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Il romanzo esiste ancora: intervista a Don DeLillo

In attesa che il nuovo libro di Don DeLillo, Zero K, arrivi anche in Italia, pubblichiamo un’intervista di Mark O’Connell, originariamente apparsa su The Millions [1]. Ringraziamo l’autore per averci permesso di tradurre il testo.

di Mark O’Connell
traduzione di Fiorella Moscatello e Fabio Zantomio

Come molti sapranno, è raro che Don DeLillo conceda interviste. Fa una certa quantità di promozione, anche se viene da sospettare che calcoli il minimo indispensabile che gli permetta di restare in buoni rapporti con l’editore. Non si è mai avvicinato al livello di reclusione di Pynchon, ma ha evitato di diventare qualcosa di anche lontanamente simile a un Autore Pubblico; pur essendo da molti punti di vista uno scrittore profondamente politico – e in ogni caso uno dei più importanti romanzieri viventi di lingua inglese – non è uno che ci rifila le sue opinioni in continuazione (vale a dire non è, ad esempio, Martin Amis, Joyce Carol Oates o Jonathan Franzen).

Forse non mi sarebbe nemmeno passato per la testa di cercare di ottenere un’intervista con DeLillo se sull’argomento del suo nuovo romanzo –  il desiderio di raggiungere l’immortalità fisica attraverso la tecnologia – non avessi passato buona parte degli ultimi due anni a fare ricerca e scrivere per un mio libro. Zero K è la storia inquietante – allo stesso tempo limpida e opaca, nello stile dei suoi lavori più recenti – di un milionario non più giovane di nome Ross Lockhart, che stabilisce, sotto gli auspici di una quasi-setta tecno-utopistica chiamata La Convergenza, di farsi sospendere crionicamente insieme alla giovane moglie malata terminale, nella speranza che gli scienziati del futuro li resuscitino entrambi e consentano loro di vivere per sempre. In un certo senso, sembra un argomento strano per DeLillo, roba da fantascienza generica; ma vale la pena tenere a mente che la tecnologia e il terrore della morte sono argomenti che convergono nella sua opera da molti anni. «Questa è la ragione d’essere della tecnologia», dice un personaggio in Rumore bianco, del 1985. «Da una parte produce fame di immortalità. Dall’altra minaccia l’estinzione universale. La tecnologia è la lussuria estrapolata dalla natura».

Il semplice fatto che questa intervista abbia avuto luogo mi sorprende alquanto. Immagino che la parola più adatta in questo caso sarebbe «concessa». Non abbiamo parlato a lungo – ci stavamo appena avvicinando all’argomento del filmato di Zapruder quando abbiamo esaurito il tempo a disposizione (anche se possiamo affermare con discreta certezza che con Don DeLillo si potrebbe parlare del filmato di Zapruder per il resto della propria vita naturale, non crionicamente prolungata, e ci si starebbe sempre solo avvicinando all’argomento). Gli ho telefonato nella sua stanza d’hotel a Washington («tra tutti i luoghi possibili», questo è stato il suo enigmatico commento). Più o meno per i primi cinque minuti della nostra conversazione ho fatto fatica a concentrarmi su quello che stavamo dicendo, circostanza dovuta al fatto che non riuscivo davvero ad accettare il fatto di star parlando con l’uomo che ha scritto Libra, Underworld, Rumore bianco, e Dio sa quante delle frasi più belle che ho letto in vita mia.

Il mio registratore, per fortuna, ha avuto i mezzi per documentare ciò che abbiamo detto. Pare che sia andata come segue.

The Millions: Poco più di un anno fa, ho visitato un posto di nome Alcor, un istituto di crionica in Arizona, per un libro che stavo scrivendo su quei futuristi che vogliono vivere a tempo indeterminato. E una delle cose che continuavo a chiedermi era «Cosa tirerebbe fuori DeLillo da questa roba?» È stato molto strano vedere questa domanda trovare una risposta così diretta in Zero K. Mi chiedo fino a che punto si è spinta la sua ricerca per il romanzo, quanto è andato in profondità nell’ampia area della crionica.

Don DeLillo: Interessante, conosco quel posto in Arizona. So che c’è, ma per il resto ne so molto poco. Ho limitato la mia ricerca per questo romanzo, semplicemente perché ce ne sarebbe stata una quantità infinita da fare, e io volevo cominciare a lavorarci. È un’opera di finzione, così quando ho cominciato a lavorare, ho cominciato a immaginare. Forse lei è in una buona posizione per dire quanto è accurato il risultato. Forse è in una posizione migliore della mia.

TM: Penso che il libro rifletta in modo misterioso e obliquo la cultura dell’ottimismo radicale che emana dalla Silicon Valley. Mi piacerebbe sapere quanto è consapevole di quella cultura, e quanto ha influito sul libro.

DD: Non ne so granché. Di certo so che esiste e che fa parte di questa grande area della crionica di cui sto scrivendo. Ma ho deciso di non andare troppo a fondo lungo quella strada. Persino Ross Lockhart, il padre del narratore, è ovviamente interessato a diventare anche lui un uomo in una capsula. Ma che io sappia non esprime nessun particolare ottimismo. Sì, pensa che funzionerà, ma credo che sia un individuo abbastanza realista. Quello che vuole fare è accompagnare sua moglie. Il suo è un sentimento genuino.

TM: Questo aspetto del romanzo mi ha riportato a Rumore bianco, in particolare, dove la relazione tra Jack e Babette è caratterizzata da quest’ansia su chi morirà per primo.

DD: È buffo, ho un ricordo molto vago di Rumore bianco. Non ho mai avuto motivo di rileggerlo. È stato, che so, trent’anni fa. Non so granché di quello che succede nel libro. Di recente ho anche avuto qualche difficoltà cercando di ricordare il nome del protagonista. Capisco quello che dice, certo. Ma è una pura coincidenza, il collegamento tra quei due libri.

TM: Quindi è strano per lei, ripensando ai libri che ha scritto, vedere i collegamenti che fanno le altre persone?

DD: Sì, è una strana sensazione. Ultimamente ho ripensato, non so bene perché, ai miei primi romanzi, e sono sorpreso da quanto poco ricordo di loro. Non so se sia una cosa liberatoria o preoccupante. Anche I nomi, che è ambientato in Grecia. Una buona parte del romanzo, almeno quella che riguarda il viaggio, veniva dalla mia esperienza personale. Ma anche quello lo sento come molto lontano ormai. E Punto omega, il mio penultimo romanzo – certo, so cosa succede nel libro. Ma non potrei farci sopra una discussione seria, non credo. Non a questo punto.

TM: Una delle cose che mi ha colpito di Zero K, e credo di tutte le sue opere recenti, è fino a che punto sembra impregnato del tessuto della cultura contemporanea, la tecnologia in particolare. Verso la fine del libro c’è un passaggio molto inquietante, in cui una dei capi della Convergenza parla dei «congegni che usi, quelli che ti porti ovunque, di stanza in stanza, di minuto in minuto, ineluttabilmente». Parla di «tutti i dati collegati fra loro progettati per incorporarti nei megadati». Arriva dritto a questa sensazione di essere «disincarnati» che deriva dallo stare sempre online, come ormai capita a molti di noi. Ma la mia impressione è che lei non sia affatto sempre online. Scrive a macchina. Mi interessa sapere come assorbe questo tessuto di ansia tecnologica.

DD: Sì, è vero. Ho un iPad che uso per fare ricerche, ma in effetti non sono mai online. Non ho un cellulare. Ne parlavo proprio con le persone con cui sono venuto qui, gente che lavora per i miei editori. Sono semplicemente più a mio agio senza queste cose. Ma si sentono e si vedono. Oggi mi hanno circondato per quasi tutto il giorno, perché le persone con cui viaggio, anzi una in particolare, ha problemi con il cellulare. Non le funziona bene. Qualcuno prova a mettersi in contatto con lei ma lei non sa chi sia, cosa voglia dirle. È una sciocchezza, sì, ma la preoccupa e la esaspera. Ed è infelice.

TM: In che modo, secondo lei, la forma del romanzo si adatta a questa cultura tecnologica di cui scrive in Zero K? In che modo la asseconda o la critica?

DD: Il romanzo esiste ancora. E a mio avviso possiamo continuare a ritenerlo un genere fiorente. Ci sono moltissimi bravi giovani scrittori. Le persone sono evidentemente attratte dalla forma – chi vuole scrivere è attratto dal romanzo. È la forma più malleabile, quantomeno nell’ambito della narrativa, oltre che la più stimolante. Rincuora vedere così tanti bravi giovani scrittori. Non mi faccia fare nomi. Ma conosco le opere di alcuni, e conosco l’opinione di persone che stimo che leggono più di me. Perciò non sono affatto preoccupato per il genere in sé.

TM: Cerca di tenersi aggiornato sugli scrittori più giovani, su quello che c’è in giro adesso, oppure andando avanti con l’età le capita di passare più tempo a rileggere cose vecchie?

DD: No, sono in contatto con gli scrittori più giovani. Leggo le loro cose, quando posso. In linea di massima non leggo più come un tempo. Ma non sono nemmeno tornato al passato. I miei scaffali sono pieni di libri per cui ho un grandissimo rispetto, ma li rileggo raramente, per non dire mai. Suppongo sia un altro sintomo della vecchiaia. E a proposito di questo, ci ho messo quasi quattro anni a scrivere l’ultimo romanzo. In fondo è un libro di media lunghezza, e la cosa mi sorprende alquanto, ma questo voleva il libro, e io mi sono solo fatto guidare.

TM: Si sente in qualche modo sollevato, come scrittore, all’idea di invecchiare?

DD: Credo che essere attivi come scrittori di narrativa proietti in un certo senso verso il futuro. Spero di avere abbastanza tempo in questi giorni per cominciare a lavorare a un racconto. Non vedo l’ora di farlo. Ultimamente ho avuto qualche problema, ma ce la farò.

TM: Il nuovo romanzo, come Punto omega in precedenza, è pervaso da una sorta di atmosfera escatologica. La frase iniziale è «Tutti vogliono possedere la fine del mondo». Nel libro, e nel suo lavoro in generale, sembra di vedere il capitalismo risolversi in un finale apocalittico. La possibilità di una catastrofe futura – come la questione del cambiamento climatico – è qualcosa che le mette ansia andando avanti con gli anni?

DD: Non parlerei di ansia. Direi piuttosto che noto un grado di preoccupazione che prima non c’era. Per moltissimo tempo è stata la guerra nucleare a impensierire la gente, a un certo livello di consapevolezza. Poi a un tratto non se n’è più parlato, ma in realtà sono preoccupazioni che in un modo o nell’altro tendono a ripresentarsi. Incidenti nucleari, o guerre senza quartiere tra due o più stati. La preoccupazione c’è sicuramente, e a volte è quasi palpabile. Soprattutto quando si vedono filmati o fotografie di alcune zone del pianeta, dove sono in atto enormi cambiamenti.

TM: Sono tratti comuni a tutte le sue opere, queste immagini filmate di catastrofe e violenza. In Zero K ricorrono in modo abbastanza mirato nei frequenti intermezzi in cui il protagonista Jeff, nell’istituto di crionica, guarda filmati di atroci azioni terroristiche, auto-immolazioni, disastri naturali e così via. Come giustifica la presenza costante nelle sue opere di disastri filmati, violenza filmata?

DD: Nella mia scrittura c’è sempre stata una componente cinematografica. E penso che a un certo punto si sia unita alla violenza o a un qualche tipo di distruzione, alla distruzione ambientale. Mi chiedo se non sia cominciato tutto con Libra, in cui scrivevo dell’assassinio del presidente Kennedy. È stata quella l’azione di violenza ripresa – il filmato di Zapruder – che mi ha fatto imboccare quella particolare corsia di consapevolezza? Non ci sono risposte certe, non credo. Credo che in Mao II ci siano conversazioni riguardanti il terrorismo, e anche altrove. È capitato solo perché fa parte della nostra cultura. Io e mia moglie abbiamo vissuto ad Atene per circa tre anni, ed era ovunque. Dirottamenti di aerei. Gente che scappava da certi paesi, molti che si trasferivano ad Atene. E anche in altri posti. Interi governi caduti. La rivoluzione in Iran. Questo mi ha influenzato, perché era palpabile. Era proprio lì. E da allora ha influenzato il mio lavoro.

TM: Visto che ha menzionato Libra e l’assassinio di Kennedy, potrei aggiungere che leggere Zero K e riflettere su di lei e le sue opere per quest’intervista, mi ha portato a vedere il filmato di Zapruder [2] su YouTube. È stato inevitabile, in un certo senso. E mi ha colpito che quel filmato all’epoca, e quando stava scrivendo Libra, fosse una specie di testo segreto. La gente sapeva della sua esistenza ma non poteva guardarselo comodamente. Adesso invece lo si può guardare in cento modi diversi, sul cellulare, sul portatile. Ti sorbisci lo spot di un’assicurazione sulla vita o quello che è, e poi ti guardi JFK che si becca un proiettile in testa tutte le volte che vuoi.

DD: Sì, è vero. Anche se posso dirle che mentre scrivevo Libra sono riuscito a mettermi in contatto con un tipo del Québec che diffondeva questo tipo di materiale, lo teneva in garage. Mi ha mandato il filmato di Zapruder, e anche altri. Perciò l’ho avuto prima che fosse legale guardarlo. E che ci creda o no, stamattina mi hanno detto che Alexandra, la figlia di Zapruder, sta finendo di scrivere un libro che parla proprio del filmato. È ancora nell’aria insomma.

TM: Ho come la netta sensazione che le chiederanno di scriverle il soffietto editoriale.

DD: Sì. Non ho dubbi al riguardo.

[Risata stanca. Sfumare di voci. Uscita di DeLillo.]

© Mark O’Connell, 2016. Tutti i diritti riservati.