lolita

Lolita: un romanzo sul razzismo?

Jennifer Wilson BIGSUR, Scrittura, Società

Questo articolo è apparso originariamente sulla Los Angeles Review of Books, che ringraziamo.

LARBentireforweb

di Jennifer Wilson
traduzione di Annateresa Buonpensiere

Per i gusti di Vladimir Nabokov, le farfalle ad Atlanta erano troppo poche. In una lettera a sua moglie Vera (datata 11 ottobre 1942), il sagace entomologo lamentava che la città fosse troppo al di sopra del livello del mare (1000 piedi) per catturare le farfalle. Nabokov si trovava ad Atlanta per una conferenza allo Spelman, lo storico college di arti liberali per ragazze nere. Nabokov trascorse sei giorni allo Spelman, in cui, oltre a tenere una serie di lezioni sul poeta russo Aleksandr Puškin (il cui bisnonno materno era africano), subì le preghiere giornaliere e i canti religiosi del Sud (era un ateo dichiarato), e portò un gruppo di studentesse ad acchiappare farfalle nei giardini del college. Il momento culminante del suo viaggio fu il discorso di apertura «Puškin, il poeta. Puškin, l’uomo», in cui, a proposito del lignaggio africano del poeta, disse: «[Puškin] fornisce un esempio davvero straordinario dell’umanità, al suo meglio quando le razze sono libere di mescolarsi».

Nabokov visse per vent’anni negli Stati Uniti (1940-1960), ottenendo i suoi maggiori successi letterari con i romanzi Lolita, Pnin e Fuoco pallido. Anche se era nato a San Pietroburgo, si era laureato alla Cambridge University e aveva vissuto per due decenni nell’Europa continentale, finì per considerarsi uno scrittore americano; in un’intervista alla Paris Review del 1967 affermò: «Sono americano come aprile in Arizona», sebbene smise presto, per i suoi debiti nei confronti della cultura russa, di farsi «coinvolgere emotivamente dalla letteratura regionale americana, per esempio, o dalle danze indiane, o dalla torta di zucca, su un piano spirituale». Esitazioni sulla torta di zucca a parte, Nabokov divenne un critico perspicace della cultura americana, un osservatore esterno che, proprio per la sua estraneità, era particolarmente abile nella satira sul cattivo gusto della classe media americana, con il suo consumismo, i suoi status symbol e le insicurezze riguardo la propria gioventù. John Updike disse, con una definizione divenuta famosa: «Nabokov ha riscoperto la nostra mostruosità».

La maggior parte di quello che conosciamo come il «periodo americano» di Nabokov si svolse nelle bambagie isolate dei campus universitari del New England e dell’Atlantico centrale; insegnò letteratura russa al Wellesley dal 1941 al 1948 e alla Cornell University (dove fu insegnante niente meno che del giudice della Corte suprema Ruth Bader Ginsburg) dal 1948 al 1959. Nasce spontanea la domanda: possiamo davvero considerare Nabokov un importante critico culturale della vita americana, se la sua immagine del paesaggio americano copre solo un piccolo frammento delle scuole dell’alta società del New England e le frivolezze della noia della borghesia bianca? In altre parole, fino a che punto Nabokov poteva davvero «riscoprire la mostruosità» se non ne aveva mai affrontato il maggiore esempio, il razzismo? La documentazione sul viaggio di Nabokov allo Spelman aiuta a chiudere questo cerchio, rivelando non solo le opinioni dell’autore riguardo alle leggi Jim Crow sulla segregazione, ma anche la sua fascinazione per la forte natura sessuale del discorso razzista e della politica pubblica americana, alimentati dalle ansie sull’unione delle razze.

Prima di arrivare allo Spelman, Nabokov si fermò per un incarico al Coker College in Sud Carolina, dove soggiornò nella tenuta di tale signora Coker, figlia del fondatore del college. Sia la casa che le sue terre, secondo la descrizione di Nabokov in una lettera a Vera, sembravano non essere state alterate dalla guerra di secessione e dalle sue conseguenze. Nella parte occidentale della tenuta dei Coker si trovavano le piantagioni di cotone della famiglia, ancora lavorate da mezzadri neri che vivevano come ai tempi della schiavitù. Osservandoli, Nabokov scrive: «È la stagione del raccolto, e i “negri” (un’espressione che mi dà ai nervi, poiché mi ricorda alla lontana il patriarcale “Zhidok” [giudeo] dei proprietari terrieri della Russia occidentale) lavorano nei campi guadagnando un dollaro ogni cento “bushel”». Fu qui al Coker che Nabokov prese coscienza del ruolo decisivo che la segregazione aveva nella vita quotidiana del Sud, notando le assurdità derivanti dall’ossessione dei bianchi di tenere le razze divise: «La sera, chi ha figli esce di rado […] (a prescindere dalla propria ricchezza) [perché] non c’è nessuno a cui lasciare i bambini; la servitù negra non resta mai a dormire nelle case dei bianchi – non è permesso – e non possono avere servitù bianca perché i bianchi non possono lavorare con i neri».

Dopo aver lasciato il Sud Carolina, Nabokov si diresse verso lo Spelman, dove fu accolto dalla rettrice del college, Florence Reade; i due divennero buoni amici e restarono in contatto per anni dopo la sua visita ad Atlanta. Nabokov scrisse a Vera che lui e la Reade facevano colazione insieme tutti i giorni e, in tali occasioni, discutevano di temi svariati come «il problema dei negri e la telepatia». Dopo queste colazioni quotidiane, Nabokov era obbligato a partecipare alle funzioni, dove sedeva «con [la signora Reade] sull’altare, in veste accademica, di fronte a quattrocento ragazze che cantavano inni tra le esplosioni dell’organo. Ho chiesto scusa, spiegando che sono un eretico». In onore di Nabokov, fu recitata una preghiera che ringraziava «per gli artisti e i poeti; per coloro che si dilettano a creare qualcosa e lo fanno bene».

Ciò che a Nabokov piacque di più, tuttavia, fu la possibilità di tenere una conferenza sul poeta russo Aleksandr Puškin, spesso considerato il padre della letteratura russa moderna, ma ancora poco conosciuto al di fuori del mondo russofono. Nabokov scrisse a Vera: «La mia conferenza su Puškin (sangue negro!) è stata accolta con entusiasmo quasi comico». Infatti, evidenziando che Puškin rappresenta il vertice dell’umanità, «quando le razze umane sono libere di mescolarsi», Nabokov si stava schierando contro le leggi sui matrimoni misti che riflettevano le ansie radicate nei bianchi del Sud sull’unione tra razze diverse. Esprimere apertamente un’opinione simile in un consesso pubblico, frequentato non solo dalle studentesse dello Spelman, ma anche dagli studenti neri del vicino Morehouse College, fu davvero un atto di coraggio; dopotutto, i neri venivano spesso linciati se sospettati di desiderio interrazziale. Nel giornale delle allieve, The Spelman Messenger, fu pubblicato un articolo sulla visita di Nabokov. Il riferimento dell’autore all’ascendenza di sangue misto di Puškin aveva chiaramente lasciato il segno: «[Puškin] aspirò sempre a sognare e scrivere sotto il sole dell’Africa, la terra di un antenato materno il cui sangue africano era mescolato nelle sue vene al sangue della nobiltà russa».

La questione dei matrimoni misti non apparirà nell’opera di Nabokov fino a circa tredici anni dopo, con la scandalosa pubblicazione, nel 1955, di Lolita – un romanzo che Nabokov sapeva essere una «bomba a orologeria», come scrisse a un amico americano. Nel saggio «A proposito di un libro intitolato Lolita», Nabokov scrive che ci sono tre temi che gli editori americani considerano tabù: la pedofilia, l’ateismo (con le connotazioni di comunismo «senza Dio»), e «il matrimonio tra un negro e una bianca, o viceversa, che sia magnificamente riuscito e culmini in tanti figli e nipoti». A primo impatto, questa invocazione dell’isterismo americano riguardo ai matrimoni misti sembra fuori luogo. Dopotutto, Lolita riguarda l’effettiva perversione sessuale e non ciò che le distorsioni del razzismo presentano falsamente come perversione sessuale. Ma una lettura più attenta dimostra quanto il razzismo americano sia un tema centrale nella narrazione di Nabokov.

All’inizio di Lolita, Humbert Humbert scopre che la sua prima moglie, Valeria, si è trasferita dall’Europa negli Stati Uniti, dove è diventata la cavia di un esperimento etnologico. Il progetto consiste in una ricerca sulle «reazioni umane e razziali a una dieta di banane e datteri»; questo aneddoto è emblematico dell’ossessione degli Stati Uniti per la comprensione della razza attraverso la «scienza», ed è permeato di allusioni alla sperimentazione eugenetica dei nazisti. Un obiettivo dimenticato dell’occhio satirico di Nabokov, l’ossessione degli Stati Uniti per la purezza razziale e il controllo del sesso quasi esclusivamente a quel fine, è una probabile trama secondaria in Lolita.

In effetti, si potrebbe affermare che il motivo per cui Humbert Humbert riesce a non farsi scoprire quando porta Lolita da un motel all’altro è, almeno in parte, che gli uomini bianchi, anche i pedofili, non erano sorvegliati con lo stesso rigore riservato ai neri coinvolti nel reato sessuale dell’unione tra razze. Il Mann Act, che rese illegale il trasporto di donne e ragazze attraverso i confini statali a scopo di «depravazione», incombe sullo sfondo di Lolita. Humbert Humbert stesso fa riferimento al Mann Act, anche se, in pieno stile nabokoviano, il suo dissenso nei confronti della legge è di natura estetica: «Deploro il Mann Act, che si presta a un atroce gioco di parole [con man act, «atto virile», n.d.t.]». Il Mann Act era spesso applicato contro i neri che avevano relazioni consensuali con donne bianche adulte. Nel suo libro Race, Crime, and the Law, Randall Kennedy espone la tendenza a utilizzare tale legge per calmare le ansie sulla sessualità dei neri: «I fautori del Mann Act ricorrevano costantemente all’immaginario della razza per ottenere maggiore sostegno. Dicevano “donne bianche” per parlare dei beneficiari della legislazione. Mobilitavano i sostenitori anche evocando lo spettro del commercio di sesso interrazziale». Anche contro gli ebrei era utilizzato il Mann Act e, infatti, l’unica volta che le intenzioni di Humbert con Lolita vengono potenzialmente sventate è quando viene scambiato per ebreo a causa di un errore nel cognome commesso da un dipendente dell’hotel «I cacciatori incantati». All’inizio, a Humbert viene detto che non ci sono camere disponibili, ma quando spiega che il suo nome «non è Humberg […] ma Humbert», si trova all’improvviso una camera libera, la stanza in cui violenterà Lolita per la prima volta.

Quando, nella già citata intervista alla Paris Review, gli fu chiesta la sua posizione sulla politica interna (americana), Nabokov rispose, con risolutezza: «Sono un antisegregazionista». Forse l’autore, che cercò per tutta la vita di essere considerato indipendente, e non parte di un gruppo artistico o di un movimento letterario, trovava qualcosa di esteticamente ripugnante nella categorizzazione razziale. Infatti, ciò che lo affascinava di più delle farfalle era il loro potenziale metaforico di individualità; annotava meticolosamente le microscopiche variazioni delle ali che rendevano ogni farfalla unica. Nabokov era uno scrittore antipolitico. La politica, dopotutto, lo aveva privato di due patrie (la Russia e la Francia) e di suo padre, che fu assassinato a Berlino nel 1922 dai monarchici russi. L’arte e l’immaginazione erano, secondo lui, un mezzo per trascendere la tetra realtà politica. Tutto ciò rende i pochi argomenti contro cui si sia scagliato con forza e senza ambiguità – marxismo, fascismo, antisemitismo e razzismo – particolarmente salienti per ricostruire il puzzle della coscienza sociale di Nabokov.

© Jennifer Wilson, 2016. Tutti i diritti riservati.

Jennifer Wilson è una ricercatrice post-dottorato della University of Pennsylvania.

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