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Variazioni di César Aira

Pubblichiamo oggi un approfondimento sullo scrittore argentino César Aira, autore di I fantasmi [1], Il marmo [2], e un’altra ottantina di libri. Autore prolifico ma di nicchia, com’è possibile? Ce lo spiega Antonio Jiménez Morato, che ringraziamo, in un pezzo pubblicato sul blog di Eterna Cadencia [3]. 

«Inframince (L’infrasottile). Varianti di César Aira»
di Antonio Jiménez Morato
traduzione di Claudia Tebaldi 

«Tutto quello che ho pensato in termini di organizzazione della mia vita è stato in funzione di Duchamp».
Cesár Aira, Duchamp en México

«Il fine ultimo della letteratura è far riecheggiare in qualche modo il contenuto nella forma».
Cesár Aira, Varamo

Nonostante abbia pubblicato il suo primo libro nel 1975, l’embrionale e oggi quasi introvabile romanzo Moreira, la carriera «editoriale» di César Aira raggiunge la stabilità nel 1990, con la pubblicazione del suo settimo libro, un’opera che dialoga con El limonero real di Juan José Saer e che uscì con il titolo I fantasmi. Nei venticinque anni che sono passati da allora, Aira ha pubblicato ottantatré libri (probabilmente in questo stesso momento il numero sta aumentando e ancora non lo sappiamo), fatto che ha dato vita a uno dei miti che da sempre hanno circondato la sua scrittura: quello di essere straordinariamente prolifico. Aira ha sempre smentito questa convinzione, rendendo noto che scrive appena una pagina al giorno. Anche se, è doveroso dirlo, non si concede nessuna giornata libera, dovunque sia. Inoltre, si giustifica sempre dicendo che i suoi libri sono molto brevi, argomento che spiegherebbe l’imponente quantità di titoli. All’interno di questa contraddizione che lo vede pubblicare molti libri anche se di poche pagine, in certi anni sono apparsi più di cinque titoli, ma il fatto che li abbia scritti lentamente, non più di una pagina al giorno, si può interpretare come qualcosa di più di uno scherzo o di un esempio di falsa modestia. Si può affermare che si tratta di un progetto estetico. Un progetto molto più solido e meditato di ciò che potrebbe sembrare a prima vista. Tuttavia, i suoi detrattori non hanno dovuto abbozzare un dettagliato leitmotiv per la sua opera: l’ipotesi che questi libri si assomiglino, secondo tale critica reticente, fa sì che diventino perfettamente intercambiabili. Riproponendo (riproducendo?) il luogo comune sulle religioni, convertito in una battuta, sembrano dire: «letto uno, letti tutti»; e con questo «ingegnoso» modo di disprezzare l’autore e la sua opera sembrerebbero soddisfatti.

Ma Aira sa che queste somiglianze che accomunano i suoi romanzi non sono tali o, anche se così fosse, lo sono in maniera meramente superficiale. In più di un’occasione ha affermato che gli piacerebbe che la sua scrittura, se dovesse assomigliare a qualcosa, ricordasse i fumetti di Superman che leggeva da piccolo, costruiti seguendo degli schemi fissi che, nondimeno, favorivano tutte le varianti che hanno permesso al personaggio di arrivare a quasi un secolo di vita con la stessa vitalità della sua apparizione. E proprio per realizzare l’idea di una scrittura sostenuta da sottili varianti, ideò delle opere geniali che oltrepassano l’ambito convenzionale della letteratura, per estendersi ad altre arti, e in particolare a ciò che anni fa venne designata come «arte concettuale», un trittico che può esser letto come un dialogo costruito intorno a un’idea comune.

L’opera iniziale della serie, forse la più convenzionale perché agisce solo sul piano formale del testo, è Duchamp en México (prima delle tre parti pubblicate nel libro Taxol), la quale racconta una storia molto semplice: durante un viaggio turistico a Città del Messico, la voce narrante, uno scrittore con pochi soldi, approfitta del cambio vantaggioso della sua moneta rispetto a quella locale per comprare un libro su Duchamp, il suo artista preferito, che trova tra i libri scontati e che contiene buone riproduzioni delle sue opere. Più tardi s’imbatte in un’altra copia dello stesso libro ancora più economica, e nonostante l’incertezza iniziale finisce per acquistarlo. Poco alla volta, la visita in città si trasforma in una serie di acquisti di più copie dello stesso libro, ogni volta più conveniente, e dalle stime del risparmio ottenuto dagli acquisti stessi, che aumenta esponenzialmente grazie ai conti che così frequentemente sono descritti negli altri romanzi. Forse è Varamo il romanzo più significativo in questo senso. La narrazione si costruisce tra due paradossi: da una parte, più il narratore compra più risparmia, dall’altra, i libri, che inizialmente sono presentati come uguali, in quanto appartengono alla stessa edizione, iniziano a differenziarsi tra loro per i diversi prezzi, che li contraddistinguono. Smettono di essere, pertanto, intercambiabili perché sono lievemente differenti. Anche se può apparire un procedimento aleatorio, la narrazione insiste sul fatto che gli esemplari dell’edizione che il narratore trova sono ogni volta più vantaggiosi, circostanza che impedisce di ammettere la casualità come unica spiegazione. Vi è un ordine che non può essere costituito semplicemente dal valore di mercato, che regolamenta questi avvenimenti, ma che non è mai espresso, è per lo più intuito dal narratore, che sente un graduale fascino per queste casualità finché il viaggio non si conclude e può tornare a casa con le sue edizioni del libro di Duchamp. Tutte identiche, tutte diverse.

Il secondo elemento del trittico si fa evidente alcuni anni dopo, quando César Aira porta a termine un progetto ampiamente pianificato: pubblicare un’edizione limitatissima da bibliofilo, con esemplari numerati e firmati dallo stesso autore. Il progetto grafico del libro va oltre il minimalismo: una copertina bianca immacolata, senza alcuna immagine, verginità spezzata appena dal titolo del romanzo e dal nome dell’autore, posti accanto al logo della galleria che rese possibile la peculiare edizione. È più che probabile che si tratti di una licenza dell’autore, visto che nel progetto il libro non riportava assolutamente nessun dato in copertina. La pubblicazione delle cinquanta copie di Los dos hombres sembra più tipica del mondo dell’arte che di quello della letteratura, e infatti è stata realizzata nell’ottica di tale mercato, con una firma filmata e fotografata per certificare l’autenticità di ogni esemplare. E non credo che sia casuale, ma intenzionale, tanto il concetto di serie quanto l’austerità estetica della proposta, poiché fa riferimento a una delle ultime opere di Duchamp: quella conosciuta come A l’infinitif (La Boîte Blanche)All’infinito (La scatola bianca) – che ugualmente si caratterizzava per l’assenza di qualsiasi immagine identificativa nella parte esterna. Aira, pian piano, sembra spostare la sua azione creativa a tutti gli aspetti della produzione artistica, e quello della diffusione è determinante, visto che è qui dove più marcatamente si sente l’influsso di Duchamp. I ready made dell’artista franco-statunitense rappresentarono una rivoluzione nella concezione dell’elemento artistico, perché spostavano l’attenzione dall’ideazione creativa alla modalità in cui veniva presentata l’opera al pubblico. La connotazione artistica cessava di avere una valenza implicita e cominciava a essere legata al contesto. Nel caso della letteratura, l’elemento esterno al testo è, senza dubbio, il veicolo di promozione dello stesso. Aira, cosciente di ciò, negli anni ha gradualmente aumentato il controllo di questo aspetto. E nel farlo ha sorpreso autori e critica, che non riuscivano a capire il motivo di questa profusione editoriale. Distribuisce i propri libri tra multinazionali e editori indipendenti, che in alcuni casi potrebbero chiamarsi artigiani – non stampano neppure i libri, ma vendono fotocopie – senza stabilire alcun tipo di gerarchia. Sono tutte opere di César Aira, e appaiono senza alcuna differenza nelle bibliografie. Sono tutte diverse, ma ugualmente rilevanti. Si assomigliano tutte, ma c’è ugualmente qualcosa di sottile, molte volte impercettibile, che le distingue. Duchamp aveva progettato qualcosa di simile per la sua Boîte-en-valise (Scatola-in-valigia), una sorta di catalogo o piccolo album che raccoglie tutte le sue opere. I sessantanove oggetti che contiene ognuna di esse sono considerati, in senso stretto, riproduzioni in miniatura di opere anteriori, tranne una, i «piccoli originali» che riproducono il Grande Vetro. Ciò accade almeno nelle prime ventiquattro valigie, assemblate e ultimate dallo stesso Duchamp. Più tardi si realizzarono diverse installazioni senza l’esemplare «originale», formate solamente da riproduzioni, fino a raggiungere un totale di duecentottanta pezzi. Questo elemento è importante perché, nel mondo dell’arte, si controlla ossessivamente, a causa del valore di mercato, il numero di pezzi originali, anche quando, come in questo caso, sono copie. Ma gli esemplari costituiti integralmente da riproduzioni, che non si presentavano più sottoforma di valigia, sono generalmente noti come boîtes (scatole). L’idea della riproducibilità è evidente, ma anche il fatto che ognuna delle scatole, specialmente le valigie della prima serie, sia unica. Sono oggetti unici e allo stesso tempo molto simili. C’è qualcosa di molto leggero, quasi impercettibile, che le distingue, che non permette di considerarle identiche. Oggi sono in circolazione cinquanta esemplari di Los dos hombres, ed è possibile che, emulando Duchamp, si arrivi a fare un’edizione che imiti la limitatissima tiratura iniziale dei libri unici. Chi può saperlo?

La terza articolazione del concetto è inerente alla pubblicazione del Marmo, che venne editato con tre diverse copertine [4]. Le millecinquecento copie dell’edizione originale si presentavano con una copertina con tre differenti progetti grafici: immagine distinta, tipografia distinta, ecc. In questo modo, esteriormente, vi erano tre modelli diversi – millecinquecento copie di ogni copertina – dello stesso libro che si presume identico all’interno. O magari no, forse non sono identici. Come sa bene ogni studioso di Storia del libro, nonostante si parli in modo generico d’impressioni date da una determinata quantità di copie considerate uguali, in realtà non esistono due libri che possano essere ritenuti totalmente identici. Non succedeva nemmeno quando si usavano i caratteri mobili, poiché era molto comune effettuare correzioni subito dopo la prima stampa senza che, per ovvi motivi di risparmio sui costi, ci si liberasse dei fogli con i refusi che rimanevano all’interno dell’edizione, né succede ora con la tecnologia moderna visto che i formati, le rilegature, il deterioramento delle cartucce d’inchiostro o perfino gli errori umani hanno finito per trasformare questi «errori di produzione» in rarità molto apprezzate dai bibliofili, che le accumulano come oggetti da collezione, indipendentemente dal contenuto del libro. Per questo è azzardato dire che i libri che appartengono alla stessa tiratura sono «identici». Non è ardito affermare che non esistono due libri uguali, e in qualche modo, ciò che Aira rimarca da tempo, attraverso questi aspetti dei meccanismi di diffusione dei suoi testi e della loro presentazione, è questo concetto: che sono tutti straordinari. Non solamente i testi – cosa evidente e apparsa imprescindibile a tutta la produzione letteraria dal Romanticismo – ma ciascuno dei libri, degli oggetti che fungono da mezzo di supporto a essi, è eccezionale. È questo che dice Aira: ognuno di questi è un oggetto unico. La profusione di titoli e di testi rappresenta una semplice prova in più. La riproducibilità imposta come meccanismo dell’arte contemporanea deve essere nuovamente teorizzata da un punto di vista editoriale. Questo porta all’affermazione finale del processo letterario di Aira, che non si limita alla tradizionale attività dello scrittore che trasforma nel nucleo la forma rispetto al contenuto, ma che eleva a nucleo anche la presentazione formale della forma stessa, ciò che il lettore manipola: il libro. È nel formato fisico che si esemplifica la distinzione tra uguale e identico, la cui comprensione come termini equivalenti viene confutata da Aira.

E questa individualità dell’oggetto, materializzazione definitiva del concetto, è l’influenza più diretta di Duchamp nella sua opera. La difficoltà di cogliere in tutta la sua grandezza l’idea dei ready made duchampiani deve essere ricercata in un concetto tanto sfuggente quanto suggestivo: quello dell’inframince (che può essere tradotto come infrasottile) e che non compare spiegato, ma accennato, rappresentato, materializzato impercettibilmente nelle note di Duchamp pubblicate postume. Nelle quali si legge: «La différence entre deux objets faits série (sortis du même moule) est un inframince quand le maximum de précision est obtenu». (La differenza tra due oggetti fatti in serie – usciti dallo stesso stampo – è infrasottile quando si è ottenuto il massimo della precisione). È questa differenzazione infrasottile quella che separa un orinatoio qualsiasi dalla Fontana che firmò come R. Mutt. Infrasottile è, infatti, la differenza tra l’esemplare esposto nel 1917 che si perse dopo l’esposizione della Società degli Artisti Indipendenti, e i quattro esemplari che Duchamp firmò più tardi con lo stesso pseudonimo di R. Mutt e che possono oggi essere contemplati in quattro diverse collezioni d’arte contemporanea. L’immaterialità dell’essenza dell’arte, la potenzialità che può essere descritta con il termine infrasottile, coniato dall’artista, sono evidenziate dal fatto che molte delle sue opere sono state riprodotte con il consenso dello stesso Duchamp, a seconda delle esigenze delle diverse esposizioni per le quali sono state richieste. L’inequivocabile paradosso appare qui: quello che Duchamp ha introdotto nel mondo dell’arte è, in buona misura, la paternità concettuale che è considerata implicita in letteratura. Per questo gli esemplari non sono «unici», ma possono invece essere riprodotti. Soltanto della sua ultima opera, Etant donnés, alla quale lavorò segretamente negli ultimi anni della sua vita, non esiste alcuna copia, e infatti non può essere spostata, visto che venne assemblata seguendo le sue direttive in uno spazio esclusivo, nel Museo d’Arte di Filadelfia, per farla conoscere e lasciarla lì dopo la sua morte. È nell’idea di copia e di riproducibilità, che s’incarna in maniera ideale nella Boîte-en-valise, la dimensione dove si può cercare in modo più manifesto l’infrasottile che caratterizza l’arte di Duchamp. Soltanto chi riuscisse a riunire tutti gli esemplari esistenti, le prime ventiquattro valigie così come le duecentottanta scatole, potrebbe capire in cosa consiste la differenza infrasottile che la contraddistingue. Aira sembra dire la stessa cosa al lettore del Marmo. Non basta leggerne una copia, forse l’ideale sarebbe leggerle tutte, cercare nelle millecinquecento copie la presenza dell’infrasottile, che le doterebbe di nuovo significato. Oppure, andando oltre, perché limitarsi a scandagliare solamente la tiratura di un titolo, perché non farlo con tutti? Forse soltanto rivedendo accuratamente ognuna delle copie dei libri di Aira che sono stati pubblicati, si possono accarezzare, osservare mentre ci sfuggono, le sfumature infrasottili in cui risiede la magia di César Aira. Come ultima battuta, ultimo colpo di scena, dice a tutti: non so se i miei libri sono uguali, non credo, ma in ogni caso per scoprirlo si dovrebbero leggere tutti. Non solo tutti i titoli, ma tutte le copie.

Quindi, se hai finito di leggere uno di questi libri, o qualche altro libro di César Aira, non pensare che il tuo compito finisca qui. Corri di nuovo nelle librerie, nelle biblioteche, e metti insieme tutte le copie che puoi. E inizia a cercare con attenzione le differenze infrasottili. Forse è qui che radica il mistero di Aira che, come sembra far capire nel Mago, fa credere di essere un prestigiatore quando in realtà ciò che fa è magia. Vera, incomprensibile, sorprendente magia, il cui segreto non siamo ancora in grado di capire.