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Nella poesia di Juan Gelman la “chiara oscurità” del ricordo

Di recente il poeta argentino Juan Gelman è stato insignito di due nuovi prestigiosi riconoscimenti: il Messico, paese dove vive da 24 anni, lo ha premiato con la Medaglia delle Belle Arti, e la Spagna gli ha assegnato il premio Leteo (già andato in passato, fra gli altri, a Fernando Arrabal, Michel Houellebecq, Amélie Nothomb, Martin Amis, Paul Auster ed Enrique Vila-Matas).

Non sono certo i primi riconoscimenti che gli sono arrivati nella sua lunga carriera: nel 2000 aveva vinto il premio di Letteratura Latinoamericana e dei Caraibi Juan Rulfo, nel 2005 il premio Pablo Neruda e il Reina Sofia, e nel 2007 il Cervantes.

Di Juan Gelman avevamo già parlato qui [1]. Oggi pubblichiamo un’intervista e un intervento critico che Marco Dotti gli ha dedicato a suo tempo sul «manifesto».

di Marco Dotti

Nato a Buenos Aires nel 1930, costretto all’esilio per i contenuti espressi nel suo lavoro giornalistico e per la sua ferma opposizione alla giunta militare che prese il potere nel 1976, Juan Gelman è sempre stato, e tuttora rimane, un testimone ostico da aggirare per chi ha cercato di fare dimenticare o di nascondere dietro il computo di mille altri drammi, i connotati specifici della dittatura argentina. «Nel nostro continente, devastato dalle dittature militari», scrive Gelman, «la poesia non è uscita indenne dai drammi che ha attraversato, drammi per dire i quali non sempre riusciva a trovare parole. E tuttavia ne è venuta fuori più nutrita, perché è nella sua natura alimentarsi di ogni movimento verso l’altro, e cerca l’odore della gente come una speranza».

Con i suoi articoli e la coraggiosa raccolta Afganistan, Irak. El Imperio empantanado (Editorial Planeta, 2003), politicamente tanto orientata quanto scorretta, lei ha dimostrato la passione che ancora la lega a un lavoro – quello del giornalista – che non sembra affatto marginale nella sua vicenda letteraria. Lei ha iniziato molto giovane come redattore di cronaca, a Buenos Aires. Tante cose sono cambiate da allora. Ritiene che sia ancora praticata, almeno negli esempi migliori, quella etica del giornalismo che lei ha conosciuto e che si può estendere, più in generale, all’etica della parola?

Fin dalla sua fondazione, avvenuta circa venti anni fa, lavoro per il quotidiano argentino «Pagina/12». Ho ricoperto diverse mansioni e, attualmente, tengo una rubrica settimanale. All’inizio i miei articoli trattavano quasi esclusivamente fatti artistici e letterari, questo almento fino all’11 settembre 2001. Poi le cose sono cambiate, non solo per me. La risposta a quell’attentato terroristico mi sembrò l’inizio di una tappa estremamente pericolosa e i fatti che ne sono seguiti non dimostrano certo il contrario: l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, i preparativi di una guerra contro l’Iran, le azioni degli Usa dirette a destabilizzare il Medioriente e l’Asia centrale, lo scontro fra Usa e Russia sempre più aspro, sono fatti che potrebbero disegnare funghi atomici nel cielo del mondo. È chiaro che i «falchi-gallina» di Washington vogliono assicurarsi il rifornimento di petrolio per almeno mezzo secolo, e non importa quanto sarà macchiato di sangue. Fortunatamente ci sono ancora giornali e giornalisti indipendenti che si adoperano a raccontare tutto questo. L’etica della parola giornalistica ha radici in ciò che un giornalista denuncia. Nella poesia, invece, l’etica deriva dall’estetica.

La caccia al «terrorista» comincia sulle televisioni e sui giornali e finisce nella vita quotidiana, creando strani cortocircuiti fra paure, fantasmi e brame di potere. Il richiamo a un nemico sovrannazionale legittima forme di guerra non convenzionale, e stati di eccezione permanente. Forse sta qui una delle caratteristiche che lega il potere post-11 settembre alle dinamiche della «globalizzazione». È per questa ragione che lei recupera il termine «impero»?

I nostri sicuramente conoscono il Progetto per il nuovo secolo statunitense, elaborato nel 2000 da una tank-force ideologicamente vicina alle tesi di Leo Strauss: siamo a molto prima dell’11 settembre. In quel testo si proclama che gli Stati Uniti devono diventare i poliziotti del mondo: non è, questa, l’espressione di una volontà imperiale? È ovvio che la Casa Bianca ha imposto uno stato di eccezione permanente, anche sul proprio territorio dove gran parte dei diritti civili e democratici sono stati rapidamente cancellati dall’11 settembre. Non credo, tuttavia, che stiamo assistendo a «uno scontro di civiltà». È che i tre quarti delle riserve di petrolio e gas naturale del pianeta si trovano in paesi arabi, islamici, africani e asiatici. E anche in Russia, che infatti non è stata esclusa dagli obiettivi di un intervento militare nel «Conplan 8022» elaborato dal Pentagono, dove è anche previsto l’uso di bombe nucleari tattiche, quelle cosiddette «pulite». Pe quanto riguarda la situazione nel Cono sud dell’America latina, si sta evolvendo favorevolmente ma in forma asimmetrica nei diversi paesi. Farò riferimento solo all’Argentina, perché è la situazione che conosco meglio. Come è noto, il governo Kirchner ha migliorato sostanzialmente la situazione relativa ai diritti umani. Ha messo fine all’impunità dei crimini commessi dalla più recente dittatura miliare, che pesava come il piombo su una società civile ferita: ha annullato quella che, secondo una pessima definizione, si chiamava la «legge del perdono»: non conosco nessuna vittima, infatti, che abbia delegato ad altri la facoltà di perdonare. Le misure economiche di questo governo – che hanno compreso anche la fine delle relazioni con il Fmi – hanno ottenuto la diminuzione degli indici di disoccupazione, del lavoro nero, della povertà e della miseria; ma l’eredità menemista in questo campo è così pesante che ci vorranno ancora lunghi anni per far cicatrizzare le ferite. E gli interessi internazionali, quelli dell’oligarchia finanziaria per esempio, continuano a esercitare pressioni.

Anche per Valer la pena il suo libro che raccoglie poesie scritte tra il 1996 e il 2000, da poco pubblicato in Italia per Guanda, vale la definizione, da lei più volte proposta, di un esercizio della poesia come «un artigianato ardente»?

Ardente, sì, grazie a tutto ciò che viene messo al lavoro per indebolire una ossessione. Cesare Pavese ha spiegato molto bene il processo poetico in cui, quando l’ossessione è a «cento», l’espressione è ferma a zero. Mentre si scrive, questi due livelli crescono o decrescono a vicenda, si alternano, talvolta si incrociano, e quando l’ossessione incontra l’espressione nascono i poemi più felici.

In una sua poesia titolata «Monstrar», si legge: «Nella memoria ho parole che non si possono dire». Si riferiscono evidentemente alla sua condizione di esiliato, e al dramma che è piombato sulla sua famiglia quando suo figlio e sua nuora sono entrati nelle fila dei desaparecidos. Lei si confronta spesso, nei suoi versi, con il lato oscuro della memoria, con quella che chiama la «chiara oscurità» del ricordo.

Senza memoria non c’è scrittura possibile. Il grande poeta messicano José Emilio Pacheco definì la poesia come «l’ombra della memoria». A volte credo che la poesia sia l’ombra di questa ombra. La vita ha mille facce, e l’immaginazione ne esplora i lineamenti per indovinare quel che vorrebbero dire.

Valer la pena è anche un libro di voci plurali. Sono molti i nomi dei poeti direttamente chiamati in causa: Celan, Hölderlin, Pound, Heaney, Cernuda. È possibile che la poesia si sottragga alla dimensione individuale del ricordo e si apra alla pluralità del lutto condiviso, di drammi che pur affiorando e poi scomparendo nei modi tipici della poesia, restano drammi comuni a tanti?

Non solo è possibile, ma accade: la prima persona di cui parlarono grandi poeti come Pablo Neruda, César Vallejo, Paul Celan è una prima persona plurale che, appunto, narra e canta il dramma e la tragedia di molti. Nella mia raccolta, che lei citava, c’è un poema titolato «Allì», che tematizza la questione del ricordo (individuale e di tutti), evocando compagni assassinati dalla dittatura militare, che continuano a vivere nella mia memoria. C’è un verso preciso, sull’orrore del dimenticare, che funziona da richiamo a chi vorrebbe lasciare queste persone indietro nella memoria. La poesia è una prova della memoria. Vive il ricordo come una presenza ossessiva.

La rabbia dell’espressione

di Marco Dotti

Più di mezzo secolo fa, Gleizer, editore in Buenos Aires, pubblicava l’opera prima di un poeta destinato a segnare profondamente la letteratura e la coscienza civile della società argentina. Con Violín y otras cuestiones, questo il titolo della plaquette, Juan Gelman si sarebbe subito distinto per l’inedita attenzione portata ai «fatti» di un linguaggio sorto ai margini della lingua ufficiale.

Osservatore attento delle inflessioni e delle deformazioni linguistiche di “porteños” e “bonaerenses”, appassionato praticante di giornalismo e politica, dissidente poetico nonché lettore delle opere di un maestro silenzioso come Raúl Gonzáles Tuñon, Gelman amava cercare l’ispirazione nella lingua colloquiale, nel tango o, fatto ancora più trasgressivo specie nel contesto post-peronista, nel lunfardo, il gergo tipico della malavita. I temi, in quella prima raccolta, mostravano una spiccata attitudine alla critica sociale, tendenza che il succedersi di tragedie pubbliche e private nella vita del poeta e un’inesausta ricerca di forme nuove renderanno più marcata, nei cinquanta anni a venire. Nell’Oración de un desocupado, che ancora appare come un blasfemo, per quanto formalmente garbato, atto d’accusa verso il padreterno, Gelman chiede rispetto, dignità e giustizia per chi vive una vita umile, nella polvere, ai margini della strada. «Ecco le mie mani rifiutate, non c’è lavoro, non ce n’è, guarda ciò che sono, questa scarpa rotta, questa angoscia, questo stomaco vuoto, questa città senza pane per i miei denti». A una preghiera senza risposta, conclude Gelman, seguirà la rabbia, più che la rassegnazione. «Padre, scendi, toccami l’anima, guardami il cuore. Cerco rassegnazione e non trovo e vado a farmi prendere dalla rabbia e ad affilarla per colpire e a urlare col sangue al collo, un animale furioso con una pietra al collo». Questa tensione etica non verrà meno neppure negli anni amari della dittatura, che per Gerlman coincideranno con la via del carcere e dell’esilio. Ne sono prova tanto i versi delle dieci composizioni poetiche tradotte da Martha Canfield per il numero 34 della rivista Testo a fronte (Marcos y Marcos, Milano, I semestre 2006), quanto le diciassette liriche che compongono I doveri dell’esilio (Interlinea, Novara 2006), antologia curata e tradotta da Laura Branchini, che prende il titolo da alcuni versi redatti a Roma, nella primavera del 1980, dopo l’espulsione da Buenos Aires. «Non dimenticare l’esilio», scrive Gelman, «combattere la lingua che combatte l’esilio, non dimenticare le ragioni dell’esilio, la dittatura militare, gli errori che commettemmo per te, contro di te, terra do cui siamo ed eri ai nostri piedi».

È indubbio che Gelman si presenti come un autore ostico, sia per la sua lingua ricca di neologismi e raffinati scarti sintattici, sia per una poetica non facilmente accostabile alla poesia politica e di impegno civile tout court. Non di meno, né l’editoria, né l’accademia italiana, si sono mostrate sempre attente nei suoi confronti,

In Francia, sembrerebbe toccargli ben altra sorte, almeno considerando la pubblicazione, nell’ottobre scorso, in un’importante collana delle edizioni di Gallimard, dell’antologia L’opération d’amour (trad. fr. Jacques Ancet, con una nota di Julio Cortázar). Come osserva acutamente Philippe Friolet, in uno studio contemporaneamente apparso per i tipi de l’Harmattan (La poétique de Juan Gelman), quella di Gelman è una scrittura dai tre volti. A quello emozionale, ben evidente nella prima raccolta Violín y otras cuestiones, si sovrapporranno, con gli anni, un aspetto commemorativo e uno ossessivo. La particolarità dello stile poetico di Gelman, avverte Friolet, è dato proprio dalla raffinata trasfigurazione formale di questi tre aspetti personali.

Nato settantasei anni fa in un quartiere di Villa Crespo, a venticinque anni Gelman diede vita a “El Pan Duro”, gruppo di poesia «a più voci libere» ma, per sua stessa ammissione, «unito da alcuni principi etici ed estetici». «Volevamo», precisa Gelman, «essere rivoluzionari nella forma e nel profondo, con la pretesa di trovarci già nella vera avanguardia, ossia nell’universo popolare». Vista a ritroso e collocata nello straordinario percorso poetico di Juan Gelman, tanto l’esperienza di “El Pan duro”, quanto la pubblicazione di Violín y otras cuestiones si presentano come un evento in un certo qual modo fondatore di gran parte della poesia argentina degli anni Sessanta e non solo. Eppure, rimane a tutt’oggi difficile comprendere il suo impatto e la sua influenza nel contesto letterario concentrandosi unicamente sulle possibilità aperte nel solo campo della ricerca poetica. Il piano della poesia, in Gelman, si sovrappone continuamente a una serie di contropiani etici, civili, politici che trovano riscontro in quella che, solitamente, ama definire «l’ossessione creatrice». Da Violín y otras cuestiones al recente Oficio ardiente, ricorrendo a citazioni e riscritture intese come tecniche di appropriazione non passiva, né invasiva della lingua dell’altro, nella sua intensa ««ricerca come volontà di forma» Gelman sembra avere affinato quel punto di equilibrio paradossale che, probabilmente, costituiva il suo obiettivo primario. Un punto in cui, sono parole sue, la poesia «oscilla» e, in tal modo, «disorganizza il caos con folle precisione». È attorno a questo punto che gravitano tanto l’oscura ossessione creativa di cui si dichiara debitore nei confronti di Pavese – non a caso studiato e tradotto dal poeta argentino – quanto la chiara visione delle cose che Francis Ponge, altra sua chiave di riferimento, definiva nei termini di un’inafferrabile, ma necessaria «rabbia dell’espressione». Ultimo “lancio di dadi” di una poesia che alla forma chiede solo ciò che essa può dare: la libertà dalla forma.