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Il primogenito (quasi) rinnegato

Fabrizio Gabrielli SUR

Ripeschiamo dalle primissime pubblicazioni del blog un intervento di Fabrizio Gabrielli sul romanzo giovanile Écue-Yamba-Ó, di Alejo Carpentier, lo scrittore cubano che coniò la definizione di «real maravilloso», o «realismo magico» che dir si voglia. Il romanzo è uscito in edizione italiana per i tipi di Lindau.

di Fabrizio Gabrielli

È il millenovecentosessantaquattro, sei César Leante e quando entri nella sala riunioni della casa editrice Editorial Nacional de Cuba Alejo Carpentier, il direttore, è lì che ti aspetta con le gambe sotto un tavolo di cristallo, circondato da vecchie mappe marittime, riproduzioni di quadri celebri di Picasso e Gaugain, libri. Tantissimi libri.
Vieni per intervistarlo, e lo intervisterai. Tre lunghi giorni di fluviali chiacchiere.
Su quella sedia, i gomiti poggiati sul tavolo, focalizza bene l’immagine, non lo vedrai spesso: non è tipo da rimanersene seduto troppo a lungo, Carpentier. Perennemente nervoso, costantemente dominato da un’irrequietezza palpabile, senza soluzione di continuità risponde alle telefonate, legge missive, fin quando non prega la sua segretaria, Pussy, di non disturbarlo più.
E allora comincia a girare per la sala, con passi corti, poggiando di tanto in tanto le mani sulla spalliera della sedia. Di tanto in tanto ci si lascia andare pure, sulla sedia, con le gambe larghe. Ma è come se scottasse, quella sedia. Odia stare fermo, Alejo.
Odia anche dilungarsi troppo a lungo su aspetti che non ritiene fondamentali, ciò che conta di un uomo è la sua opera, non la vita privata. Per questo, anche se ti chiami César Leante, non ti dirà nulla di donne, non lo sentirai raccontarti – con quella erre gutturale che tanto lo contraddistingueva – alcun aneddoto. Alcun aneddoto che non riguardi la sua opera. Non ama dilungarsi in quisquiglie, Carpentier.

Smettila di metterti nei panni di César Leante, lettore. Fai il lettore, e stammi a sentire.
Può starci che tu conosca Carpentier per l’epopea haitiana de Il regno di questo mondo, per l’inedito ritratto di Colombo in L’arpa e l’ombra, per lo scioccante effetto delle teorie rivoluzionarie francesi sulla coscienza e sullo status quo dell’America Caraibica narrato ne Il secolo dei lumi. Per il realismo magico. Per i miracoli così frequenti nelle Antille ed altrettanto spesso dipinte a pennellate oniriche, quelle inattese alterazioni della realtà che generano il fantastico, il meraviglioso.
In Écue-Yamba-Ó, che forse non l’hai letto ma che di sicuro ora stai per farlo, c’è, in nuce, ogni particella dello stile carpenteriano. Ogni tassello della sua Weltanschauung. Acerba, certo. Non ancora approfondita, senza dubbio. Eppure c’è, è là, racchiusa in quello che si può definire, senza economia linguistica ma con precisa didascalicità, un bildungsroman afrocubano, nazionalista e campesino.
Vi si narra la storia di Menegildo Cué, giovane negro che vive le proprie formazioni, quella sentimentale e sociale, rimbalzando da uno zuccherificio alla grande città, L’Avana, sullo sfondo dell’incerta situazione politica degli anni trenta a Cuba, affondando i passi nelle fangose paludi dei rituali dello ñáñiguismo, ballando corpo a corpo, tanto da poterne sentire l’alito tiepido sul collo, con l’amour fou, la morte, il pericolo, l’afrore delle carceri. Un lirico j’accuse ai disequilibri della società, della giustizia, della classe dirigente cubana degli anni Venti.
Carpentier l’ha scritto, meglio ne ha scritto la prima stesura, in soli nove giorni, dal primo al nove agosto del millenovecentoventisette, proprio mentre era rinchiuso nel carcere del Prado, nella cella numero quindici. Se ti stai chiedendo cosa ci facesse in carcere Carpentier, pronto detto: scontava una pena per dissidenza.
Succede che dal millenovecentoventitré, ergo dalla sua fondazione, s’era legato al Gruppo Minorista: un movimento intellettuale, certo, che nutriva però anche l’ambizione di dare una scossa, attraverso l’azione, alla scena politica. Come confessa l’autore stesso, dal medesimo istante in cui ho terminato la lettura di Memorie di un uomo d’azione di Baroja aveva iniziato a desiderare di diventarlo, prima o poi, uomo d’azione. Non fu un’esperienza positiva: tutto quel movimento fu una commedia, un vaudeville di quart’ordine. Amava l’idea di ridefinire la questione sociale cubana, Carpentier, e per coltivare gli amori veri, si sa, bisogna sposare pratiche odiose e detestabili. Alejo, che amava scrivere, dopotutto s’è dovuto reinventare storico delle calzature in un’opera commissionatagli dall’Unione dei Fabbricanti Calzaturieri, e Jacqueline per scrivere di moda nella rivista Social.

L’esperienza nel Gruppo Minorista, l’eco delle parole di Lenin, le prime insurrezioni sindacali e studentesche d’America lo spingono a firmare un manifesto contro Machado, capo del governo dell’epoca, una mossa ribattezzata La protesta de los trece. Tutti e tredici, inutile sottolinearlo, furono incarcerati.
Fu là, al numero uno del Prado, che Carpentier conobbe e cominciò ad amare l’Internazionale (gliela insegnò Joaquín Valdés, un raccoglitore di tabacco), ed i personaggi ritratti in Écue-Yamba-Ó: il Re-di-Spagna o il Magnaccione, per dire.
In carcere comprese la difficoltà di sopravvivere in uno stato di perenne tensione e nervosismo, la mancanza delle donne che degenera sempre in una rissa, l’accanimento per la politica. Ed insieme ad alcuni compagni di cella, Guillén piuttosto che non Tallet o Marinello, entrò in contatto con i primi afflati di quelsentimento ibrido che tendeva a far incontrare l’anelo a plasmare il nazionale tanto caro a Diego Rivera, non scevro d’influenze naturaliste francesi, con l’impeto travolgente degli ismi: il dadaismo, l’ultraismo. Il futurismo.

Ora, lettore, torna per un attimo César Leante, e prova a chiedergli, a Carpentier, cosa pensa di Écue-Yamba-Ó, del suo primo romanzo.
Un tentativo fallito, ti dirà, fallito per l’abuso di metafore, di similitudini meccanicistiche, di immagini d’un obbrobrioso cattivo gusto futurista, d’un forzatamente melenso carattere nazionalistico.

Ti sembrerà davvero odiarlo, Écue-Yamba-Ó, Carpentier, odiarlo con tutte le forze, vergognarsene profondamente eppure, al contempo, volergli bene, a quel romanzo, come se ne può volere a quei mocciosi pei quali la paternità non è ancora stata (né sarebbe vantaggioso lo fosse mai) acclarata definitivamente.
È come una di quelle donne affascinanti, Écue-Yamba-Ó, delle quali ti sei invaghito in gioventù, spendendo ogni esalazione di forza e passione, per poi renderti conto ch’era tutt’un artificio superficiale, tutto un perdere la testa per gl’abiti senza considerare ciò che albergava più nel profondo, al di là delle apparenze, al di là del folklore, al di là d’un bacio rubato nella piantagione delle canne di zucchero sotto il cielo plumbeo prima che divampi l’uragano.

Mario Vargas Llosa, era quarant’anni prima che prendesse il Nobel per la Letteratura, anche a lui un giorno gli è venuto da chiedere a Carpentier com’è possibile che proprio non si trova, in giro, Écue-Yamba-Ó?
Il primo a non volerlo trovare in giro sono io, gli risponde Alejo. Perché quello è il frutto della febbre sperimentalista, giovanilista: delle febbre dell’adolescenza.
Amore ed odio, lo si sa, sono uniti a doppia mandata: e non fai in tempo a terminare la frase non puoi capire quanto non sopporto il fatto che che già ti viene da aggiungere anche se poi, in fondo in fondo, che non è forse un moto d’amore, un ultimo insperato tentativo di giustificare, di dare senso, di salvare?

Carpentier lo amava, in fondo in fondo, Écue-Yamba-Ó.
Quando si prende la premura di aggiungere che eppure non tutto è deplorabile, in lui, salverei dall’ecatombe i capitoli dedicati al rompimiento ñáñigo, non confessa forse il viscerale suo amore per la comunità nera, grazie alla quale e per la quale gli era stato possibile concepire la storia così come l’ha concepita, presentando di fatto una nuova visione di un settore tutt’affatto di secondaria importanza della popolazione cubana?
Con quella popolazione era cresciuto (ho passato tutta la mia infanzia a giocare coi negretti, con grande scorno delle famiglie bianche amiche, imparando dal signorile pudore della miseria il loro patire con dignità), attraverso di loro aveva appreso la spiritualità dell’oralità, del ritmo, della lingua che si fa vessillo della ribellione, dei rintocchi d’ekue prima che esploda il finimondo.
E la peggior cosa che potesse capitargli, forse, a Carpentier, è proprio questo accorgersi, col senno di poi, d’averla ritratta con le parole sbagliate.
D’averla tradita, in un certo senso.
Che son cose che lasciano sempre un retrogusto amaro, dopotutto.

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