Non dimenticare la guerra: cinema, letteratura e storia

Raul Schenardi Autori, Rodolfo Fogwill, SUR

Beatriz Sarlo è stata docente ordinaria di Letteratura argentina presso la Facultad de Filosofía y Letras dell’Universidad de Buenos Aires, docente ospite presso la Columbia University, le università di Berkley, del Maryland e del Minnesota, e ha tenuto corsi all’università di Cambridge. È fra le più illustri critiche letterarie argentine e latinoamericane, con numerose pubblicazioni al suo attivo (fra cui un pregnante studio su Borges), e collabora a diversi quotidiani e riviste.

di Beatriz Sarlo

traduzione di Elisa Montanelli

Ho riletto Los Pichiciegos di Fogwill. Cercherò di porre questa analisi in una prospettiva tale da dimostrare che la rilettura non è stata azzardata. Scrive Fogwill:

La polvere chimica. In queste isole di merda non c’è più neanche un barattolo di polvere chimica. Perché l’hanno sprecata? L’hanno sprecata e se ne sono dimenticati: non c’è più nemmeno un barattolo di polvere chimica! Né gli inglesi né gli abitanti delle Malvine, né quelli della marina né quelli dell’aeronautica, né quelli del comando né quelli della polizia militare hanno più nemmeno un misero barattolino di polvere chimica, che invece è essenziale. Non c’è più polvere chimica, non ce l’ha nessuno.
Con la polvere chimica e un pavimento di terra, uno fa i suoi bisogni, li fanno in due, tre, quattro, cinque, e la merda si secca, non manda odore, si ammucchia e si comprime, e il giorno dopo la puoi buttare via con le mani, senza schifarti, come se fosse un sasso o uno stronzo d’uccello.

Il problema è lo stesso, la domanda che rende tangibile il problema è la stessa: la guerra delle Malvine appartiene a un ordine di materialità previo e che sta alla base di qualsiasi possibile racconto sulla guerra. Quando le cose dicono la loro verità, materializzano il ricordo. Quando il bisogno della polvere chimica è così grande, quando la mancanza della polvere chimica fa sì che la gente trasformi il suo rifugio in grotte puzzolenti o che si congeli nel vento della notte, la guerra comincia a essere qualcosa di tangibile per la narrazione. La guerra, come l’olocausto, si manifesta negli oggetti manipolati da una tecnologia sofisticata o trasformati da prodotti artigianali di sopravvivenza. Per parlare della guerra non esistono termini generali: o si sa o non si sa quello che fa la guerra con i corpi (o si sa o non si sa che cos’è un forno crematorio e quanto ci mette a finire una mandata di uomini e donne). Nel romanzo di Fogwill, la guerra delle Malvine è tradotta nelle conoscenze necessarie per la sopravvivenza: gli stratagemmi per contrattare in un mercato quasi inverosimile dove si barattano azioni di spionaggio o interventi bellici con pile per le torce, sigarette e razioni di cibo.

I pichiciegos (gli armadilli) sono una colonia di sopravvissuti dai quali si sono allontanati tutti i valori, tranne quelli che si possono tradurre in azioni che permettano di conservare la vita. Se il succo della guerra è far fuori il nemico, quello della colonia dei pichis è evitare, ad ogni costo, che ciò accada ai membri della colonia. A prima vista i pichis sembrano una tribù. Tuttavia, a differenza delle tribù, il loro legame è effimero: durerà fino alla morte di ognuno di loro e non proseguirà oltre la morte ad eccezione della voce del pichi che ricorda (per lo scrittore che trascrive questa voce immaginaria). Li ha uniti, temporaneamente, non un’identità ma una necessità: non condividono una memoria più vecchia di quella dell’inizio dell’invasione delle Malvine. Al massimo condividono qualche battuta, aneddoti scambiati durante l’oscurità della reclusione sotterranea che loro stessi si sono costruiti scavando la terra dell’isola: provengono da tutte le province e in ognuno di loro è assente il legame che costituisce un’identità nazionale. Paradossalmente, è la guerra che per loro ha distrutto qualsiasi idea di nazione: arrivati alle Malvine come soldati di un esercito nazionale, le operazioni di questo esercito hanno deteriorato ogni vincolo di nazionalità. Della nazione l’unica cosa che conservano i pichis è la lingua. Così la tribù dei pichis ha definito un nuovo territorio, la colonia sotterranea dove si rifugiano per sopravvivere, e dove i valori si organizzano in funzione di quest’unica missione sociale: conservare la vita.

Fogwill mostra così il paradosso della guerra. L’avventura nelle Malvine fu per la dittatura militare un’occasione per tentare la costruzione di un’unità nazionale indispensabile alla sopravvivenza politica del suo regime. Se nello scenario dell’Argentina continentale, durante i mesi della guerra, questo obiettivo fu parzialmente raggiunto nella misura in cui milioni di persone trovarono, in un patriottismo scoperto proprio quel 2 aprile, un punto di identità che la dittatura fra le altre cose aveva espressamente corroso, nello scenario concreto della guerra – le isole Malvine – il romanzo di Fogwill mostra come questa identità nazionale sia la prima cosa a dissolversi quando i suoi ipotetici portatori vengono mossi come pedine in una scena dove la debolezza dei principi unificatori si rafforza con la prossimità della morte. Capire i pichis significa proprio capire ciò che una guerra (non qualsiasi guerra, ma questa, la guerra scatenata dall’impresa di Galtieri) fa agli uomini.

Non a torto, Fogwill ha detto che il suo romanzo è pacifista. Infatti, il pacifismo pone i problemi della legittimità della guerra e conclude che la guerra non è l’ultima risorsa, ma una soluzione estrema indesiderabile. Non è questo il punto in Los pichiciegos: il romanzo non vuole dimostrare niente e i suoi personaggi non sono nelle condizioni ideologiche né discorsive per riflettere. I pichis non hanno assolutamente futuro, camminano verso la morte e pertanto possono solo ragionare in termini di strategie di sopravvivenza.

Il loro tempo è puro presente: e senza temporalità non c’è configurazione del passato, comprensione del presente né progetto. Come futuri morti, i pichis possono solo pensare a un posticipo, ora per ora, di questo epilogo, senza farsi catturare da questo epilogo e, allo stesso tempo, senza farsi l’illusione che esista un tempo per loro. In queste condizioni di miseria simbolica, il romanzo rappresenta le condizioni della miseria materiale e le astuzie delle transazioni in un mercato che è anch’esso puro presente.

Il romanzo immagina, quindi, com’è materialmente una guerra: la finzione, posta nella situazione concreta a partire dal registro delle azioni e dell’inventario delle cose, pensa a come sia il freddo, il dolore di una ferita, l’odore del corpo vivo o in decomposizione, in una situazione di guerra. E dal momento che si tratta di un conflitto del ventesimo secolo, la finzione pensa ai numeri, alle quantità, alle misure, alle distanze, alla materia. Senza eroi e senza traditori (perché la sospensione dei valori nel teatro di questa guerra rende quasi impossibile l’emergenza), il romanzo dà una valutazione in termini di un mercato di sopravvissuti e, si sa, un mercato è astratto nelle sue regole di funzionamento generale di scambi e concreto nella stima specifica della merce scambiata in ogni transazione.

Così, la letteratura pensa le cose, le relazioni fra le cose, le misure di distanza e di tempo che permettono o ostacolano la riuscita delle cose, i processi di conversione (come la morte stessa) dei corpi in cose. Nella tribù dei pichis, quelli che pensano sono i capi (i Re della tribù) e lo fanno nella lingua delle cose o nella lingua dei processi che riguardano le cose e gli uomini, solo se gli uomini fossero delle cose:

Si affacciò nel magazzino. Alla luce scarsa della stufa non si vedeva nulla.
Cercò la torcia. Pipo, svestito, abbracciava un sacco di patate, dove tenevano anche cipolle argentine. Gridò di nuovo:
«Pipo! Cazzo! Svegliati!»

Pipo non rispose. Lui allora scese giù a svegliarlo. Una volta nel magazzino lo scosse e Pipo lasciò il sacco e cadde di testa per terra, a torso nudo come sempre. Dopo di lui si rovesciò anche il sacco e ruzzolarono via quattro patate, due cipolle e, inspiegabilmente, un’arancia fresca appena sbucciata. Anche Pipo era morto. Da sotto chiamò:

«Turco! Viterbo!» Dove potevano essere?

Tornò allo scivolo, passò nel condotto degli inglesi. La radio era accesa e captava allo stesso tempo trasmissioni militari britanniche e argentine. […] I due soldati britannici erano sdraiati per terra e dietro di loro Manuel era ancora infilato nel suo sacco a pelo rosa. Tirò un calcio al paracadutista che aveva la gamba piegata, la gamba si allungò e lo stivale sbatté contro la schiena del commilitone. Tutti e due morti.

Corse nel condotto principale. Tutti i pichis sembravano addormentati. Li illuminò con la torcia. Erano tutti morti? Sì, tutti morti. Li contò, forse qualcuno era fuori e si era salvato. Tornò a contarli, ventitré, più lui, ventiquattro: tutti i pichis di quel periodo erano là sotto e lui doveva essere l’unico ancora vivo. Ebbe un capogiro e riconobbe l’odore nell’aria, l’odore di pichi, l’odore umido della galleria e l’odore forte di cenere. Era stata la stufa, con le sue esalazioni, ad ammazzarli tutti e se non si sbrigava avrebbe ammazzato anche lui.

[…] Voleva uscire lentamente, per non respirare quell’aria che aveva ammazzato tutti. Una volta fuori, capì: i cavi dell’antenna degli inglesi avevano aiutato la neve a tappare il tiraggio della stufa; la cenere accumulata sotto per negligenza di Pipo – anche da quello si vedeva la fine – aveva provocato le esalazioni, le esalazioni che non potendo uscire li avevano avvelenati tutti.

Non si può pensare la scena al di là della logica materiale che la produce. Bisogna studiare questa logica, capire le sue ragioni (condotti coperti di neve, stufe che emettono gas, antenne che interferiscono con l’aerazione, inerzia del finale di una tappa): il pichi sopravvissuto sa riconoscere trame, densità di corpi, odori, e da questi segnali trae le sue conclusioni. Unica sorpresa, unico dispendio estetico: quell’arancia fresca appena sbucciata, che si può immaginare morbida e succosa come dato incongruente ma reale (verosimile secondo la verosimiglianza definita da Barthes) nel mezzo della scena funebre.

All’uscita del nascondiglio “pianse un po’”. La brevità della frase, per di più attenuata da quella che la introduce (“se ricorda bene, pianse un po’”), è tutta la soggettività che la guerra permette. Qualsiasi altro abbandono sarebbe sentimentalismo. La comunità dei pichis era una comunità pratica, dove il simbolico tendeva a spostarsi solo verso i momenti distesi dalle risate e dalle storielle banali; e la morte di una comunità pratica è, naturalmente, definitiva. La riflessione sulle condizioni non materiali di questa morte cadono quindi fuori dallo spazio della finzione del romanzo, fuori dalla portata dei suoi personaggi che vedono ciò che gli succede ma non l’origine di ciò che gli succede: subiscono gli effetti di una disposizione di idee e azioni che non conoscono. Sono abili a operare con l’immediatezza degli effetti e disinteressati in relazione alle configurazioni che non possono essere captate dalla visione e dall’esperienza.

Il romanzo di Fogwill produce questa verità della guerra delle Malvine.

[da «Punto de Vista», n. 49, Buenos Aires, agosto 1994]

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