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Arlt, il barbaro / 1

In attesa di Una domenica pomeriggio, il prossimo littleSUR dedicato a Roberto Arlt, pubblichiamo oggi la prima parte di una lunga prefazione di Abelardo Castillo alle Acqueforti di Buenos Aires, che ripercorre l’intera opera dell’autore.

«Arlt, il barbaro» / 1
di Abelardo Castillo
traduzione di Elisa Montanelli

Se mai uno scrittore rioplatense si è avvicinato a quello che definiamo genio, scrisse più o meno Juan Carlos Onetti, questo scrittore è Roberto Arlt.

Su questo punto sembrerebbero tutti piuttosto d’accordo. Fatta eccezione per Sarmiento, non c’è un altro scrittore argentino – nemmeno José Hernández, nemmeno Borges – a cui questa ambigua parola (genio), significhi quello che significhi, si addica meglio. L’incomprensione dei suoi contemporanei, l’aggressiva amoralità della sua opera, il disprezzo di Arlt per quasi tutto ciò che non fosse lui stesso, e la sua morte prematura, hanno nel tempo costruito questa immagine un po’ enfatica: il barbaro disgraziato e geniale. C’è da dire anche che se Arlt si fosse sparato un colpo o se fosse stato almeno un drogato o un alcolizzato, l’appellativo di genio glielo si sarebbe applicato senza cautela o dosaggio alcuno. Questa caratterizzazione emotiva – che, devo dirlo, intimamente condivido poiché ho il forte sospetto che Arlt fosse, in effetti, un uomo di genio – ha nonostante tutto un inconveniente: ci sbarazza dello scrittore Roberto Arlt. Lo rimuove dall’universo della letteratura e lo colloca in quella specie di cielo o di Aldilà allegorico abitato dai poeti folli, dai malati illuminati, dai figli irresponsabili dell’arte. Roberto Arlt non è più un romanziere, un drammaturgo, un uomo di idee, ma diventa un caso clinico o un enigma letterario.

L’affermazione – per non dire quasi l’accusa – della genialità di Arlt passa per altre due affermazioni che sembrano in conflitto ma che portano tuttavia allo stesso risultato: Arlt scriveva male, Arlt era poco meno di un analfabeta. Con questi ulteriori due luoghi comuni il quadro è quasi completo. Arlt diventa una specie di Pitonessa, un incrocio fra il doganiere Rousseau e il Marchese de Sade, che sputava sui portieri o piangeva davanti a una rosa appassita in un vaso, e che, medianicamente, non poteva far altro che scrivere I sette pazzi. Risultato: a cinquant’anni dalla sua morte, ancora ignoriamo chi fosse.

Che io sappia, nessuno si è preso la briga di annotare criticamente la sua opera o di scrivere la sua biografia dettagliata.[1]

Ovviamente questa non è la sede adatta per intraprendere una simile ricostruzione, e non so nemmeno se sarei capace di portarla a termine. Ho scritto qualche pagina su Arlt, mi sono limitato, come tutti, a evidenziare che umanamente parlando era un uomo disperato e incomprensibile – o come direbbe Onetti: «Non so se era un essere angelico, un figlio di puttana o un commediante, forse era tutte e tre le cose» – e, come tutti, mi sono limitato a evidenziare che il fenomeno Arlt mi trascendeva. Onetti, in un suo saggio, non può fare a meno di sentire che Arlt lo stesse guardando con sarcasmo e disprezzo. Julio Cortázar, nel suo biasimevole prologo alle Opere Complete, lo paragona a un «Goya di periferia» o a un «François Villon da bordello», e scrive: «Arlt mi avrebbe spaccato la testa se avesse letto una cosa simile». È un dato di fatto: questo barbaro intimidisce.[2]

E allora. Che ce ne facciamo di un genio quasi analfabeta che scriveva male ma che tirava fuori romanzi come I sette pazzi, racconti come Il gobbetto, Le belve, Notte terribile o L’abito del fantasma, opere teatrali come El desierto entra en la ciudad, Saverio el cruel, La isla desierta. O ammettiamo che è una sorta di Maometto delle nostre lettere (è risaputo che Maometto non avesse mai imparato a leggere, cosa che non gli impedì di dettare il Corano) o ci decidiamo una volta per tutte a esaminare più da vicino nozioni come “cultura” e “stile” quando si parla di Arlt.

L’accusa di scrivere male non dovrebbe turbare quasi nessuno. Furono i suoi contemporanei a segnalarne la goffaggine stilistica, la quasi brutalità, la sconvenienza, ma si sa che lo stesso avevano fatto con Cervantes o Dostoevskij i contemporanei di Cervantes e Dostoevskij. Il problema non è questo. Il problema sorge quando rileggiamo oggi, con i nostri codici e le nostre consuetudini formali, libri come Il giocattolo rabbioso, certe pagine de I sette pazzi e I lanciafiamme. È vero: qualcosa non funziona in molti testi di Arlt. Parole come morcona, doncella, menestrala; espressioni esotiche del tipo «sudicio come una mulattiera» – applicati a un contesto come Buenos Aires, che non si è mai caratterizzato granché per abbondanza di muli – ; descrizioni di tipo geometrico in cui una sottoveste o un raggio di sole possono essere bisettrici di qualcosa, ci mettono a disagio. Ma se vogliamo davvero capire che cosa significa scrivere bene, pur scrivendo male, leggiamo la letteratura di quell’epoca. Pensiamo alla prosa impossibile di libri come Nacha regules, a quei monoblocchi di aggettivazione e follia che sono tutte le pagine di La guerra gaucha, ad argomenti come quelli di La gloria de don Ramiro – solo per citare esempi lampanti.

Collocata in questo contesto verbale, la prosa di Arlt si attiene semplicemente alla norma di ciò che si intendeva in quegli anni per letteratura. Il peggior difetto di Arlt è lo stesso di quello degli scrittori della sua epoca, compreso l’indiscusso maestro di tutti, Lugones. Arlt cercava di scrivere come gli spagnoli, scivolava inconsapevole al tu, al te[3], evitava di ripetere verbi anche se questo lo portava a scrivere parole come «elucubrò», per dire che Erdosain pensò. Voleva dimostrare, in pratica, di fare quello che più di tutto diceva di odiare: stile. È stato fatto l’inventario delle parole usate da alcuni grandi scrittori argentini: non furono né Lugones né Sarmiento, né Marechal né Güiraldes né il suntuoso e barocco e talvolta delirante Martínez Estrada di Radiografia de la Pampa, è stato Arlt lo scrittore a utilizzare più parole differenti nella sua opera, è stato – ma nel nostro paese questa costatazione non presuppone nessun elogio – lo scrittore con il vocabolario più vasto. In altre parole, il difetto di Arlt era un eccesso di ciò che affliggeva quasi tutti gli scrittori argentini del suo tempo, e se oggi lo notiamo è perché lui è quasi l’unico che continuiamo a leggere. La stravaganza della sua scrittura non può più intendersi in termini di stilistica, ma in termini un po’ più essenziali.

Ci sono molti modi di dimostrare l’eccellenza di un’opera: la più semplice e educata è quella di ricercare i suoi influssi in chi è venuto dopo. Nel teatro inglese contemporaneo, anche e soprattutto nel cosiddetto teatro dell’assurdo, risuona ancora la parola di Shakespeare; Kropotkin e Dostoevskij si accorsero che la letteratura russa anelava sempre a ripetere un archetipo, Il cappotto di Gogol’; in Argentina, da cinquant’anni, non esiste quasi scrittore che non debba qualcosa ad Arlt. Onetti, Cortázar, Sábato, il Marechal di El banquete de Severo Arcángelo, tutta la mia generazione – con risultati biasimevoli, a volte – sono andati a parare quasi inevitabilmente ad Arlt. Anche Borges. Qualche critico ha già denunciato con poliziesca veemenza ciò che Borges stesso ammise con serena naturalezza: il racconto “L’indegno” di Il manoscritto di Brodie, è sostanzialmente la riscrittura di uno dei temi de Il giocattolo rabbioso, un omaggio ad Arlt. Oggi Arlt continua ad essere letto con fervore ed è nostro contemporaneo; libri come La guerra gaucha, El mal metafísico o Zogoibi, sono pezzi da museo. Arlt scriveva male – quando scriveva male – perché si era lucidamente proposto di scrivere bene. E quando scriveva bene davvero, ciò che oggi intendiamo per scrivere bene, fondò, con Borges e Marechal, un modello di prosa argentina che costituisce l’origine della migliore narrativa dei nostri giorni.

[1] Questo articolo è stato scritto prima dell’apparizione di El escritor en el bosque de ladrillos (Buenos Aires, 2000), l’eccellente libro di Sylvia Saítta. Fino ad allora esisteva soltanto Arlt, el torturado, scritto da Raúl Larra intorno al 1950. Per quanto riguarda le edizioni “complete”, continuano a essere frammentarie e addirittura assurde. In una di queste, il romanzo L’amore stregone figura nella sezione “Saggi”.

[2] Il prologo di Julio Cortázar è una di quelle pagine che uno scrittore non dovrebbe mai scrivere su un altro. Per essere esatti, diciamo che questo prologo non solo è al di sotto di Arlt – che aveva letto molto male e che comprende a malapena – ma anche molto al di sotto dello stesso Cortázar.

[3] Si riferisce all’alternanza fra vos, seconda persona singolare del castigliano argentino, e il dello spagnolo peninsulare [N.d.T]