Chancellor Lacey

Le immagini sopra ogni cosa: conversazione tra Will Chancellor e Catherine Lacey

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Pubblichiamo una conversazione tra Will Chancellor e Catherine Lacey, autrice del romanzo Nessuno scompare davvero. L’intervista, apparsa originariamente su The White Review, viene qui riprodotta per gentile concessione dell’autore.

di Will Chancellor
traduzione di Laura Bortoluzzi

Catherine Lacey è una scrittrice arrivata a New York da Tupelo, Mississippi. Ha vinto una borsa di studio della New York Foundation of the Arts, è stata finalista del New York Public Library’s Young Lions Fiction Award e New Voice della rivista Granta. Lacey si è distinta l’anno scorso con il suo romanzo d’esordio, Nessuno scompare davvero. La sua prosa mi ha colpito subito per la sintesi di due qualità che spesso si escludono a vicenda: la particolarità della voce e la ricchezza dell’immaginario.

Nessuno scompare davvero segue Elyria da un matrimonio stabile ma stagnante alle immense possibilità della Nuova Zelanda. Mentre viaggia in autostop per la campagna neozelandese, con in testa un piano appena abbozzato, ripercorre di continuo i ricordi di una sorellastra perduta e di un marito assente. Più Elyria viaggia, più lotta contro l’impossibilità di scappare da sé stessa, sentimento che lei chiama il «bufalo». Tanta turbolenta introspezione sarebbe potuta risultare eccessiva nelle mani di un altro scrittore. Catherine Lacey invece dà forza all’autoanalisi con una prosa viva ed elettrica. È la vivace e brulicante realtà del mondo di Elly a rendere Nessuno scompare davvero così significativo.

Il romanzo pullula di metafore e metonimie: le immagini ci aiutano ad approfondire la nostra comprensione della mente di Elyria e del percorso da lei intrapreso. Il corpo si fa strano nelle pagine del libro: le mani diventano metonimia dell’amore; valutiamo la possibilità di vivere con due cuori; i denti sono, alternativamente, minuscoli, splendenti e digrignati; il cervello è un essere altro dotato di vita propria, a volte avido e vagabondo, altre placido e immobile nell’oscurità. L’immaginario, riga dopo riga, tiene a bada la tipica claustrofobia che accompagna l’esplorazione dei sentimenti o l’anatomizzazione del corpo. Leggere questo romanzo è un po’ come svegliarsi dietro gli occhi di qualcun altro e avere la sensazione che parlarne ci porterà a un futuro di cure psichiatriche. In un certo senso non vogliamo far sapere a nessuno che l’abbiamo letto. Ma d’altro canto vogliamo consigliare a tutti di conoscere la voce di Elly.

Io e Catherine ci siamo incontrati per la prima volta quest’anno in occasione di un’intervista al buio fra romanzieri esordienti. Di recente abbiamo parlato di vita e scrittura al bar della Roebling Tea Room di Brooklyn. Il giorno dopo abbiamo continuato la conversazione online.

Will Chancellor: La prima volta che ho letto il libro ho temuto per Elyria. La seconda volta ho trovato la sua voce comica. Hai provato niente di simile durante la stesura delle varie bozze?

Catherine Lacey: Direi di sì. Non ho mai temuto per Elyria, ma credo si spieghi col fatto che ho sempre saputo cosa le sarebbe successo. Non ho mai pensato di scrivere un libro su una donna che avanzava lentamente verso qualcosa che l’avrebbe distrutta. Penso sia già a pezzi quando arriva in Nuova Zelanda e il suo viaggio è un modo per ricostruirsi.

WC: Sentirti usare quella parola, «distrutta», mi fa sentire in colpa per aver riso. Ma secondo me ricorri spesso a uno humour nero. Dovrei rileggere il libro?

CL: Oh no! Ridere mi sembra un’ottima reazione. Mi ricordo che da ragazza, a vent’anni o forse meno, sono stata a Parigi per la prima volta in vita mia, ero tremendamente depressa e imbranata, e ho dormito a terra nella camera d’albergo di qualcuno perché non avevo soldi e poi ho passato un’altra notte in un ostello orribile e siccome avevo paura del metrò mi sono spostata solo a piedi per due o tre giorni, tanto da bucare le mie sneaker da quattro soldi. Mi sentivo un vero schifo. Adesso se ripenso a quel viaggio la ricordo come la cosa più divertente che ho fatto. Non perché sia finita bene – così non è stato – ma perché riesco a contestualizzare la persona che ero.

WC: Ma il romanzo non fa ridere solo per la distanza narrativa. La voce di Elly è quello che mi è piaciuto di più. Prendi un passo come questo, che è un pugno nello stomaco: «Andai in cucina a bere un bicchier d’acqua e invece tirai fuori un coltello perché stavo immaginando di darmi una coltellata in faccia – non che avessi davvero intenzione di accoltellarmi in faccia, però mi sembrava una manifestazione concreta di come mi sentivo – e presi un coltello da chef, quello buono e pesante che uso per tutto, dall’affettare la frutta all’impalare le zucche, lo guardai e sbottai in una risata afona, poi misi giù il coltello, mi versai un bicchier d’acqua e lo scolai d’un fiato finché non mi andò un po’ di traverso, e tornai a discutere con mio marito…» A me fa ridere. È uno humour cupissimo, ma ancora adesso mi viene da ridere mentre mi sento mancare il fiato.

CL: Credo di essermi fatta trasportare dal movimento della sua voce, da come salta da un’idea all’altra in un modo che sembra casuale, ma in realtà è molto più metodico. Credo che le parti migliori del libro, a giudicare dai brani che mi citano più spesso, siano nate come puro flusso di coscienza dopo aver passato minimo un anno con Elyria. È uno dei vantaggi di scrivere un libro incentrato su un singolo personaggio che parla in prima persona. Quando trascorri qualche ora tutti i giorni con la stessa voce, arrivi a un punto in cui la scrittura diventa quasi automatica.

WC: Quindi è il suo subconscio a essere comico.

CL: Più che altro la logica dietro la sua follia. Almeno è quello che io trovo divertente in lei.

WC: Il titolo del libro deriva da una poesia di John Berryman, «Dream Song 29»:

Ma Henry non aveva mai, al contrario di quel che credeva,

fatto fuori nessuno e non l’aveva squartata

e nascosto i pezzi dove potessero trovarli.

Ne è certo: ha pensato a tutti, e non manca nessuno.

Spesso, all’alba, li riconta.

Non scompare mai nessuno.

Il contesto più ampio dell’epigrafe sembra offrire una lettura simile: all’inizio macabra, ma dopo un’analisi più approfondita densa di uno humour nerissimo – l’impossibilità di contare ciò che è scomparso. Hai mai considerato il titolo del tuo libro nel contesto più ampio della poesia di Berryman, con un orco che rapisce la gente per strada?

CL: In realtà no. Ho solo considerato la voce narrante di questa poesia come speculare a quella di Elyria, non come un’allusione a un tragico evento che può accadere per strada. Ora che ci ripenso, mi sorprende immaginare solo adesso la poesia di Berryman in un simile contesto, perché nel libro ci sono diversi riferimenti al fatto che Elyria tema di essere fatta a pezzi o altri temano che la facciano a pezzi o ai suoi sogni dell’orrore a occhi aperti in cui immagina di farsi a pezzi da sola. Ma in realtà io detesto libri e film horror. In generale non mi piace che mi si chieda di immedesimarmi in qualcuno che sta per essere aggredito, quindi forse è per questo che non ho mai visto Elyria come una potenziale vittima.

WC: In letteratura quali sono i personaggi con cui ti riesce più facile immedesimarti?

CL: Gli sfigati. Una volta una scrittrice mi ha detto che i suoi protagonisti sono sempre versioni migliori della persona che lei crede di essere. I suoi personaggi dicono o fanno quello che avrebbe voluto dire o fare lei, quasi fosse un modo di rivivere la sua vita. Credo si possano anche raccontare storie del genere ma a me non interessano. Io tendo a imparare di più dal fallimento, quindi in narrativa voglio vedere gente che fallisce. I momenti e le relazioni peggiori della mia vita mi hanno insegnato come non voglio comportarmi o essere trattata. Ho dovuto toccarlo prima con mano.

WC: Mi viene in mente quella fantastica espressione, «l’esprit d’escalier», lo spirito della scala: quello che avresti voluto dire a cena, ma che ti è venuto in mente solo mentre scendevi le scale. C’è una ragione se la vita reale non è tutto un susseguirsi di battute sagaci e fulminee, e credo che un loro eccesso in letteratura risulti in una scrittura prolissa o ipertesa. L’imperfezione sembra connaturata al modo in cui nel tuo libro la voce, peraltro eccezionale, ci conduce attraverso l’esperienza, facendoci percepire il tempo come Elyria, con un andamento irregolare e molto concreto.

CL: Nella commedia di Will Eno, The Flu Season, un personaggio di nome Epilogo dice questa battuta: «Se potessimo controllare la vita, non sarebbe vita. Se potessimo controllare la nostra probabilità di vita, non sarebbe una probabilità». Credo che uno dei pericoli o degli ostacoli maggiori di scrivere narrativa sia credere di sapere cosa si sta facendo, credere di avere il controllo. Noi artisti siamo costantemente in attesa di quei momenti in cui il nostro io si leva di mezzo e scriviamo come se non dovesse mai leggerci nessuno.

WC: Ma l’ingenuità deliberata sembra impossibile, o fasulla. Credo che per nessuno dei miei prossimi libri sperimenterò lo stesso senso di libertà del primo. Il bello di scrivere il primo libro, secondo me, è che non hai la minima idea degli intrighi dell’industria editoriale. Pensi sia più semplice esordire nella scrittura da questa condizione di grande apertura e originalità?

CL: In un certo senso, sto arrivando a questa conclusione. Mi sono decisa sul serio a concludere il libro quando ero quasi alla fine della prima stesura. E solo dopo ho pensato che forse volevo provare a pubblicarlo. Voglio dire che ho cominciato a scrivere non solo senza aspettarmi di pubblicare, ma addirittura senza pensare di scrivere un libro. Immaginavo di diventare un’autrice di saggi. Quando si comincia a scrivere il secondo libro bisogna prendere molto le distanze dal giudizio altrui, perché ci vuole tempo ad abituarsi al fatto che ciò che prima rimaneva segreto adesso venga letto da altri. Molto dipende dai confini che si tracciano. Non solo fregandosene di ciò che pensano gli altri ma anche tenendo a mente che lo sforzo di scrivere narrativa è del tutto inutile se non si è attivamente impegnati in questo lavoro. Per confini, in quest’ottica, intendo non guardarsi alle spalle mentre si scrive. E non essere troppo permeabili alle critiche e ai gusti o alle aspettative altrui. Bisogna trovare un modo, invece, di essere totalmente permeabili all’interno del proprio lavoro, totalmente invischiati.

WC: Capisco. David Mitchell dice che lo aiuta pensare di essere uno scrittore quando in realtà sta facendo il lavoro di Dio e di essere un autore quando ha il costume da pollo fuori da Barnes and Noble.

CL: Certo. La sfida del secondo romanzo è che dopo esserti appena abituato al costume da pollo devi ritornare nel santuario del tuo lavoro, con tutti i casini annessi e connessi. Nei primi mesi dopo l’uscita del libro ero troppo presa da me stessa per lavorare, troppo scioccata dalla novità di essere recensita eccetera. Poi la febbre è passata e sono giunta alla conclusione molto adolescenziale che tutto questo non ha alcuna importanza. Non sono una persona diversa perché qualcosa che ho scritto è una merce che si può comprare e tassare. Non mi rende migliore o peggiore di nessun altro.

WC: Il titolo del libro, Nessuno scompare davvero, mi fa pensare sempre a Non puoi tornare a casa di Thomas Wolfe. Innanzitutto, credi di poter tornare a essere quella che eri prima della pubblicazione e, in secondo luogo, credi di poter tornare fisicamente in un posto che hai lasciato?

CL: Non posso tornare quella che ero prima della pubblicazione del libro, ma non per via della pubblicazione in sé. Oggi è il compleanno della mia sorellastra. Avrebbe compiuto 32 anni. L’esperienza della sua perdita, avvenuta poco dopo aver venduto il libro, mi ha buttato giù per po’ di tempo, mettendo in grande risalto la piccolezza della mia carriera. Se tornassi a essere la persona, il tipo di scrittrice che ero prima di pubblicare, allora non avrei imparato quello che ho imparato, e sto ancora imparando, da quel fatto tremendo. Ciò si lega, in un certo senso, all’impossibilità di tornare in un luogo. Sono cresciuta nel Mississippi e il Sud, nel suo complesso, prova una nostalgia quasi invasiva per un tempo a cui nessuno vuole davvero tornare. Credo che negli ultimi decenni sugli scrittori originari del Sud aleggi il presentimento di essere nati in un posto dove è impossibile ritornare.

WC: Nel libro si avverte. Abbiamo la sensazione di non poter mai ritornare dalle persone. Ruby non c’è più. Elyria prova a tornare dal marito alla fine, ma scopre che le leggi fisiche della sua vita newyorkese sono cambiate. È come se fosse un fantasma nel suo vecchio palazzo.

CL: Credo che alcune persone, nel vivere una relazione, si ostinino a cercare di essere la persona che erano in un momento ideale di quel rapporto. Ci sono poche cose al mondo più tristi di questa. E io non faccio eccezione. Credo di aver passato anni a sprecare energie rimpiangendo i ricordi di persone che sono ancora vive e vegete. È stupido rimpiangere il passato recente che ho condiviso con persone che fanno ancora parte della mia vita. Crescendo ho smesso, fino a un certo punto, ma non credo che l’abitudine si perda mai del tutto. Sembra un triste destino tipico di noi esseri umani provare nostalgia per i nostri ricordi più belli.

WC: A Elyria viene chiesto espressamente di esplorare alcuni dei suoi pensieri più cupi quando partecipa a uno studio universitario. I tecnici le prelevano campioni di sangue, le mettono degli elettrodi, le fanno bere un liquido blu, e per quindici minuti la sottopongono a una serie di domande in una stanza completamente buia. Lì per lì ho pensato che fossi tu a interrogare il tuo personaggio. Le domande che le fanno scavano nel suo profondo: qual è la tua paura più grande? Qual è il senso dell’amore? C’è vita dopo la morte?

CL: A un certo punto, mentre scrivevo, credo di aver voluto inserire un elemento surreale che non fosse troppo magico. Quando scrivi un racconto o un romanzo così incentrato su un singolo personaggio, comincia a sembrare un interrogatorio, in parte al personaggio, in parte all’autore. Non so bene da dove sia nata l’idea, ma ho fatto in modo che in base alle regole dello studio Elyria dovesse rispondere alle domande il più in fretta possibile, e poi ho scritto quelle pagine altrettanto in fretta senza correggere molto.

WC: Mi fa molto piacere che tu abbia fatto emergere la logica surreale di questa scena. Fa il paio con l’esperienza di trovarsi in un paese dagli ampi spazi aperti come la Nuova Zelanda e di saltare da un’auto all’altra mentre si fa l’autostop.

CL: Sì! Anche questo. Non ci avevo pensato, ma quando fai l’autostop continui a presentarti ogni volta a una persona diversa: stesse domande, nuovi contesti.

WC: Vorrei porre l’accento sul lirismo della tua prosa. Adoro la scena del laboratorio: «Durante il prelievo guardai la provetta trasparente che diventava rossa e la sentii scaldarsi contro il mio avambraccio, e pensai a come le mie mani e quelle di mio marito si amavano ancora mentre i nostri corpi non facevano che penzolare dalle mani, e provai invidia per la semplicità con cui le nostre mani potevano essere ciò che erano: ambigui tranci di muscoli e ossa che toccano, tengono e si fanno tenere, e via da capo». La scrittura sembra irradiarsi da un’immagine precisa, le mani giunte, e riesce a racchiudere tutto ciò che prova Elyria in quel momento. Mi chiedo se è così che scrivi, per immagini che si susseguono una dopo l’altra, e se intuitivamente confidi nel fatto che basta catturare le immagini giuste perché ogni scena del libro sia una scena riuscita.

CL: Avevo completamente dimenticato quell’accostamento di frasi. Scrivo in modo molto confusionario e penso in modo molto confusionario. Per confusionario intendo che magari sto facendo la dichiarazione dei redditi e mi ricordo di un libro che ho letto anni fa e prendo un appunto su un pezzo di carta e il colore della carta mi ricorda l’uva bianca e la sua consistenza e questo mi ricorda il ragazzo dai capelli rossi che conoscevo da piccola e che sbucciava l’uva bianca e chiamava gli acini occhi di serpente e li mangiava con uno strano sorriso e poi alzo gli occhi e so quanto posso dedurre quest’anno. Scrivo così. E sì, mi fido delle immagini quasi sopra ogni cosa. Il discorso è più complesso, ma tutto ciò che ho scritto di buono è nato come un’immagine. Per un po’ di tempo rimangono solo testi da 1000 parole. Poi se tutto va per il verso giusto le parole trovano il modo di funzionare bene insieme. Ho scritto un libro solo, quindi cosa vuoi che ne sappia, ma credo che alla fine le parole si incontrino perché c’è una logica interna e la spinta del personaggio che racconta la storia.

WC: Io non credo che scriverò mai in modo diverso o che addirittura mi piaceranno libri che non siano scritti in modo simile al mio, il che è sintomo di una grave chiusura mentale, ma cosa posso farci? È possibile che sia solo una fase. Bloom direbbe che la prossima fase sarà scrivere un memoir. Stai lavorando a un memoir?

CL: No, ma in un certo senso anche sì? Non è sempre la risposta giusta? Una volta chiesero a John Berryman come reagiva all’etichetta di «poeta confessionale». Lui rispose: «Con rabbia e disprezzo, prossima domanda!» Per dire che secondo me tutto è confessionale e in realtà nessuno vuole parlarne.

WC: Rimanendo su Bloom, la traduzione migliore che mi viene in mente per «kenosi» è «annullamento di sé». Ti sembra corretto? Riesci a scrivere solo dopo aver cancellato ogni senso di te stessa? Io faccio fatica ad avere un’intuizione quando mi sento pienamente presente a me stesso. In parte non è questo che rende così frustrante il periodo dopo il primo libro? Come hai detto tu prima, sono d’intralcio alla mia stessa scrittura. L’unico momento in cui colgo quelle illuminazioni, che sono ognuna una vertebra del romanzo su cui sto lavorando, è quando riesco a rimuovere ogni traccia del mio io cosciente.

CL: Credo che il mio metodo si avvicini di più allo scavare dentro di me per raggiungere altre persone. Non c’è nulla di così peculiare nell’esperienza di nessuno di noi da doverci vergognare o cercare di nasconderla scrivendo di qualcuno totalmente diverso da noi. In fondo tutti viviamo la stessa storia.

WC: Credo che tu abbia detto tutto sui vivi. A chi lasci i fiori nel cimitero degli artisti-scrittori?

CL: Di tanto in tanto mi prende un’ossessione furiosa per uno scrittore o un artista morto, al punto da sentire un legame con il suo fantasma. Per lungo tempo è stato Berryman, ma non mi sono ancora stancata dei dipinti e dei disegni di Cy Twombly. Non so perché. Spero di non scoprirlo mai. La prima volta che sono andata alla Twombly Gallery di Houston, che è proprio dietro la Cappella Rothko, non ho fatto che piangere. Rothko mi ha molto provata e messo addosso una gran tristezza. Ma Twombly è morto da poco. Fra quelli morti da parecchio tempo adoro Frida Kahlo. Quel suo modo folle e calmo di disporre le cose, tutto quel trasporto persino nelle nature morte. C’è stata un’estate che ero convinta di essere perseguitata dal fantasma di Anaïs Nin.

WC: Lei è una di quelli buoni, vero?

CL: Oh, sì. La fregatura del suo fantasma è che ti fa pensare un sacco al sesso. Che è molto meglio di quanto possa dire di Berryman.

© Will Chancellor, 2015. Tutti i diritti riservati.

Will Chancellor è cresciuto fra le Hawaii e il Texas. Il suo romanzo d’esordio, A Brave Man Seven Storeys Tall, è uscito nel 2014 per Harper Collins.

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