simili miracoli, non credi che possa anche togliere valore all’arte? Ecco a cosa mi dedico da qualche anno. Heinrich potrebbe comprarmi tutto quello che voglio, ma io ho un debole per le opere rubate. È il primo passo per desacralizzarle, per spogliarle dell’aureola di dignità che hanno nei musei. Poi viene la parte più divertente: sputarci sopra, insudiciarle, spazzarci il pavimento. E sai perché, bellezza? Perché nel farlo distruggo me stessa. Ormai non posso più credere a niente, nemmeno al giochetto delle profanazioni che fa impazzire questi idioti ma che a me non basta più. Vorrei essere trattata come io tratto i pezzi della mia collezione. Ecco perché ho bisogno di te. Castigami, amore, picchiami, strapazza la tua puttana!

La perversa Uninge si mise a piangere sulle mie ginocchia, come una donnaccia che in punto di morte si pente della sua vita peccaminosa. Confesso che il suo discorso mi commosse. Fin da bambino soffrivo per tutto quello che Uninge denunciava. I mercanti d’arte mi avevano rovinato l’infanzia. Picasso aveva disegnato il tatuaggio per insultarli e loro, invece di offendersi, gli avevano dimostrato a discapito della mia felicità che persino le sue burle valevano oro. Con un fazzoletto asciugai le lacrime di Uninge. Poveretta. In fondo era una moralista, come tutti i grandi libertini. La strinsi teneramente al petto, per dirle senza parole che la capivo e la rispettavo.

Fu un errore imperdonabile. Aveva superato il momento di debolezza e pensò che volessi ricattarla sul piano sentimentale. Nei suoi occhi brillò di nuovo la scintilla del rancore.

– Li Chuan! Vieni qui! – il cinese arrivò di corsa. – Portalo in camera mia e fallo spogliare. Odio la gente che ha compassione di me. Preparati, bamboccio, conoscerai la perversa Uninge.

Nella sua alcova persi anche l’ultimo residuo di castità. Sarebbe semplicistico dire che mi ridusse alla categoria di oggetto sessuale, perché il mio corpo non le interessava affatto. Tutta la sua raffinata lussuria si concentrò sul tatuaggio. Lo pizzicò, lo graffiò, lo leccò tanto da seccarsi la lingua, imbrattandolo di gelatina di mele quando si stufava di assaporare la mia pelle. La penetrai indossando un cappuccio perché non voleva vedermi in faccia. Pur essendo dentro il suo corpo, per lei non esistevo, perciò la mia prima impresa amorosa mi lasciò il gusto della frustrazione. Poi vennero le frustate, inferte non a me, naturalmente, ma al minotauro, a Picasso, alla coscienza stessa di Uninge. Io ero quello che sanguinava, non quello che riceveva il castigo. Mi sfregò un limone sulle ferite, riprese a cavalcarmi, e nel momento dell’orgasmo mi conficcò una spilla nel petto. Il dolore fu così intenso che persi i sensi, ma Uninge mi fece annusare dei sali di ammonio per prolungare il supplizio. Di fronte al letto c’era un quadro di Chagall che ogni tanto si spostava verso destra, lasciando intravedere un foro sicuramente riservato a un voyeur. Sarà stato Heinrich Kranz o uno degli amanti di Unige?

Quando non avevo più neanche la forza d’implorare pietà, venni portato in una cella dove restai rinchiuso tre giorni. Alle pareti c’erano foto di iconoclasti famosi: il vandalo che aveva sfigurato La pietà a martellate condivideva una specie di altare con la vecchietta che aveva gettato l’acido solforico sulle Meninas. Abbondavano i disegni di colombe. Uninge le adorava, ma non in quanto simbolo di pace, bensì per i loro escrementi, che deturpano le facciate delle cattedrali. La permanenza in cella annichilì le mie velleità di ribellione. La perversa Uninge mi teneva in suo potere, e non avrei guadagnato niente se mi fossi opposto ai suoi capricci. Una volta fuori ero pronto a obbedirle in tutto e lei, che per il momento si era stancata di me, mi ordinò di soddisfare le sue amiche. Confesso di aver assolto l’incarico con molto gusto. Chi giudicasse svergognata o cinica la mia condotta deve tener conto che ero un adolescente in piena tempesta ormonale. Se partecipai di buona lena a orge in letti circolari, se colmai di piacere le amiche di Uninge, se lasciai che orinassero sul tatuaggio, e le presi a schiaffi e mi camuffai da minotauro per assecondare le loro fantasie, fu perché vivevo la primavera della sessualità. Non mi pento di nulla, tranne di aver permesso che mi usassero come intermediario per andare a letto con Picasso.

Uninge e Heinrich appartenevano alla crema della malavita internazionale, vale a dire che frequentavano banchieri e presidenti. Da un ambiente simile non è facile uscire moralmente illesi. Imparai a mentire, a rubare i gioielli delle mie amanti, a ricattarle, a fare il prezioso per ricevere mance generose. Mi trasformai – diciamolo pure chiaramente – in un volgare prostituto. E fu come prostituto che mi venne l’idea di ottenere i diritti per sfruttare il minotauro. Seguii l’esempio dei calciatori professionisti che, quando non si trovano bene in un club, comprano il proprio contratto per vendersi al migliore offerente. Se ero il proprietario naturale di un tatuaggio così bramato, perché restare nella squadra di Uninge?

Fuggire dalla Germania non era difficile, ma una volta in libertà dovevo scrollarmi di dosso le autorità di New Blackwood, che avrebbero sicuramente cercato di ricondurmi all’ovile. Preparai la duplice evasione con intelligenza e sfrontatezza. Anzitutto rubai dal castello nella Selva Nera una Venere di Rubens e la nascosi in un capanno abbandonato. Nessuno notò la sparizione. Uninge aveva convocato la sua satanica tribù per una festa che sarebbe durata tutto il fine settimana. Avvisai la polizia, che arrivò verso mezzanotte, mentre si sniffava coca a più non posso. Dato che ero ancora minorenne, fui il primo a uscire dal carcere. Fuori mi aspettavano due investigatori. Li aveva mandati il sindaco di New Blackwood non appena era stato informato della mia cattura. Al telefono gli proposi un accordo: gli avrei regalato la Venere di Rubens, un pezzo molto più prezioso del minotauro, in cambio della mia libertà e di 10.000 dollari. Il taccagno si rifiutò di pagare il compenso economico, ma accettò lo scambio. Presi il primo aereo per Parigi con il fermo proposito di arricchirmi sfruttando il tatuaggio. Grazie a un’innata predisposizione per le relazioni pubbliche, riunii rapidamente una clientela di milionari eccentrici, disposti a sborsare somme esorbitanti per andare a letto con un capolavoro dell’arte contemporanea. Attrezzai un lussuoso appartamento nel quartiere Saint-Germain. Ricevevo due o tre donne per notte, in stanze diverse, come i dentisti che si occupano contemporaneamente di vari clienti. Riuscivo a ottenere un extra per togliermi la maglietta, e alle donne inclini ai graffi impedivo di toccare il tatuaggio. Soffrissero pure: venire a letto con me era prestigioso come esibire un modello esclusivo di Coco Chanel. Appena avessi messo assieme il primo milione di dollari, pensavo di comprare una casa a Cannes, preferibilmente quella in cui ero cresciuto, perché mio padre morisse di rabbia vedendo com’ero diventato ricco. Non avevo tenuto conto dei maledetti ispettori del Ministero della Cultura.

Suonarono alla mia porta una domenica, in seguito alla chiamata di una cliente indignata che si era lamentata del prezzo. Subii un lungo interrogatorio. Avevano scoperto che la transazione fra mio padre e la signora Reeves era disumana  e incostituzionale.  Bella scoperta, dissi, offeso dalla rudezza con cui mi avevano obbligato a mostrare il tatuaggio. Mi chiesero di ricostruire l’intera via crucis della mia vita, dalla vendita a Cannes fino all’esercizio della prostituzione a Parigi. Feci un resoconto melodrammatico, interrotto dai singhiozzi, nel quale interpretavo sempre il ruolo della vittima: la società era colpevole di tutte le mie disgrazie, mi avevano trattato peggio di uno schiavo, e così via. Riuscii a commuoverli fino alle lacrime. In un impeto di sentimentalismo, l’ispettore capo mi porse le sue scuse a nome del genere umano. Come sospettavo, il governo francese, malgrado la sua maschera umanitaria, all’ultimo momento mi diede una fregatura. Erano profondamente addolorati dal fatto che gente senza scrupoli avesse utilizzato il tatuaggio – e di conseguenza il mio corpo – a scopo di lucro, provocandomi danni di natura psicologica e morale. Perciò, a titolo di risarcimento minimo per le mie sventure, mi offrivano una borsa di studio per intraprendere una carriera tecnica. Tuttavia, un Picasso era sempre un Picasso, e tre volte la settimana avrei dovuto posare al Centre Georges Pompidou, dove ovviamente avrebbero rispettato la mia dignità umana.

Cominciai a studiare ingegneria industriale con la speranza di chi inizia una nuova vita. Volevo essere normale, uscire con le ragazze della mia età, fare qualcosa di utile. Mi presentavo puntuale al Centre Pompidou e mi sforzavo di trattare amabilmente tutti i visitatori, compresi i detestabili fanatici di Picasso che sostavano davanti al tatuaggio interi pomeriggi. Il più fastidioso era un professore marxista di estetica, che voleva utilizzarmi per la sua tesi di dottorato sulla manipolazione del gusto nella società borghese. Il mio caso dimostrava la vigenza del ciclo merce-denaro-merce nell’economia politica della produzione artistica. Neanche per lui ero un semplice mortale. Avrei sopportato quell’imbecille e mille altri se, poco dopo essere diventato un cittadino qualsiasi, non fossi impazzito. Di fatto la mia nuova vita, una vita sana, laboriosa e semplice, mi lasciava un profondo vuoto interiore. Convinto che mi mancasse una donna, cercai di avere relazioni con le compagne del Politecnico, ignare del tatuaggio, ma mi spaventai nello scoprire che non potevo ricambiare il loro affetto. Mi aspettavo da loro il trattamento inumano a cui mi ero abituato nella mia lunga carriera di oggetto artistico. Non ero soltanto un impenitente esibizionista, avevo anche sviluppato un complesso di inferiorità nei confronti del minotauro, un compiacimento morboso nell’essere lo sbiadito complemento del gioiello che avevo sul petto. E quelle ragazze nemmeno lo vedevano, il tatuaggio. Amavano me, l’uomo che non aveva niente da offrire perché gli mancava la più elementare autostima. E non fallivo soltanto in amore, ma anche negli studi. Dicono che l’arte è inutile o non è arte, e il mio carattere ne è una conferma.

Incapace di sostenere a lungo uno sforzo mentale, assuefatto alla quiete e all’ozio, nelle aule e fuori mi dedicavo al dolce far niente. Dato che la mia unica vocazione era il riposo, preferivo esercitarla al Centre Pompidou, dove le ore extra mi venivano pagate 300 franchi. Avevo bisogno di essere esposto per non sentirmi depresso, ma la cura era peggio della malattia, perché sfuggendo il lavoro produttivo affondavo sempre più nella mia deplorevole condizione decorativa. La contraddizione mi spinse a bere. Bevevo da solo o in compagnia, per strada o nei bagni del Centre Pompidou; bevevo cognac, birra, rum, candeggina, lozioni dopobarba, aceto. Avevo risvegli terrificanti, deliri in cui vedevo Picasso lottare contro Dio.

Quale dei due era l’Onnipotente? La morte, paragonata a quella vita tetra, mi appariva come una piacevole formalità, una soluzione felice. Per rendere tributo al luogo comune, stavo per gettarmi nella Senna, ma all’ultimo momento preferii i barbiturici. Ne avevo ingerite quattro pillole quando mi venne un’idea luminosa: nelle ultime settimane, impoverito da far pietà, avevo bevuto persino l’acquaragia. Presi la bottiglia e ne versai un goccio su un lembo di stoffa. Sfregando con forza feci svanire prima di tutto i colori del tatuaggio. Mi tremava la mano e dovetti farmi coraggio con un sorso di acquaragia. Dopo migliaia di dolorose frizioni scomparve anche il contorno del disegno. Infine, senza procurarmi irritazioni o bruciature, assassinai con cura la firma di Picasso. Avevo spezzato le mie catene. Io ero io. Mi sentivo nudo, resuscitato, prometeico, e mi precipitai a mostrare il petto agli ispettori del Ministero. Volevo vantarmi boriosamente della mia malefatta, dimostrargli chi aveva vinto la battaglia. Loro, però, avevano un asso nella manica: la sesta clausola del terzo comma della legge per la salvaguardia del patrimonio artistico. L’affascinante clausola prevede una condanna a venti anni di carcere per chi distrugga opere d’arte che, per il loro riconosciuto valore, sono considerate beni nazionali. “E cosa succede quando un’opera d’arte distrugge un uomo?” sbottai infuriato. “Chi avreste punito se fossi morto a causa del tatuaggio?” Mettendosi a braccia conserte mi fecero capire che non avevo scampo. Su una camionetta blindata mi condussero in questa prigione, dove da mesi mi dedico al passatempo kafkiano di scrivere lettere al segretario generale dell’Onu per supplicarlo d’intercedere per me in nome dei diritti umani. Il segretario però non si è ancora degnato di rispondermi, così ho deciso di divulgare questo pamphlet affinché l’opinione pubblica venga a conoscenza della mia situazione.

Voglio la libertà di disporre del mio corpo!

Basta tollerare crimini in nome della cultura!

A morte Picasso!

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