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Dicono, di me, che scrivo male

RobertoArlt_ILanciafiamme_edizioniSUR [1]I lanciafiamme [2] di Roberto Arlt è finalmente tornato in libreria. Pubblichiamo oggi le parole introduttive dell’autore al romanzo, leggendarie quanto il dittico che forma con I sette pazzi [3].
La traduzione è di Luigi Pelissari. Buona lettura!

Con I lanciafiamme giunge alla fine la vicenda dei Sette pazzi.
 Sono contento di aver avuto la forza di volontà di lavorare, in condizioni abbastanza sfavorevoli, fino a portare a termine un’opera che esigeva solitudine e raccoglimento. Ho scritto sempre in redazioni di giornali, rumorosissime, sempre perseguitato dall’obbligo di consegnare la mia rubrica quotidiana.

Questo lo dico come stimolo per la vocazione dei principianti che hanno sempre un grande interesse per il procedimento tecnico del romanziere. Quando si ha qualcosa da dire, si scrive dovunque. Su un rotolo di carta o in una stanza infernale. Dio, oppure il diavolo, ti sono vicini e ti dettano parole inesprimibili.

Affermo con orgoglio che scrivere, per me, rappresenta un lusso. Non ho a disposizione, come altri scrittori, rendite, tempo o comodissimi impieghi statali. Guadagnarsi il pane scrivendo è penoso e faticoso. Soprattutto quando, mentre uno lavora, gli viene in mente che esiste gente stressata dall’ansia di cercarsi distrazioni.

Passando ad altro: dicono, di me, che scrivo male. Può darsi. Ad ogni modo non avrei nessuna difficoltà a citare un sacco di persone che scrive bene e le cui opere vengono lette esclusivamente da correttissimi membri della loro famiglia.

Per mettersi a lavorare di fino c’è bisogno di comodità, di vitalizi, di dolci ozi. Ma, in genere, la gente che gode di questi vantaggi fa sempre in modo d’evitarsi i fastidi della letteratura. Oppure li affronta come ottimo sistema per spiccare nei salotti della buona società.

Vengo attratto, con ardore, dalla bellezza. Quante volte ho desiderato scrivere un romanzo che, come quelli di Flaubert, fosse fatto di affreschi panoramici…! Ma, oggigiorno, in mezzo al rumore di un edificio sociale che si sgretola senza scampo, non si può pensare ai ricami. Il bello stile richiede tempo e, se stessi ad ascoltare i consigli dei miei compagni, mi succederebbe quello che accade ad alcuni di loro: scriverei un libro ogni dieci anni per pigliarmi, dopo, una vacanza di dieci anni per averci messo dieci anni a scrivere un centinaio di pagine discrete e sensate.

Altra gente, invece, si scandalizza per la brutalità con la quale descrivo certe situazioni perfettamente naturali nei rapporti fra i due sessi. Dopodiché, questi stessi pilastri della buona società mi hanno parlato con gli occhi perduti nel vuoto di James Joyce. Quello sguardo derivava dal diletto spirituale che gli procurava un certo personaggio dell’Ulisse, un signore che fa la prima colazione, in modo più o meno aromatico, annusando, in un gabinetto, la puzza dei propri escrementi, da lui defecati un minuto prima.

Ma James Joyce è inglese, James Joyce non è stato tradotto in castigliano e riempirsi la bocca parlando di lui è elegante. Il giorno in cui James Joyce sarà a portata di tutte le tasche, i pilastri della buona società s’affretteranno a inventare un nuovo idolo che possa venir letto solo da una mezza dozzina d’iniziati.

Davvero, non si sa proprio cosa pensare della gente. Se sono idioti sul serio, oppure se prendono tanto a cuore la rozza commedia che recitano a tutte le ore del giorno e della notte.

Ad ogni modo, come primo provvedimento ho preso quello di non mandare nessuna mia opera alle pagine di critica letteraria dei giornali. A quale scopo? Perché un signore enfatico, fra il disturbo di due telefonate, scriva, per far contente le brave persone: «Il signor Roberto Arlt non desiste da un realismo di pessimo gusto, ecc… ecc…»

No, no e no.

Quel periodo è passato. Il futuro è nostro, grazie alla forza schiacciante del lavoro. Creeremo la nostra letteratura, non restandocene a chiacchierare continuamente di letteratura, bensì scrivendo, in orgogliosa solitudine, libri che racchiudono la violenza di un gancio alla mandibola. Sì, un libro dopo l’altro, e «che gli eunuchi sbuffino pure».

L’avvenire è nostro, trionfalmente.

Ce lo siamo guadagnato con sudore d’inchiostro e stridore di denti, davanti alla Underwood su cui battiamo con mani stanche, un’ora dopo l’altra, un’ora dopo l’altra. A volte ci cadeva giù la testa per la stanchezza, ma… mentre scrivo queste righe penso al mio prossimo romanzo. Avrà come titolo L’amore stregone e uscirà nell’agosto del 1932.

E che parli il futuro.