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Come si scrive un romanzo

Akilesh Ayyar BIGSUR, Scrittura

Questo articolo è apparso su The Millions e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore e della testata.

di Akilesh Ayyar
traduzione di Francesco Graziosi

1.

Da molto tempo esiste un dibattito su un aspetto critico del processo di scrittura dei romanzi, quello che vede contrapposti gli improvvisatori ai pianificatori. I primi vanno a braccio: scrivono e vedono dove li porta la pagina. I secondi, per definizione, pianificano quel che scriveranno.

A favore di entrambe le filosofie si invocano dei precedenti e si scatenano passioni violente.

Prima di scrivere i suoi romanzi, Virginia Woolf prendeva una gran quantità di appunti, e così facevano anche Fëdor Dostoevskij e Vladimir Nabokov (che li raccoglieva in schedari). William Faulkner scarabocchiò l’abbozzo di Una favola su una parete che poi sua moglie tentò di ridipingere. Joseph Heller creò una tabella dettagliata per le corrispondenze fra le varie sottotrame di Comma 22.

James Joyce, invece, credeva che «un libro non andrebbe pianificato in anticipo, ma prende forma mentre lo si va scrivendo, sospinto da quelli che io definisco i costanti stimoli emotivi della propria personalità». Anche Mark Twain ribadiva che un libro «si scrive da sé» e che «non appena il libro tentava di scaricare sulla mia mente il compito di escogitarne le situazioni […] lo mettevo da parte […] Il motivo era molto semplice: il mio serbatoio si era esaurito; era vuoto […] la storia non poteva proseguire senza materiali; non poteva essere cavata dal nulla».  Ernest Hemingway diceva grosso modo la stessa cosa, e credeva nel semplice fatto di riversare all’esterno ciò che sta dentro, fermandosi ogni giorno prima di essersi svuotati del tutto e ricominciando il giorno dopo.

Naturalmente esistono molti altri punti lungo questo continuum. Italo Calvino partiva da un’immagine e poi la faceva espandere. «Se non sapessi il finale di una storia, non la comincerei. Scrivo sempre per prima cosa le ultime righe, l’ultimo paragrafo, l’ultima pagina, poi torno indietro e scrivo in vista di quello», racconta Katherine Anne Porter. Inoltre ogni autore giudica il proprio metodo di scrittura in maniera diversa da come lo giudicano gli altri. È probabile che la pubblicazione a puntate abbia spinto George Eliot a rendere Middlemarch più compatto di quanto sarebbe stato altrimenti; ciononostante la scrittrice considerava il romanzo più come una serie di «esperimenti di vita» che di «favole moralizzate, l’ultima parola di una filosofia che cerca di insegnare con l’esempio», come scrisse Henry James a proposito della sua opera.

La separazione esiste ed è altrettanto forte nelle scuole della narrativa commerciale o «di genere». Qui la pianificatrice per eccellenza potrebbe essere J.K. Rowling, che ha tratteggiato nei dettagli l’intera saga di Harry Potter, oppure John Grisham, che a quanto si dice abbozza le trame di tutti i suoi libri prima di scriverli. Stephen King, al contrario, trova «disonesto» decidere a priori una trama, e William Gibson ha in antipatia la scrittura pianificata, che considera troppo simile a «un compitino». Il romanziere polacco Stanislaw Lem ha paragonato il suo processo di scrittura all’atto di «immergere un filo in una soluzione zuccherina; dopo un po’ sul filo iniziano a depositarsi cristalli di zucchero e s’ingrossa sempre di più, mette su carne, per così dire», il che ricorda le parole dello scrittore fantasy Neil Gaiman a proposito dei suoi romanzi: si formano «per concrezione». La definizione di Lem ricorda anche quanto dice Stendhal nel suo penetrante saggio Dell’amore a proposito dell’idealizzazione tipica dell’amore appassionato. Se si getta un ramoscello in una miniera di sale, scrive Stendhal, ritirandolo a distanza di tempo lo si ritrova completamente incrostato di cristalli fitti e delicati. Allo stesso modo l’innamorato racchiude l’oggetto d’amore in un involucro di perfezioni immaginate (mai, però, più radicate nella realtà di quanto la forma dei cristalli lo sia nella struttura del ramoscello sottostante). Forse scrittori come Lem hanno bisogno di idealizzare la propria opera prima di scriverla.

Autori quali Raymond Chandler e George R.R. Martin sostengono che, se pianificassero, perderebbero qualunque motivazione a scrivere. Martin distingue fra «architetti» e «giardinieri». I primi pianificano rigorosamente e poi costruiscono; i secondi piantano dei semi e li innaffiano e da questo, col tempo, nasce il romanzo.

Tali distinzioni non vogliono negare il fatto che la scrittura in sé costituisce una forma di pianificazione, seppur solo a posteriori, e che i confini tra barlumi di visioni, pensieri compiuti, appunti preparatori, abbozzi preliminari e prime stesure sono sfumati. Di certo i pianificatori non programmano tutto, né potrebbero, e senza dubbio anche i più incorreggibili spontaneisti subiscono accessi involontari di pianificazione.

2.

Una distinzione che può aiutare a chiarire la faccenda è quella sullo stato mentale richiesto dal processo di scrittura. Molti improvvisatori credono che la condizione più propizia allo scrivere sia simile a un sogno a occhi aperti. Stephen King sostiene di entrare in uno stato di fantasticheria quando scrive, e Ray Bradbury ha detto più o meno la stessa cosa, avvertendo gli scrittori di lasciarsi guidare dalle emozioni e non dall’intelletto, se desiderano raggiungere quello stato («Non pensare. Il pensiero è nemico della creatività. È troppo cosciente di sé, e questo non produce mai altro che schifezze. Non puoi provare a fare le cose, devi semplicemente farle»), che per lui è fonte di intensa gioia.

Nel Fedro di Platone l’amore, la follia e la poesia sono legati fra loro, e così ne segue che l’antica profezia delfica è in pratica l’immagine dell’ispirazione divina. L’idea della follia divina che s’impossessa dei poeti e dei profeti (e includo i romanzieri in entrambe le categorie) è assai vecchia. Si dice che sia stata la divinità stessa a dipingere il sigillo dell’ispirazione sulla lingua del poeta indiano Kalidasa, facendone sgorgare le acque delle creatività. In questo caso ispirazione divina e follia si contrappongono all’intelletto razionale calmo e limpido e alla pianificazione.

Sembra dunque esistere una separazione fra il romanzo la cui genesi risiede nell’eccitazione del suo creatore, che convogliata in uno stato quasi onirico espelle quel che affiora alla mente in un processo quasi automatico, e il romanzo che trova il suo sviluppo in una decisione più volontaria e cerebrale, in cui pensiero e sentimento stanno in un rapporto più paritario, e che concepisce ciò che vuole prima di mettersi deliberatamente all’opera per tradurlo in pratica.

3.

In un certo senso, esiste una programmazione in entrambi i modelli. Nel caso dei pianificatori si tratta di una programmazione più esplicita e pensata, mentre in quello degli improvvisatori c’è una programmazione non meditata che si concretizza nella prima stesura.

E questa distinzione potrebbe anche significare che per concettualizzare la struttura di base del romanzo entrano in gioco parti diverse del cervello o della mente. Nelle interazioni sociali di ogni giorno, noi diamo un senso ai gesti e alle parole degli altri mettendoci nei loro panni e simulando quel che faremmo noi al loro posto. In genere non si tratta di un processo cosciente. Alcuni indizi suggeriscono che chi legge una storia si immedesima nei personaggi e compie la stessa identica operazione.

Può benissimo darsi che, nel raccontare storie, gli improvvisatori mettano in atto questo tipo di ricreazione immaginativa ed empatica, e ciò sarebbe esattamente il motivo per cui non sono in grado di pianificare. Per poter conoscere i contorni e la struttura della storia, devono raccontarla. Devono calarsi nella mente dei personaggi e poi simulare ciò che essi fanno. Forse è per questo che Hilary Mantel descrive la sua produzione narrativa come un’attività simile alla recitazione.

Questi scrittori operano confidando nel fatto che le loro emozioni veicolino attraverso le parole un oggetto latente che in seguito dimostrerà di possedere una sua struttura. L’atto tramite il quale l’autore costruisce dei personaggi, gli fa subire uno shock o mette un ostacolo ai loro desideri e poi si limita a seguire con l’immaginazione le loro reazioni, è il processo creativo empatico.

Tale processo è anche legato alla possibilità che, in qualche modo misterioso, i personaggi prendano il sopravvento e addirittura sorprendano il loro creatore.

Se ciò possa effettivamente accadere è una questione dibattuta. Jorge Luis Borges, che in effetti non era un romanziere, dubita si tratti d’altro che di una illusione dell’autore. Trovava assurda l’idea che dei personaggi potessero davvero scrollarsi di dosso il loro autore.

Eppure Lev Tolstoj si diceva sorpreso dalle azioni dei suoi personaggi, e particolarmente sconvolto da uno dei gesti più scellerati di Anna Karenina.

Uno scrittore portato alla fantasticheria come Stephen King considera addirittura disonesto da parte di un autore il decidere a priori una trama anziché fornire una situazione ai personaggi e seguire le loro azioni. J.R.R. Tolkien affermò di aver imparato da un pezzo a non stabilire d’autorità cos’avrebbero fatto i personaggi, e a lasciare che fossero loro a determinare le proprie azioni, mentre Bradbury ha sostenuto che la trama non è altro che le impronte dei personaggi che corrono dietro ai loro desideri.

Anche in questo caso, però, esistono degli ibridi eclatanti.

Il pianificatore William Faulkner, dopotutto, ha affermato di aver fatto proprio così in Mentre morivo: «Ho semplicemente immaginato un gruppo di persone e gli ho fatto patire le più semplici e universali catastrofi naturali, l’inondazione e l’incendio, fornendo una semplice motivazione naturale per dare una direzione al loro percorso». E si tratta di un libro riguardo al quale sosteneva di conoscere ogni singola parola prima ancora di metterne soltanto una per iscritto. Più in generale, a proposito di tutti i suoi libri, ha dichiarato che «c’è sempre un punto […] in cui sono i personaggi a prendere in mano la situazione e portare a termine la vicenda, diciamo intorno a pagina 275».

Henry James, dal canto suo, prendeva una situazione, la analizzava a fondo e ne estrapolava mentalmente le conseguenze. Per lui tutto aveva inizio da un minuscolo «seme» o «virus» che faceva espandere fino alle sue inevitabili implicazioni, strutturava in forma di romanzo e poi trascriveva. James provava un piacere tutto particolare nel rendere visibile l’intricato organismo che germogliava e sbocciava dal seme della situazione; un approccio empatico, ma pur sempre filtrato da un possente intelletto pianificatore.

4.

Spesso la pianificazione è legata al desiderio di usare la narrazione per spiegare un’idea. Ciò ha una sua logica, dato che tale desiderio richiede una certa preveggenza e un certo controllo da parte dell’intelletto.

Quasi certamente Dostoevskij stilava una gran quantità di appunti perché le sue opere dovevano illustrare concetti filosofici complessi come «l’idea positiva della bellezza» nell’Idiota o la possibilità di un agire al di fuori della morale in Delitto e castigo.

Proust ha scritto, com’è noto, di essere rimasto contentissimo quando un lettore capì che il suo libro era di fatto «un’opera dogmatica e una costruzione», cioè che era stato fabbricato in base a un programma volto a dimostrare certi principi. Contrariamente all’opinione comune, Proust non stava semplicemente tentando di riportare in vita vecchi ricordi. Stava cercando di dimostrare certe idee filosofiche, psicologiche e letterarie che hanno finito col manifestarsi nella sua opera. Proust ammirava il concetto alla base delle cattedrali gotiche, e concepiva la propria opera in maniera architettonica, o unitaria come lo sono un quadro o una grande sinfonia, e in base a questo traeva dalla memoria personaggi e situazioni. Si dichiara addirittura sprovvisto di qualsiasi immaginazione, anche se con ogni probabilità questa affermazione va presa altrettanto seriamente di quella di Montaigne, che sosteneva di avere una pessima memoria e scarse capacità affabulatorie.

Anche qui, però, sorgono delle complicazioni. Ray Bradbury accenna al fatto che, quando si mette all’opera, emerge un secondo io che s’incarica di scrivere: a compiere tutto il lavoro è la sua musa. Curiosamente in linea con questa posizione è quella fortemente difesa da Proust, secondo cui la vita vera dello scrittore non può dirci nulla d’importante sull’identità autoriale, che è accessibile soltanto nella creazione artistica. Tuttavia questo di per sé non ci dice molto sul dibattito fra improvvisazione e pianificazione, perché questo secondo io, quest’altro io, è forse proprio l’io della riflessione anziché l’io automatico e inconscio che si manifesta quando l’intelletto si sospende in una condizione di fantasticheria. D’altro canto lo stesso Proust sostiene fermamente che per un artista «l’istinto» è sovrano, e che l’intelletto, in virtù della sua stessa luce, s’inchina a riconoscere questa verità. Purtroppo Proust non definisce mai cosa sia di preciso l’istinto o come vi si acceda durante il processo di scrittura, approdando a un’idea già adombrata in maniera indipendente (e non meno convinta) da Faulkner, e cioè che in fin dei conti la scrittura non ha regole.

Forse, come ha scritto Henry James, «le considerazioni generali sono fallaci o ingannevoli, e […] nemmeno l’artista più appassionato ha da desiderare una gamma più ampia della logica del caso particolare».

© Akilesh Ayyar, 2016. Tutti i diritti riservati.

Akilesh Ayyar si occupa dell’intersezione tra letteratura, filosofia, psicologia e religione. I suoi scritti sono apparsi su Philosophy Now, non+x, Lines of Flight e altre riviste. Attualmente ha una borsa di studio al Writers’ Institute del Graduate Center della City University of New York. Vive a Brooklyn e può essere contattato all’indirizzo ayyar@akilesh.com.

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