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Perché non sono femminista, un estratto

Pubblichiamo oggi un estratto da Perché non sono femminista. Un manifesto femminista [1], l’agguerrito e provocatorio pamphlet della scrittrice e intellettuale statunitense Jessa Crispin [2]. Buona lettura!

di Jessa Crispin
traduzione di Giuliana Lupi

Sei femminista?

Credi che le donne siano esseri umani e che meritino di essere trattate come tali? Che le donne meritino gli stessi diritti e libertà concessi agli uomini? Se sì, sei femminista, o almeno così continuano a sostenere tutte quelle che dichiarano di esserlo.

Nonostante la definizione semplice e ovvia che ne dà il vocabolario, e malgrado decenni di militanza e l’impegno profuso in organizzazioni femministe no profit, non mi riconosco in quell’etichetta. Se mi si chiedesse oggi se sono femminista, non soltanto risponderei di no, ma storcerei la bocca.

Tranquilli, non mi metterò a insistere che non sono femminista perché temo di essere presa per una di quelle femministe arrabbiate, con le gambe pelose, che odiano i maschi e sono lo spauracchio di entrambi i sessi. Né intendo rassicurare nessuno della mia mansuetudine, ragionevolezza ed eteronormatività, del mio amore per gli uomini e della mia disponibilità sessuale, benché una simile avvertenza sembri essere diventata la premessa di ogni scritto femminista pubblicato negli ultimi quindici anni.

Anzi, quel modo di presentarsi – sono innocua, non mordo, puoi scoparmi – è proprio il motivo che m’induce a rifiutare l’etichetta di femminista: tutte queste cattive femministe, queste discussioni talmudiche del tipo «si può essere femministe e depilarsi integralmente?»; tutte queste rassicurazioni al proprio pubblico (maschile) di non pretendere troppo, di non volersi spingere troppo avanti: «Non lo sappiamo neanche noi cosa andava dicendo Andrea Dworkin! Fidatevi»; tutte queste femministe che dispensano pompini con zelo missionario.

A un certo punto del percorso verso la liberazione femminile si è deciso che il metodo più efficace fosse rendere universale il femminismo. Ma anziché creare un mondo e una filosofia capaci di attirare le masse, un mondo basato sull’equità, la comunità e lo scambio di idee, era il femminismo stesso a dover essere sottoposto a un restyling per risultare più appetibile al pubblico contemporaneo, sia maschile che femminile.

Si è dimenticato che una cosa, perché sia universalmente accettata, deve diventare più banale, innocua e inefficace possibile. Di qui quel modo di presentarsi. La gente non ama i cambiamenti, per cui il femminismo dev’essere vicinissimo allo status quo – con modifiche minime – per reclutare grandi numeri di adepte.

In altre parole, deve diventare totalmente inutile.

Il cambiamento radicale fa paura. Anzi, incute terrore. E il femminismo che io propugno è una rivoluzione totale in cui alle donne non sia semplicemente permesso di partecipare al mondo come già è – un mondo intrinsecamente corrotto, concepito da un patriarcato per sottomettere, controllare e distruggere chiunque osi sfidarlo – ma in cui siano parte attiva nel riformarlo. In cui le donne non si limitino a bussare alle porte di chiese, governi e mercati capitalisti chiedendo educatamente di essere ammesse, ma creino i loro propri sistemi religiosi, politici ed economici. Il mio femminismo non prevede un cambiamento per gradi che alla fine lascia tutto com’era, e anche peggio. È un fuoco purificatore.

Chiedere a un sistema costruito con il preciso scopo di opprimere: «Ehm, per favore, smetteresti di opprimermi?» è assurdo. L’unica azione che ha senso intraprendere è smantellare completamente quel sistema e sostituirlo con un altro.

Ecco perché non mi posso associare a un femminismo concentrato stupidamente sul «self-empowerment», l’affermazione di sé intesa in senso individualistico, un femminismo i cui obiettivi non comprendono la totale distruzione della cultura delle multinazionali ma soltanto una maggiore percentuale di donne tra gli amministratori delegati e gli ufficiali dell’esercito, un femminismo comodo, che non esige riflessioni né un vero cambiamento.

Se il femminismo è universale, se è un carro su cui tutte le donne, e gli uomini, possono saltare, non fa per me.

Se il femminismo non è altro che un guadagno personale fatto passare per progresso politico, non fa per me.

Se dichiarandomi femminista devo rassicurare che non sono arrabbiata, che non rappresento una minaccia, di certo il femminismo non fa per me.

Io sono arrabbiata. E rappresento una minaccia.

© Jessa Crispin 2017. Tutti i diritti riservati