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Il sogno infinito di Cabrera Infante

redazione Autori, Guillermo Cabrera Infante, SUR

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Pubblichiamo oggi un ricordo dello scrittore spagnolo Juan Francisco Ferré scritto per i dieci anni dalla morte di Guillermo Cabrera Infante. L’articolo è tratto dal blog di Ferré, La vuelta al mundo.

«Il sogno infinito di Cabrera Infante»
di Juan Francisco Ferré
traduzione di Alice Lucchiaro

Il 21 febbraio del 2005 moriva a Londra Guillermo Cabrera Infante, uno dei grandi giocatori della letteratura in una qualunque delle lingue originatesi nel mondo dopo il crollo profetizzato della torre finanziaria di Babele (vittima, tra parentesi, di una delle prime crisi immobiliari della storia; «la cultura del mattone», come sanno bene i bravi storici del periodo mesopotamico, è una delle più antiche e implacabili al mondo).

Conobbi Cabrera Infante nell’ottobre del 1997, quando venne in visita a Malaga in occasione della promozione in Spagna di Cine o sardina. Ebbi l’enorme fortuna di essere seduto di fronte a lui per tutta la durata della cena successiva all’atto di presentazione del libro. Parlammo tanto di cinema, dissentendo solo in minima parte: Quentin Tarantino, passione comune, Jim Jarmusch (sul quale non aveva mai scritto e glielo dissi: «sono molte le cose che ho in arretrato», mi rispose con una certa rassegnazione) e il suo meraviglioso Dead Man, ammirato da entrambi, Kathryn Bigelow e il suo grande fiasco Strange Days, da lui detestato malgrado la precedente ammirazione per la regista, o Strade perdute, («a mess», nella sua severa opinione, non nella mia, certamente, molto più entusiasta del viaggio mentale di Lynch…). Non parlammo tanto di G. Caín, il suo alter ego critico, perché il nuovo libro, una celebrazione pop del fenomeno cinematografico, invitava ad altre considerazioni più immediate. Cabrera Infante si dimostrava un conversatore raffinato e un osservatore perspicace e ironico. Lo divertì che gli ricordassi quanto il titolo parodistico del suo nuovo libro dovesse al Sea and Sardinia di D.H. Lawrence che aveva tanto letto da giovanissimo. E ridemmo di gusto nell’inventare delle versioni alternative: una variante ballabile (Cinema o sardana) e una strumentale (Cinema o sordina). In un contesto di dominio cinefilo, apprezzò soddisfatto i miei calorosi elogi al capitolo finale di Holy Smoke, in cui Cabrera perseguiva con acutezza barocca e umorismo verbale le volute di fumo in bianco e nero di un’evanescente cronologia del vizio letterario di fumare. Dal momento che avevo di fronte a me il più cervantesco degli scrittori ispanici, sebbene non avesse ancora vinto il Cervantes, ironia della vita letteraria, ebbi il coraggio di suggerirgli che la vera rivoluzione cubana l’aveva fatta lui con il linguaggio singolare dei suoi romanzi e articoli. So che quella frase gli piacque: mi sorrise complice e non disse nulla. Era un regalo molto prezioso: il silenzio di uno scrittore esiliato che maneggiava le parole della tribù come un giocoliere e l’astuta cautela di un agente segreto dell’intelligence.

A dieci anni dalla sua morte molti non l’hanno ancora letto, inconsapevoli dell’originalità della sua opera, mentre altri sembrano averlo dimenticato, come se l’enorme contributo di Cabrera Infante alla letteratura scritta in uno spagnolo del XX secolo sia stata messa in discussione a partire da presupposti non solo (né principalmente) letterari. Ai giocatori cartesiani che si divertono a escludere autori dai loro squallidi repertori, raccomanderei come test di intelligenza letteraria, tanto per cambiare, non la facile analisi di capolavori quali Tre Tristi Tigri o L’Avana per un infante defunto, bensì gli esperimenti verbali, le procacità letterarie e le sciarade concettuali, tanto esilaranti quanto profonde, di Exorcismos de esti(l)o o, volendo chiedere l’impossibile, i sagaci saggi di anticipazione culturale presenti in O

Cabrera-Infante bibliotecaIn questo senso, è sintomatico vedere che un compagno di viaggio imprescindibile come Adam Thirlwell, nella sua splendida ricostruzione di una genealogia creativa del romanzo, tracci stravaganti curve di convergenza partendo da Rabelais e Cervantes per arrivare senza fiato a Joyce, soffermandosi tutto il tempo necessario negli incantevoli domini di Sterne o della sua versione mulatta e brasiliana (Machado de Assis), senza tener conto della scandalosa assenza del noto scrittore dai lineamenti indios da fauno tropicale (o tratti orientali da mandarino erudito ed erotomane), comprovata origine cubana e passaporto britannico in regola con le pagine della sua eterodossa tassonomia mondiale di tipi romanzeschi. I canoni kunderiani hanno solitamente quell’unico difetto intellettuale: non sono mai completi (e complessi) come dovrebbero. Rimedio ora a quell’enorme errore del brillante collega inglese e rendo omaggio al maestro plagiando la sua inimitabile lingua per evocare il suo irripetibile spirito da giocatore accanito:

Capii che la sua fine si stava avvicinando dai suoi sogni incontenibili: sognava che il cinema sarebbe stato un giardino delle delizie (il cinema avrebbe soppiantato non solo il teatro o l’opera ma anche il romanzo, il racconto, la poesia: nel futuro sarebbero rimasti solo l’architettura, fusa con il design astratto e con la possibilità della scultura, per creare oggetti belli e confortevoli, e il cinema, che sarebbe stato nel contempo arte, storia e spettacolo); sognava una vita libera, allegra, fiduciosa che le parole polizia, esercito, guerra, razza, sesso, famiglia e, soprattutto, morte, sarebbero state abolite per sempre dal vocabolario della vita; sognava un futuro in cui il lavoro non sarebbe stato una schiavitù imposta e la vita avrebbe smesso di essere uno schema di pregiudizi e l’uomo e la donna avrebbero cessato di vivere tra la paura e la speranza; sogni e ancora sogni: Cabrera Infante era fatto della stessa sostanza dei sogni. A volte faceva degli incubi e il finale si poteva toccare con mano: la bomba atomica esplodeva in un fungo letale e la vita finiva tra il fumo e il frastuono. Questo sognatore di apocalissi, verso la fine dei suoi giorni, e per poter dormire, apriva il settimo sigillo di Seconal ogni notte.

Post scriptum: i buoni lettori di GCI sapranno riconoscere l’origine della citazione e il chiaro (o scuro, secondo il gusto di ciascuno) senso di questo omaggio postumo.

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