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«Questione di accordatura», un saggio di Zadie Smith su Joni Mitchell

Oggi Joni Mitchell [1] compie settantacinque anni. In questo personal essay, contenuto in Feel Free. Idee, visioni, ricordi [2] la scrittrice britannica Zadie Smith [3] si confronta con la figura della cantautrice. Buona lettura!

di Zadie Smith
traduzione di Martina Testa

La prima volta che l’ho sentita non l’ho sentita affatto. I miei genitori non mi avevano preparata. (In queste situazioni viene naturale dare la colpa ai genitori.) Sul loro stereo, alto un metro e mezzo e impiallacciato in legno, di lei non c’era traccia. La sua assenza era un po’ strana, data la varietà delle voci che capitava di sentire su quel catafalco. Burning Spear e i Beatles; Marley, ovviamente, e Chaka Khan; Bix Beiderbecke, Louis Armstrong, Duke Ellington e James Taylor; Luther Vandross, Anita Baker, Alexander O’ Neal. E poi Dylan, sempre Dylan. Ma mai nulla della canadese che suonava la chitarra con le accordature aperte. Non so come facevano a non conoscerla: quella di non essere mai davvero sconosciuta è stata la sua strana condanna. Forse l’avevano sentita e semplicemente non l’avevano capita.

I miei genitori amavano la musica, così come la amo io, ma non potreste mai definirci dei veri patiti. Gli Smith non possedevano pezzi rari o B-side affascinanti (e neanche dischi degli Smiths). Volevamo canzoni che ci facessero ballare, ridere o piangere. L’unica caratteristica insolita della nostra collezione di dischi era il fatto che combinava, dentro lo stesso scatolone, il gusto di una donna nera giovane e di un uomo bianco anziano. Se non altro quel tanto di eclettismo ce l’aveva. Ma non ci capitava spesso di ascoltare cantanti bianche. Le voci di quel tipo andavano in un certo senso al di là del nostro fabbisogno, perché in casa non c’erano rappresentanti del loro pubblico naturale. Quella che ci andava più vicino era una cantante come Elkie Brooks (vero nome Elaine Bookbinder – una ragazza ebrea di Salford), anche se Elkie aveva quell’inconfondibile graffio nella voce che la legava, nella testa degli Smith, a Tina Turner o a Della Reese. Non avevamo dischi di Kate Bush e non c’era ombra di Stevie Nicks, per quanto possa essere graffiante il suo cantato. La prima volta che sono venuta a sapere dell’esistenza di Debbie Harry è stato all’università. Avevamo Joan Armatrading, Aretha, Billie ed Ella. Che dovevamo farcene delle cantanti bianche?

Era la tipica serata fra studenti universitari in cui io continuavo a infilare di soppiatto nel lettore cd gli album dei Blackstreet e di Aaliyah, e i miei amici continuavano a sostituirli con altre cose. E poi eccola, all’improvviso: un suono penetrante, una sorta di gemito – una cantante bianca che gemeva, che metteva una nota dietro l’altra senza una sequenza logica. Stonata, o lontana da tutto ciò che all’epoca consideravo «intonato». Ho preso in mano la custodia del cd e l’ho guardata aggrottando la fronte: una bionda magra magra con la frangettona, coperta di blu. La mia cara amica Tamara – una cantante vera, molto seria in fatto di musica – mi ha guardato confusa. Non ti piace Joni? Ho girato il cd dall’altro lato con sufficienza, buttato un occhio sulla lista dei brani. Ah, era Joni? E poi molto probabilmente me ne sarò uscita con una battutina sulla musica da ragazze bianche, il tipo di commento che avevo sentito fare, all’inverso, quando mi ritrovavo chiamata a difendere dei maschi neri che sparavano parolacce dentro un microfono. Un’altra amica, Jessica, mi ha incalzato: Davvero non ti piace Joni? Ha chiuso gli occhi e cantato qualche verso di quella che ora so essere «California». Ossia, ha cantato delle parole piuttosto belle e interessanti, ma in uno strano falsetto strozzato – una specie di zufolio kafkiano – e mi è parso bizzarro sentirlo uscire dalla bocca di Jess, che sapevo avere, di norma, una bellissima voce nera. Una voce da soul singer. Non ti piace Joni? La minestra non mi piace, si mangerà la brace.

Forse questa è solo una storia di ristrettezza mentale. Caratteristica che è sempre più facile riconoscere negli altri che in noi stessi. All’età di vent’anni ho ascoltato Joni Mitchell – cantante che piace a milioni di persone, che non fa, dopotutto, una musica particolarmente insolita o astrusa – e l’ho trovata incomprensibile. Non riuscivo neanche a interpretare davvero il suo zufolio come un «cantare». Era solo un suono. E, senza farmi troppi problemi, l’ho infilato in mezzo a tutti i suoni interessanti che sentiamo nel mondo ma scegliamo, per abitudine o per principio, di non considerare musica. Come altro la possiamo chiamare, se non ristrettezza mentale? Non ti piace Joni? Le mie amiche avevano la compassione negli occhi. Lo stesso sguardo che tendono a rivolgerti i fedeli di qualche religione quando gli riconsegni l’opuscoletto e gli chiudi la porta in faccia.

Seduta in macchina accanto al guidatore, diretta a un matrimonio, non mi restava più la scusa della gioventù. Ormai avevo la stessa età di Cristo quando era morto. Viaggiavo verso ovest, verso il Galles. Attraversando foreste e boschetti, un paesaggio verde incontaminato, in direzione delle imponenti e ripide scogliere… Il viaggio in macchina fino in Galles è bello lungo. L’uomo al volante, essendo un poeta, aveva previsto di fare tappa all’abbazia di Tintern. La sua passeggera, più interessata a trovare una stazione di servizio lungo l’autostrada, ribadiva spesso il suo desiderio di un rustico con la salsiccia. L’umore dentro la macchina non era dei migliori. E poi c’era qualcos’altro che mi dava noia ormai da parecchi chilometri senza che ne riconoscessi davvero la fonte, un suono ostinato… Ma a quel punto mi ci sono concentrata e mi sono resa conto che era di nuovo quel cazzo di zufolio, che si estendeva da un’ottava all’altra, ignorava le normali divisioni tra le battute musicali e in definitiva mi dava un fastidio mortale, come un’ape incastrata in uno specchietto retrovisore. Ho supplicato il guidatore di cambiare musica, e lui mi ha lanciato un’occhiata che era parente di quella che mi avevano lanciato le mie amiche tanti anni prima, anche se questa era una variante più forte, essendo io e il guidatore uniti per tutta la vita da un contratto legale.

«È Joni Mitchell. Stai scherzando? Ascolta: è bellissimo! Non senti?»

Io ho cominciato a dare ditate sul cruscotto, cercando il pulsante che stoppa tutto.

«No, non sento. Mi fa schifo. E poi questa parte è uguale a “Jingle Bells”».

Era un commento buttato lì tanto per dire, e sono rimasta sorpresa nel vedere mio marito sorridere e restare per un attimo in ascolto con grande attenzione: «In effetti quel pezzetto è “Jingle Bells”; non me n’ero mai accorto. Ma è una canzone che parla dell’inverno… ci sta».

«Spegni, ti prego».

«Ecco l’uscita per l’abbazia di Tintern», ha detto lui, serrando la mascella, e ha sterzato per imboccarla.

Abbiamo parcheggiato; io ho aperto la portiera della macchina e mi sono affacciata nel vasto silenzio di una vallata. Forse non avevo orecchio, ma gli occhi ce li avevo. Ho gironzolato all’interno dell’abbazia, che poi è un esterno, che è un interno. Mi sono fermata davanti al finestrone che dà a est, coi piedi sull’erba verde, gli occhi rivolti verso le colline verdi, non limitati da un non-edificio che ha perso tutte le sue difese scolpite. Ridotta a uno scheletro gotico, l’abbazia è penetrata dalla bellezza sopra e sotto, aperta proprio a quegli elementi a cui un tempo aveva sperato di offrire una cornice, agli occhi dei giovani devoti, trasformandoli in oggetto della loro paziente contemplazione. Ma quella forma di concentrazione sacra è ormai scomparsa da più tempo di quanto sia durata la sua esistenza nel mondo. Era già un antico ricordo duecento anni fa, quando Wordsworth passò da quelle parti. Fra le pietre spuntano i rovi. La pioggia entra liberamente. Senza tetto, senza pavimento, senza vetrate, «verde fino alla porta stessa»: ormai l’abbazia di Tintern è costretta ad accettare la sacralità che c’è ovunque in ogni cosa.

E poi? E poi, per come lo ricordo io, il sole ha inondato la zona; mio marito ha citato un verso di una delle Lucy poems di Wordsworth; io ho cominciato a cantare a bocca chiusa uno strano brano musicale. Mi era successo qualcosa. In tutta la massa confusa di ricordi che ogni giorno produciamo e perdiamo, sapevo che quello non sarebbe andato perduto. Provavo la stessa identica sensazione di Wordsworth: «Che in questo momento c’è vita e nutrimento / per gli anni futuri». O almeno così mi pareva. Andando adesso a ripescare la poesia, capisco che in un certo senso sto raccontando un processo opposto. Ciò che aveva colpito l’autore di «Versi scritti ad alcune miglia dall’abbazia di Tintern» (1798) era un ricordo di estasi: «Quel tempo è passato / E tutte quelle acute gioie non son più, / Né tutti i suoi vertiginosi rapimenti». Il Wye gli era rimasto profondamente impresso durante la sua precedente visita cinque anni prima. Tornandoci, Wordsworth scopre che ama ancora la regione, ma la poesia testimonia il suo sviluppo interiore, perché adesso la ama con una maturità più serena. È scomparsa l’adorazione selvaggia: «Ché allora la natura / (Passati i più rudi piaceri dei miei verdi giorni / E i loro allegri moti animaleschi), / Per me era tutto l’universo. Non so descrivere / Come io fossi allora». Tornare in Galles significava incontrare una versione precedente di sé stesso; Wordsworth era andato lì per ascoltare «il linguaggio del mio cuore di allora». E anche se è vero che il giovane che ricorda è per certi versi un estraneo, sostenere di non «saperlo descrivere» sa un po’ di falsa modestia, perché ovviamente la poesia fa proprio questo. Mi sembra significativo che il poeta continui comunque ad amare e apprezzare quella versione passata di sé. Capisce che il giovane immaturo era la base dell’uomo più valido che sarebbe diventato. Una progressione naturale: fra il Wordsworth ragazzo e l’uomo, fra il passato e il presente. Non è tanto che la sua mente è cambiata, quanto che è diventata più profonda.

Ma quando ripenso a quella viandante che odiava Joni Mitchell, ferma davanti al finestrone rivolto a est, intenta a chiedersi oziosamente se sarebbe riuscita a convincere il suo amato a fermarsi a comprare uno snack scaldato al microonde in una qualche stazione di servizio fra l’abbazia e la chiesa (i matrimoni inglesi sono famigerati per le lunghissime attese prima che venga servito il pranzo), davvero non riesco a capire il linguaggio del mio cuore di un tempo. Chi era quella persona? Petulante, quasi inconsapevole del fatto che stava canticchiando un pezzo di Joni, ancora ignara della trasformazione che aveva già subito. Come è possibile detestare qualcosa con tutta l’anima e poi all’improvviso innamorarsene in maniera così irrazionale? Come avviene un cambiamento del genere?

Oggi, ascoltare Joni Mitchell mi fa questo effetto: lacrime incontrollabili. Un sovraccarico emotivo, stranamente distante dalla felicità, più simile alla gioia – se vogliamo chiamare gioia il riconoscimento di una bellezza quasi intollerabile. Non è un’emozione molto decorosa. Non posso ascoltare Joni Mitchell in una stanza con altre persone, o sull’iPod mentre cammino per strada. È troppo rischioso. Non posso mai essere certa che riuscirò ad arrivare in fondo alla canzone senza diventare trasparente – a tutti e tutto, al mondo intero. Una mortificante sensazione di porosità. Anche se mi conforta sapere che il sentimento che provo ascoltando quelle canzoni è lo stesso che provava l’artista mentre le creava. «In quel periodo della mia vita ero priva di difese personali. Mi sentivo come l’involucro di cellophane intorno a un pacchetto di sigarette». Sono parole di Joni Mitchell, riferite agli anni fruttuosi intercorsi fra il 1967 e il 1971, anno di uscita dell’album Blue, uno dei suoi classici.

A questo punto è meglio confessare che quando penso a Joni Mitchell di fatto è a Blue che penso. Non posso neanche sostenere che quella di cui parlo sia il genere di epifania da musicofili raffinati che per manifestarsi avrebbe almeno il buon gusto di scegliere uno degli album «minori» che la stessa Joni sembra preferire: Hejira o The Hissing of Summer Lawns. No, sto pensando all’album che hanno proprio tutti, per quanto il percorso della loro vita possa averli allontanati dalla musica. E in realtà non è nemmeno il contenuto della musica che mi interessa, qui. È la trasformazione dell’esperienza di ascolto. Non voglio confondere questo fenomeno con un graduale cambiamento di gusti. La sensazione del cambiamento graduale è di tipo diverso: di solito fa seguito a un atto volontario e consapevole. A me, come più o meno a chiunque, capita abbastanza spesso di vivere questi cambiamenti graduali. Essendomi costretta a rileggere Delitto e castigo, per esempio, adesso ammiro e apprezzo Dostoevskij, autore che fino a trent’anni o quasi ero certa di detestare. Durante un periodo di esplorazione della fantascienza ho preso in prestito in biblioteca Aldous Huxley, nonostante le sue disgustose teorie sulla razza. E anche una scrittrice aliena alla mia sensibilità naturale come Anaïs Nin si è conquistata pian piano le mie simpatie l’estate scorsa, mentre mi sforzavo programmaticamente di leggere autori che avevano scelto il sesso come tematica principale.

Credo che non sia una coincidenza se buona parte dei miei graduali cambiamenti di gusto tendono a essersi verificati nella mia unica area di competenza: la lettura dei romanzi. In quest’ambito estremamente ristretto posso definirmi più o meno una connoisseuse, un’intenditrice. Nel senso che posso abbassarmi a prendere in esame anche quelli che sono ritenuti gli esempi più bassi di questa forma e al tempo stesso elevarmi ad ammirare quelli più sconosciuti e astrusi – e tutto ciò senza sentire dentro di me nessun radicale mutamento. I romanzi sono ciò di cui mi intendo, e nella mia personalità la porta del romanzo è sempre spalancata. Ma non sono arrivata ad amare Joni Mitchell conoscendola meglio, o capendo cos’è un’accordatura aperta, e neppure mettendomi seduta da una parte e costringendomi ad ascoltare e riascoltare le sue canzoni. Joni Mitchell non la sopportavo – e poi me ne sono innamorata. La sua voce non mi diceva niente – fino al giorno in cui mi ha completamente distrutta. E mi chiedo se sia proprio perché sono una perfetta idiota in campo musicale che è stato possibile questo ribaltamento totale nella mia capacità di ascoltare Joni Mitchell. Forse un certo tipo di ignoranza ne è stata la condizione. Nel puro nulla della mia non-conoscenza si è potuto verificare qualcosa di sublime (un evento?) su un piano che sta al di là (al di sotto?) della coscienza.

[…]

La ragazza che non sopportava Joni e la donna che la ama mi sembrano separate l’una dall’altra: due persone che per caso hanno condiviso lo stesso corpo. È la sensazione che proviamo a volte quando ritroviamo un diario che abbiamo scritto da adolescenti, o quando a cena ascoltiamo un vecchio amico raccontare un aneddoto sul nostro conto che non ricordiamo più. Per molti di noi è una sensazione quotidiana, eppure si dimostra un problema insidioso per la gente che spera di fare arte. Perché anche se nella nostra vita conosciamo e riconosciamo la discontinuità, in materia di arte siamo profondamente legati all’idea di continuità.

[…]

Mi piacerebbe credere che non sarei stata uno di quei famigerati spettatori inglesi che provarono a cacciare Dylan dal palco a suon di fischi nel momento della sua svolta elettrica, ma basandomi sui precedenti temo molto che sarebbe andata così. Vogliamo che i nostri artisti restino com’erano quando li abbiamo conosciuti. Ma i nostri artisti vogliono evolversi. A volte lo scontro diventa così violento che nell’artista si verifica una ribellione: oggi, Joni Mitchell si considera più una pittrice che una cantante. È talmente allergica alle aspettative del pubblico che preferisce essere una pittrice assolutamente dignitosa piuttosto che una cantante che sfiora il sublime. Questo genere di ansia rispetto al proprio pubblico viene spesso letto come disprezzo, ma l’irrequietezza di Joni Mitchell è solo un naturalissimo effetto collaterale della sua attività artistica, e lo stesso vale per Dylan, lo stesso valeva per Joyce e Picasso. Joni Mitchell non vuole vivere nel mio sogno, bloccato com’è in un eterno 1971: la sua vita ha un tempo proprio. Semplicemente non c’è abbastanza tempo, nella sua vita, per restare in eterno la Joni dei miei ricordi. La cosa peggiore possibile, per un artista, è esistere come oggetto di un’epifania altrui.

E infine: le canzoni, quelle canzoni raffinatissime! Quando le ascolto so che sono in debito per la loro bellezza, e ogni volta mi sento obbligata a ripagare quel debito. Nel caso di Joni, mi si apre davanti un percorso piuttosto ovvio. Scopro che mentre mi portava lontano da quella che era, musicalmente parlando, la mia casa, stava compiendo a sua volta un viaggio, nel profondo del luogo da cui vengo io:

Per venticinque anni l’opinione pubblica, e in particolare la stampa bianca, mi ha rinfacciato di usare ritmi e armonie troppo elaborati man mano che la mia musica diventava più sperimentale e assorbiva di più la cultura nera, cosa inevitabile perché io amo la musica nera, Duke Ellington, Miles Davis. Non è che mi sia riproposta di suonare jazz o che sia una jazzista. Solo che ho tanti amici nel giro del jazz. Conosco più musicisti in quell’ambiente, e so le parole di tanti standard degli anni Quaranta e Cinquanta, mentre la musica pop degli anni Sessanta e Settanta non la conosco davvero. Quindi attingo a una tradizione di musica americana fortemente connotata come nera, con in più un piccolo repertorio di ballate inglesi e irlandesi che ho imparato mentre imparavo a suonare la chitarra. Per me, fondamentalmente, quelle erano come le rotelline per chi comincia ad andare in bicicletta. Ma la gente vuole che continui ad andare in bici con le rotelline, mentre la mia passione è Duke Ellington più che Gershwin, sono gli iniziatori, Charlie Parker. Mi piace anche Patsy Cline. In ogni campo, agli artisti originali è sempre stato dato filo da torcere.

Mi chiedo: come sarà ascoltare la musica della mia infanzia filtrata dalla sensibilità di Joni Mitchell? Non sapevo nulla del suo «periodo nero» prima di cominciare a scrivere questo pezzo e leggere alcune delle sue interviste online, fra cui una lunga conversazione del 1998 con un dj texano. Adesso voglio andarmi a cercare questa sua musica più recente e passarci un po’ di tempo. Fare lo sforzo. Anche se non credo che sarà davvero uno sforzo, adesso che sento scorrere fra noi una corrente profonda. Credo che questa corrente ci sia sempre stata. A me e Joni serviva solo un po’ di accordatura. Quelle note vaganti e quello sconfinare da una battuta all’altra, i cambi di tonalità che oggi a lei non dicono niente e a me suonano ancora miracolosi. La sua musica, la sua vita, è sempre stata basata sulla discontinuità. Sull’incoerenza dell’identità, della personalità. Avrei dovuto avere fede. Eravamo da sempre destinate a incontrarci:

Ho firmato un contratto per scrivere un’autobiografia. Ma è impossibile infilare la mia vita dentro un solo libro. Quindi voglio cominciare, in pratica, dalla metà: dal periodo di Don Juan’s Reckless Daughter, che è un periodo della mia vita molto mistico e pieno di colori. Non mistico nel senso del pregare in ginocchio, intendiamoci. Se fossi una scrittrice, mi piacerebbe che fosse il mio primo romanzo. Comincia con questa frase: «Ero l’unico nero alla festa». (Ride) Insomma, l’incipit ce l’ho.

[Il saggio completo si può leggere in Feel Free. Idee, visioni, ricordi [2]mentre per approfondire la figura di Joni Mitchell consigliamo l’acquisto di Both Sides. Conversazioni sulla vita, l’arte la musica [4]. Solo per questa settimana è possibile acquistare entrambi i volumi a sul nostro store online [5] al prezzo speciale di 33 euro. ]

 

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