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La patria in spalla / In viaggio con Ibargüengoitia

Jorge F. Hernández Autori, Ritratti, SUR

In questo articolo Jorge F. Hernández racconta  Ibargüengoitia, l’autore messicano che non ha mai dimenticato le proprie origini. L’articolo, apparso originariamente sulla rivista El Andén, viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.

di Jorge F. Hernández
traduzione di Letizia Penati

Basta vederlo in fotografia o ricordarlo per affermare che Jorge Ibargüengoitia viaggiava con il Messico in spalla, radiografava il suo paese con lo sguardo e lo combinava alla saliva come un gusto mescolato a tutti i paesaggi del mondo ma a cui non poteva rinunciare. Tutto ciò che vedeva aveva una o più diottrie di paragone o identificazione con la madre patria dei suoi ricordi. Ci sono alcuni messicani che non appena arrivano a Madrid cominciano a parlare ceceo come se non fossero discendenti indiretti di Tetlepanquetzatl, altri vanno spesso a New York e non solo negano di aver usato le tortillas per mangiare le uova strapazzate in un qualche momento topico della loro vita, ma per di più guardano con disprezzo i loro connazionali chiamandoli mojados, nonostante siano ufficialmente residenti in New Jersey da più di dieci anni… Ma ci sono altri messicani, – come Ibargüengoitia – che fanno avanti e indietro dal Messico come se si portassero la patria in spalla, la matria nell’anima e il peso di secoli di civiltà e cultura li trasformasse in eroi nazionali sparsi in giro per il mondo.

Non mi riferisco alla sofisticata tentazione di viaggiare vestiti da mariachi o a quell’istinto che a volte è inevitabile di portare come bagaglio a mano un enorme sombrero a colori pastello ricamato in oro, siamo eroi portatili, coloro che viaggiano come Ibargüengoitia studiando i propri connazionali nel mondo (con vergogna e più raramente con orgoglio) poi, soppesiamo i trionfi e le disgrazie dei paesi sviluppati facendo severi paragoni con i nostri ancestrali sentieri acciottolati e le buganville viola che si arrampicano su muri di mattoni senza tempo.

Ibargüengoitia portava la patria in spalla quando in un aeroporto di una città del nord nota con occhio clinico un messicano che:

[…] indossava un berretto di pelle e un pesante cappotto nero. Ciò non forniva alcun indizio. I baffi sottili ben curati lo rendevano sospetto, ma ciò che mi ha portato alla mia conclusione fu il fatto che sotto il cappotto nero si vedevano un paio di pantaloni di gabardina color blu intenso e, da questi, spuntavano un paio di scarpe gialle, combinazione che si può trovare solo tra le persone nate nei dintorni di Moroleón, regione del Guanajuato.

È inevitabile. Ci si prefigge di custodire e far custodire i precetti di fratellanza universale e, senza volerlo, guardiamo da lontano (poi con stupore non appena si avvicinano) i connazionali che ci ricordano esattamente «la Patria prima di tutto», che siamo solo di passaggio perché poi dobbiamo tornare alle gioie e ai dolori della vita di sempre. Come metro di paragone a Ibargüengoitia è toccata una lunga epoca – non molto diversa da quella in cui viviamo oggi – in cui il viaggiatore messicano ritorna dall’estero mostrando meraviglie tecnologiche che non ci sono ancora a Valle di Anáhuac o brontolando perché Tokyo sarà pur la città del futuro, ma lì nessuno sa cosa sia un buon uovo al tegamino.

Lontano dalla Sindrome del Jamaicón (la nostalgia inconfutabile che affligge chi non riesce a stare più di ventiquattro ore lontano dalla sua madre patria), Ibargüengoitia aguzzava la vista dei suoi grandi occhi come se fosse un autore inglese d’inizio del Novecento, un Chesterton arguto e cuevanense che con geniale senso dell’umorismo (e non per fare lo spiritoso) individuava all’istante l’ironia, il sarcasmo, l’assurdo, la verità pura, la bellezza o la mostruosità di riconoscere nel pieno centro di Berlino un volador di Papantla, o il professore dell’Università di Guanajuato Rivadavia in vacanza con sette membri orrendi della sua famiglia.

Forse è il momento di chiarire che Jorge Ibargüengoitia è stato un viaggiatore professionista fin dall’infanzia, visto che aveva fatto il boy-scout, l’associazione di escursionisti incalliti e alpinisti eroici in grado di accendere un fuoco senza fiammiferi, legare un palo in mezzo a un bosco con nodi che non si sciolgono mai e conquistare il firmamento raccontando storie fino all’alba. È celebre la storia in cui Ibargüengoitia racconta la straordinaria avventura di quando partecipò insieme al suo amico Manuel Felguérez al raduno mondiale degli Scout in Europa senza il permesso ufficiale dell’organizzazione e con un via libera inteso nel suo senso più onesto; da allora si vede in lui non solo la capacità di identificare all’istante i suoi connazionali, ma anche quella di contemplare il mondo e il prossimo con gli occhi pieni di entusiasmo, quella specie di presunzione invisibile con cui misuriamo l’assurdità altrui o individuiamo i vizi e le virtù dei paesi che non usano la ñ.

Osservata con maggiore attenzione, questa saggia virtù di Ibargüengoitia – contagiosa non appena lo si legge – non solo vale per i viaggi attraverso l’America ignota, ma anche nei percorsi per il Messico meno conosciuto. Come avrebbe fatto l’autore stesso, il viaggiatore che si porta questa sincerità in valigia riesce a capire che un hotel nel cuore di San Andrés Tuxtla, nello stato di Veracruz, potrebbe essere benissimo un edificio della Colonia Narvarte di Città del Messico e inoltre afferma che sulla scrivania della stanza che sembra un forno c’è «uno scarafaggio delle dimensioni di un pambazo», e anche un viaggio lampo a Tepoztlán, nello stato di Morelos, viene avvolto dalla patina di nostalgia di quando Ibargüengoitia faceva lo scout e contrasta con la sua storia, a braccetto con Joy Laville, innamorati, insieme… felici, nonostante non riescano a impedire a un ragazzo invisibile di rubare a Jorge la rubrica perché credeva fosse il suo portafoglio e che un alcolista incallito si avvicini con fare da idiota in mezzo a una piazza ancora bagnata dalla pioggia insistendo perché gli venga data una sigaretta, come quel personaggio imbecille del suo romanzo Estas ruinas qui ves che vuole a tutti i costi conoscere i commensali durante una cena finendo con l’urinare su di loro perché nessuno lo riconosce.

A Washington Ibargüengoitia è in grado di definire a prima vista la bianca città dei neri come la capitale mondiale delle statue di bronzo verde, flagellate ad nauseam da piccioni salvatici, e di metterle in reale confronto con l’opulenza sconcertante dei monumenti greci, dei marciapiedi, delle insegne e addirittura degli obelischi se non di marmo almeno di granito bianco che non hanno nulla a che vedere con le stradine acciottolate di Guanajuato; ed è anche l’arguto osservatore che ha scoperto che arrivare a Lima provoca una sensazione identica a quando si atterra a Querétaro ed è lo straordinario narratore che ha saputo distinguere i diversi gradi di nostalgia che infonde Buenos Aires, ma non senza prima sottolineare che molti messicani la definirebbero come una città europea o piuttosto «Parigi ma con il Paseo Montejo». Ibargüengoitia a L’Avana è il drammaturgo che ha smesso di esserlo per affermarsi e vincere premi come romanziere, scortato da un’inseparabile divisa verde oliva che non lo lascia solo nemmeno sull’ascensore dell’hotel; Jorge con Joy a Parigi dice di vivere in Messico tutte le notti nei sogni in cui gli appaiono autisti di autobus che sembra vaghino per le strade vicine al Paseo de la Reforma, perché ci si addormenta con la patria, senza fare caso a dove si dorme in realtà e ci si porta dentro incubi e sogni profondi, come chi memorizza le chiacchiere fatte a tavola che si trattengono nella saliva e riappaiono inaspettatamente durante una cena in Italia o perché si portano tatuate nell’anima scene di vita vissuta che poi si confondono e sembrano un déjà-vu quando si incrociano in un angolo di Praga o in un prato in Bulgaria e ci si ritrova senza nessuna spiegazione in un angolo quasi dimenticato di Morelia nel prato perfetto di un giardino a Silao.

Le varie fasi di Jorge lo stavano trasformando in viaggiatore, anche quando andava da Coyoacán allo Zócalo di Città del Messico e in più di un’occasione i suoi meravigliosi paragrafi all’interno dei quotidiani non erano altro che la cronaca dettagliata di una traversata che sembrava inverosimile: la corsa in metropolitana, il trambusto dell’autobus e le peripezie dei taxi come seguiti infiniti delle avventure da scout all’aria aperta, attraverso i Cerros Morados e poi come viaggiatore in treno, esperto di bizzarre navigazioni attraverso l’Atlantico per poi raggiungere la destinazione indescrivibile – e tragica – di volare per tutto il mondo e non c’è nessuno che possa restare impassibile davanti al dipinto dai colori tenui in cui Joy lo ritrae nel blu infinito, in cui si vede in lontananza l’aereo che può essere chiamato eternità. Questo è il momento che dura per sempre in cui Ibargüengoitia passeggia per le strade antiche di Madrid, in cui diceva di sentirsi a casa, e a qualunque dei suoi affezionati lettori fa così male sapere che il modo migliore di ricordarlo è immaginarlo sempre in viaggio, verso l’infinito e oltre, anche se si porta la patria in spalla.

© Jorge F. Hernández 2018. Tutti i diritti riservati.       

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