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L’umorismo è una delle cose più serie del mondo

Julio Cortázar Autori, Julio Cortázar, Società, SUR

Pubblichiamo oggi l’estratto di un discorso di Julio Cortázar tenuto nell’ambito della conferenza «El intelectual y la política», svoltasi presso la Città Universitaria di Parigi nel 1970. Il discorso fu poi pubblicato sulla rivista letteraria El escarabajo de Oro.

di Julio Cortázar
traduzione di Elisa Montanelli

L’intellettuale e la politica: abbiamo la pretesa di definire questo tema con due parole piene di equivoci, che ognuno di noi userà con un significato differente per qualcosa che la maggior parte delle volte non sarà altro che un dialogo fra sordi. So che è terribile, e non dispongo di un’altra formula più dinamica e rivoluzionaria per questo dibattito. Ma almeno cerchiamo di lavorare nel modo più aperto possibile, senza che la serietà assuma quell’aria trascendentale che di solito caratterizza questo tipo di confronti. Ho sempre pensato e detto che in America Latina c’è una carenza d’umorismo, e che l’umorismo è una delle cose più serie del mondo se si è capaci di utilizzarlo senza barare. So benissimo che qui, intorno a noi, ci sono le foto e i documenti di un sacco di cose orrende che sono accadute e stanno accedendo proprio adesso in molti dei nostri paesi. Stasera non vi propongo un atteggiamento frivolo. Vorrei soltanto che rompessimo il più possibile le croste concettuali, i preconcetti (premesso che nell’ambito rivoluzionario ce ne sono, eccome).

La parola “intellettuale”, per esempio. Io, qui, le do pienamente il significato di “creatore”, senza tuttavia introdurre in questa nozione nessuna sfumatura di messianismo romantico. Diciamo che per intellettuale intendo uno specialista di prodotti culturali – libri, film, quadri, oggetti, musica – e mi limiterò soprattutto all’intellettuale scrittore, che conosco più da vicino. Ed ecco che questo intellettuale (la storia lo dimostra niente meno che con Platone in testa) si è sempre ritrovato in situazioni equivoche, sia rispetto ai movimenti rivoluzionari che alle rivoluzioni già compiute. Questa situazione dell’intellettuale, particolarmente critica in America Latina, mi porta a dire quanto segue.

Dunque, abbiamo quest’uomo la cui vocazione e la cui forza lo spingono a creare prodotti culturali. Davanti a lui ci sono, diciamo, i consumatori. Dal punto di vista politico, i consumatori che ci interessano sono allo stesso tempo compagni e lettori. E qui comincia il problema perché in America Latina, e sicuramente in ambienti progressisti e rivoluzionari, non ci si limita a leggere soltanto l’opera del creatore, ma arriva anche il giorno in cui a quest’uomo si chiederà dell’altro, ci si aspetterà da lui un altro genere di “impegno”.  La gamma di queste richieste è molto ampia: ci sono quelli che chiedono direttamente il passaggio all’azione rivoluzionaria, quasi come una cauzione per la loro opera passata e futura; ma senza andare troppo lontano, quello che in genere gli viene richiesto è la cosiddetta “opera rivoluzionaria”.

E qui bisogna fare una pausa. Perché l’esperienza dimostra che, nella maggior parte dei casi, “l’opera rivoluzionaria” che si richiede al creatore è più uno strumento di esaltazione o di educazione che un’opera creatrice recante nuove esperienze letterarie, molte volte oscure, difficili e inquietanti.

È ovvio che, salvo in certi settori o livelli troppo mentalmente burocratizzati, nessuno chiede al creatore di lanciarsi in una specie di didattica rivoluzionaria; ma – e qui alludo a recenti scambi di punti di vista fra critici e scrittori latinoamericani – è evidente che esiste una tendenza ad aspettarsi, quando non direttamente a pretendere, una tematica rivoluzionaria o comunque molto prossima al contesto sociopolitico, e addirittura un linguaggio letterario che non oltrepassi la soglia di comprensione del lettore medio.

In sintesi: qualsiasi opera “difficile” per il suo carattere avanguardista, sperimentale (e quale opera davvero creativa non lo è?) non tarda a essere giudicata sulla base di alcuni criteri che rispondono alla mentalità tipica dei critici in questione: quando non la si accusa di allontanarsi deliberatamente da una linea rivoluzionaria, si afferma che essa rappresenta una ricaduta nelle forme borghesi, oppure viene collocata in un escapismo più o meno dissimulato. Ciò che molta gente si aspetta da uno scrittore impegnato non è tanto una creazione rivoluzionaria ma una creazione dentro la rivoluzione. E qui tocchiamo il fondo di un grave malinteso, perché in che cosa consiste questa “creazione nella rivoluzione” secondo coloro che la rivendicano? Si chiede in generale un’opera basata su una concezione piuttosto rigida della realtà, concezione che ha portato in passato al realismo socialista e che, oggi molto più definita, tende a ritornare fra noi con tutto il suo seguito di limitazioni, di riduzioni, di non-trasgressioni, di linguaggi con limiti precisi: una concezione secondo cui molti temi delicati ed equivoci, ma che fanno parte della personalità umana allo stesso modo della fede politica e delle necessità economiche (mi riferisco fra i tanti all’erotismo, al sentimento ludico, all’immaginazione al di là di qualsiasi tematica verificabile per mezzo della ragione o della “realtà”), si ritrovano vietati o mutilati in nome di un’ambigua nozione di uomo nuovo.

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