rayuela

«Passione»: un racconto di Fabrizio Gabrielli

Fabrizio Gabrielli Racconti, Scrittura, SUR

Leggere significa anche interpretare. Pubblichiamo oggi un racconto di Fabrizio Gabrielli che ha letto, reinterpretato e immaginato Julio Cortázar e l’indimenticabile Rayuela

«Passione»*
di Fabrizio Gabrielli

Complicare è semplice.
Semplificare è complicato.
Bruno Munari

Buenos Aires, 9 Febbraio 19..

Se proprio dovessi dire a che animale somigliasse, ecco, credo che sceglierei il bue.

Ma facciamoci a capire: non tanto per la stazza, sebbene osservare la sua figura avanzare incerta fino al punto convenuto del patio fosse come fissare un diorama mobile e opulento.

Se mi chiedeste di descrivere che impressione mi ha fatto monsieur Bruno, Bruno Lacroix, direi che mi è parso da subito un bue, fin da quando ci siamo stretti la mano, certo; e poi ancora un bue quando il portone della Casa, serrandosi, ha spento l’arco luminescente che gli contornava le spalle come un giogo tremendo. Forse per via del placido terrore che a quel punto portava incastonato nello sguardo: la meraviglia e il terrore che si fondono in una sorta di dulce de leche negli occhi della bestia quando passa dal recinto sicuro al camminamento di paglia e sterco che la porta al macello.

Nel rapporto a due tra condannato ed esecutore, l’unico che ha la consapevolezza dell’irripetibilità del momento non è di certo il boia; e non posso nascondere che mi sia piaciuto, tagliare la testa alle sue congetture, disormeggiare ogni sua ancora di salvataggio, le Razionalissime Teorie di Monsieur Stocazzo Lacroix, vederle zac scivolare zac nel tino come i grappoli recisi dalla vite.

Sono ruoli per i quali bisogna averci stile, quello del vignaiolo e soprattutto quello del boia.

Nel mezzo, in quel lasso di tempo piuttosto ridotto e denso da quando ha messo il dito sul campanello d’ottone della Casa a quando con aria tronfia ha salutato (ché non vedeva l’ora di tornare in albergo per dattiloscrivere la sua storia fan-ta-sti-ca da teletrasmettere il prima possibile a Parigi), ci sono comunque stati Bruno che prendeva appunti sul taccuino mille righe, la matita impugnata con grazia austera, l’inchino quasi impercettibile di fronte a ogni crocifisso, i «cose da non crederci, sul serio» di fronte a ogni aspetto della mia storia che scopriva surreale, la curiosità famelica saziata e codificata in grafia regolare tutta Sorbona Umanesimo Le Figaro, righe su righe e ognuna della lunghezza di quella che la precedeva, dritte verso l’est. Se gli chiedevo di tanto in tanto «Gradisce del mate, dottore?», più per spezzare il silenzio che per altro, rispondeva con monosillabi di negazione così bovini che a ogni scrollata di capo sembrava stesse scacciando mosche, o l’incredulità (per cosa, poi) o la paura (di cosa mai).

«Torni a trovarci quando vuole, dottore», l’ho salutato quando ha fatto per andarsene. Non si è neppure voltato.

 

La Casa è il posto in cui vivo da un tempo storico che mi piace chiamare sempre, come se il mondo fosse spuntato fuori dal nulla solo nel Sessantadue; è in calle Manuel Ricardo Trelles, un uomo calvo con la barba lunga morto sessant’anni prima della creazione del mondo, almeno del mio. Trelles era una specie di quel personaggio di Borges, prendete che ne so: Ireneo Funes, che cadendo da cavallo aveva acquisito l’onniscienza. Bene, Trelles era come se precipitando dalla sella per la seconda volta avesse stavolta perso memoria di ogni cosa, eccezion fatta per due: la prima, la conformazione topografica di Buenos Aires negli anni della sua fondazione; la seconda, che sono poi molte seconde, una serie di termini americani che ha incastrato nel dizionario dell’autorevolissima e Sempre Sia Lodata Real Academia di Madre Patria, parole di quelle che a suggerle rumorosamente come fosse un mate ti restituiscono tutto il sapore della pampa (bisognerebbe però infilare la bombiya tra le pagine del vocabolario, provando a immaginare che sia una specie di calabaza quadrata e voluminosa).

La Casa è una casupola bassa, con la facciata del colore che hanno tre strati di crema disposti in un bicchiere a distanza di un giorno l’uno dall’altro. Due piani che sono tre se ci consideri il mezzanino interno, che nonnina-tutta-crocifissi s’era costruita da sola, pagando muratori e carpentieri con la moneta dell’amore, per poi murarvisi dentro. Una cappella con al centro un JesuCristo da guardare negli occhi per dimenticare muratori, carpentieri, amore. Passeggiare per la Casa era come leggere quaranta romanzi latinoamericani tutti insieme. Quando poi Nonnina-Ti-Ci aveva deciso di andarsi a fare un viaggio di solo andata in treno con capolinea Estación Fúnebre, era diventata casa di mia madre, sei stanze e due bagni e una cucina più una cantina sotterranea, spaziosa tanto quanto il patio sovrastante, senza considerare la cappella privata che non era mai più stata usata come cappella, sebbene il JesuCristo fosse rimasto lì, imperterrito.

Nella nostra casa di calle Trelles si sono avvicendati, in tempi che sembrano remoti, transfughi e faccendieri, scrittori musicisti e attrici di ritorno dall’esilio per pochi giorni, prima di tornare in esilio: era un porto franco in cui l’argentinità veniva insufflata in vena ai nostalgici, come un vaccino. Sarà la vicinanza con il Cimitero di Chacarita, che volete che vi dica, ma anche a me è capitato di sentire soffiare un vento che somiglia alla voce di Gardel che canta versi di Alfonsina Storni su un giro di piano di Discepolo, o in punta di piedi sulle rughe del bandoneón di Troilo. Ed è una brezza che arriva col buio e ti piglia di soppiatto sotto la mascella, come un uppercut di Oscar Bonavena; ha il sapore umido, erbaceo e stantio delle stanze in cui si cucinano i cavoli stufati.

Il JesuCristo ligneo della cappella è gigantesco ed elefantiaco, ha la barba ondulata, la mascella prominente. Nessuno degli ospiti della casa, tuttavia, crede che la placca posta all’ingresso abbia in qualche modo a che fare con quella statua: negli occhi di Cristo trovano altri sguardi. Sulla placca in bronzo c’è scritto, però: “Casa de los hijos de J.C.”. La Casa dei Figli.

 

«Benvenuto nella nostra Casa, dottore», l’ho accolto. Ci tengo a sottolineare che ogni volta che ho pronunciato la parola dottore, con Bruno, l’ho fatto inferendo un’inflessione più di scherno che di riverenza: aveva l’espressione spocchiosa di chi ha letto tutti i libri del mondo e non è convinto di volerne parlare proprio con te, che poi che ne sai, te.

«Ho scattato una foto alla placca all’ingresso. Non le dispiacerà, spero», è stata la prima cosa che mi ha detto, dopo esserci salutati.

«Certo che no, si figuri» ho risposto malcelando una punta di disagio.

Poi però mi sono fatto docile docile: «Saprà perdonarmi, ma non siamo abituati ad accogliere molti giornalisti, né credo di poterle dare tutte le informazioni che lei…».

Al che mi ha prontamente risposto «sono certo che sarà sufficiente quel che potremo…»; ma l’ho interrotto con aria compunta: «intendo dire, non so se riuscirò a farla parlare con qualcuno dei nostri ospiti, come le ho già detto so di poter confidare sul suo rispetto di…».

«Sono certo che mi sarà sufficiente parlare con lei, Manolo.», ha chiuso perentorio.

Quando, pochi giorni prima di bussare alla Casa, Monsieur Lacroix mi ha chiamato, annunciando la sua visita, la prima persona di cui ha chiesto è stato il tano.

Il tano, oppure Tre come si chiama qua dentro, dove i nomi li decido io perché il padrone delle regole del gioco e del mondo sono io, è l’ultimo ad essere arrivato tra noi, e sembra aver lasciato una traccia di bava sul suo cammino, come una lumaca. Si sono conosciuti, dice Bruno, ad Annecy.

«Sa dov’è?», mi ha chiesto provocandomi. «Alta Savoia, in Francia», ha aggiunto subito. Tanto non lo sapevo.

«Quando l’ho conosciuto», ha preso a raccontare, «aveva valigie pesanti piene di pizze da srotolare nel proiettore, ma al Festival l’avevano respinto, sa, il Festival che fanno ad Annecy. Aveva occhi verdi d’una bellezza maligna. Qualche sera dopo gli ho organizzato una visione privata in una saletta del Théâtre Charles Dullin di Chambéry».

Dopo qualche momento di esitazione ha bisbigliato: «Crepuscoli»

«Quel che portava in dote erano crepuscoli, di neve e di sabbia, di primavera e d’inverno, crepuscoli in scenari crepuscolari dove se c’era qualcosa che non mancava mai, quel qualcosa erano croci. Croci latine e croci greche, croci dei Celti, di granito o semplici tronchi tenuti insieme con uno spago. Croci, e dietro le croci: crepuscoli».

Avrei voluto chiedergli di ripetere, perché avevo perso le fila del discorso. Come quando stai leggendo un romanzo e a metà della pagina di accorgi che avresti dovuto sottolineare tutto il paragrafo.

Non conoscevo la storia del tano perché a nessuno, qua dentro, interessa conoscere le storie degli altri abitanti della Casa prima che diventino coinquilini. Eppure, allo stesso tempo, non mi sembrava per niente assurdo il nesso tra i Crepuscoli e la statua di J.C.

«E quindi è in partenza per Buenos Aires», mi ha raccontato d’avergli chiesto Bruno, in quel finale d’estate, «ci va per proiettare i suoi tramonti? Le sue Croci?». E al tano era toccato spiegare perché Buenos Aires, perché proprio nella Casa, cosa significassero per lui quella J., e quella C.

«Lei immaginerà, in periodi come questo sono molte le persone che vogliono credere di poter credere fortemente», gli aveva detto il tano.

Monsieur Bruno aveva annuito, su e giù con la testa, ma non aveva capito appieno, mi raccontava, o forse non credeva a neppure una parola di quelle che gli aveva sillabato il tano.

 

Nel cortile al centro della Casa c’è una fontana, tre alberi e un’aiuola con l’erbetta e i gerani. Le mura di cinta non sono altissime: nessuna sensazione di costrizione o soffocamento, ci mancherebbe, gli ospiti sono mica prigionieri, neppure pazienti, sono uomini “speciali” che hanno sentito d’essere stati chiamati in causa: hanno trovato nei libri, ognuno a suo modo, la Parola, e letto tra le righe il loro nome, e hanno scelto di rispondere. Da nessuno dei palazzi di quelli spuntati con gli anni tutt’intorno si può gettare l’occhio fin dentro le fronde degli alberi, lo specchio della fontana, i pistilli dei gerani.

«Una sigaretta, dottore?», ho domandato irriverente.

Poi abbiamo iniziato a fare il giro delle stanze, tutte chiuse a chiave. Dietro ogni porta, una coltre di silenzio soporifero.

«No che non mi pare il caso di bussare, dottore, gliel’ho detto già. Non è che non voglia spiegarmi, è che proprio non saprei come descrivere gli ospiti della Casa, dottore. Come sarebbe a dire tracciarne un profilo? È gente che varca la soglia abbandonando i passaporti e le routine.», ho pensato di potermela cavare così.

Poi ci ho preso gusto, però. «Ha presente quel momento in cui gli Amish possono decidere cosa fare della loro vita, abbandonando i precetti a tempo determinato? Così i miei ospiti: la vita a un certo punto da convessa gli si fa concava; un momento prima è piena di appuntamenti dal dentista, scadenze, ingorghi in autostrada, isole esotiche da sognare, ninnoli da spolverare e tasse da pagare e cartoline di Natale da scrivere, poi vengono nella Casa perché ne avvertono il richiamo irresistibile».

Ho provato a stuzzicarlo ancora un po’, come il pungolo sul bue: «Chi non vorrebbe vivere come i personaggi di un romanzo Monsieur? Loro lo vogliono più d’ogni altra cosa: e lì è come se avvolgessero ogni cosa in una gelatina filamentosa».

«Non capisco perché lo fanno», ha bisbigliato mentre passavamo di fronte alla cappella. Da Tre ci spostavamo verso la stanza di Cinque, sperando in una porta socchiusa, un lembo di stoffa rosa tra le lenzuola, risposte semplici a domande impossibili «Ma forse non ha neppure senso starmelo a chiedere», ha aggiunto, come tra sé e sé.

L’ho afferrato per un braccio: «glielo dico io perché, dottore», spingendolo contro la porta della cappella. Dal catino absidale, J.C. elefanteggiava guardandoci. «Lo fanno in sua memoria. Davvero crede che non abbia senso?».

 

«Donne, mi chiede? Tante e varie, dottore. Ovvio che molte di loro si sentano più madri o amanti che figlie, ma il copione è sempre lo stesso e le parti da recitare, quelle a disposizione, non sono poi questo gran che, bisogna sapersi accontentare. Se hanno un marito? Fuori, certo. E figli di per sé, che domande. Però poi gli viene voglia di tornare bambine, di mettersi a giocare a Campana, alla Rayuela come la chiamiamo noi, e sa cosa? Mettono un piede sulla casella del Cielo e tra le mani si trovano una soluzione fosforescente, credono d’aver conquistato il segreto di ogni cosa che gli succede intorno».

«Cosa penso io?», ho chiesto a Bruno, che non sembrava troppo appassionato alla risposta. Ma ormai ero un fiume in piena. «Se vuole saperlo», ho continuato tutto d’un fiato, come lo studente che ripete la lezione imparata ben bene, «credo che vogliano sentirsi schiave di un’idea, di un ideale, legate mani e piedi, gridare di sorpresa quando vengono prese, gli occhi così Santa-Teresa-D’Avila-Che-Si-Strugge. Ma sono gli uomini, gli uomini che quando si impuntano è proprio la morte in tre volumi». «Se capisce cosa intendo», ho chiosato.

Mi sono fatto l’idea che Monsieur Lacroix, nel prendere appunti, nello stuzzicarmi, «ma mi dica un po’ meglio la questione tale o talaltra», non stesse cercando di capire proprio niente; la sua era una strategia come un’altra per sminuire la paura. Non è che m’aspettassi che si segnasse con la croce fronte bocca e cuore, o che mi chiedesse di invitarlo a vedere; ma neppure tanto di quel timore, fretta d’andarsene. Sarà che io la conosco, l’aria che comincia a tirare, ci sono abituato agli sguardi furtivi che si scambiano gli ospiti della Casa quando si avvicina Il Grande Giorno. E che volete che vi dica: bisogna averci le budella foderate col velluto blu per non farsi tremare le ginocchia.

Quando la Passione sta per andare in scena, e gli inquilini si trasformano in attori, si fanno cupi in volto per entrare nel personaggio. Gli occhi di chi vive nella Casa, in quell’istante, sono acuminati come quelli dei giocatori di truco, o di chi consuma un amore colpevole. Se ci togliessero quelli sguardi finiremmo per sgozzarci l’uno con l’altro. Mentre il dottore, ecco, il dottore deve aver pensato che fosse più facile semplificare la tensione di quegli sguardi, perché il dottore è tipo da cercare soluzioni semplici, che so io, un racconto fantastico da mettere in un’antologia: semplificare è sempre così complicato. Forse si aspettava meno atmosfere alla Poe, non credeva di trovarci, dentro la Casa, tanto di quel Felisberto, avrebbe preferito il technicolor di Macondo e invece s’era imbattuto nelle ombre tra le canne dei quadri di Wilfredo Lam, nel suono dei tamburi che lacera il buio, con i piedi ammollo nell’orrore.

 

Nella cantina si scende solo per prendere il vino, tranne la notte in cui inizia la mise en scene della Passione. Cinque e Uno s’inerpicano nei sotterranei, si baciano, nomi e sospiri si mescolano, amalgamano, conglomerano come la polvere sotto i tappeti: «oh, Horacio», «ah, Talita», «oh Maga», «oh Oliveira». Si sussurrano i nomi dei personaggi partoriti dall’immaginazione, o dall’esperienza personale, di J. C. Fanno questo in sua memoria.

La Passione, che è come ci viene di chiamare la rievocazione che facciamo, cercando un finale alternativo, delle cose che succedono e si dicono dentro Rayuela, comincia stanotte; tutti gli anni, stanotte.

Domattina all’alba aprirò la porta di Uno, lo troverò al buio, rintanato sul davanzale della finestra che affaccia sul patio, quella senza sbarre, con la faccia tra un garbuglio di ragnatele e sarà di nuovo lo schifo e l’eccitazione dei discorsi che filano senza fare una piega, delle recite eleganti e impeccabili in cui nessuno se ne va sbattendo la porta come un’attricetta di periferia, e discuteremo estraendo dal cilindro delle possibilità le battute di una parte mandata perfettamente a memoria, circondati da sputacchiere ricolme d’acqua e fili di lana ben tirati da un estremo all’altro della stanza. Una mano sventolerà dalla fontana, in lontananza, richiamando l’attenzione: «non farlo Horacio non farlo», griderà da sotto Talita, o chi le presta il volto, con più o meno convinzione.

E se poi succederà, se Uno sentirà di volersi buttare di sotto dalla finestra, alla fine che ci vuoi fare: punf, vorrà dire che ci toccherà smacchiare il pavimento e riaprire la fossa dietro la fila di bottiglie di Malbec, tanto chi volete che venga a piangerlo, uno che decide di seppellirsi vivo dentro le pagine di un romanzo?

 

A quel punto della rievocazione Monsieur Lacroix, ignaro di tutto, sarà già in hotel tutto indaffarato a dattiloscrivere la sua fan-ta-sti-ca puntata del reportage dal mondo a testa-sotto-sopra.

Con lo sguardo dell’ingenuo mascherato da furbo, prima d’andarsene, l’ultima cosa che m’ha chiesto è stata: «e lei, Manolo, non ha mai avuto il sospetto d’esser figlio anche lei, di J.C.?».

«Dottore, ma che sospetto e sospetto», ho risposto schermandomi.

«Io ne ho la certezza», ho bisbigliato dopo svariati minuti, quando era già un punto minuscolo pronto a essere inghiottito dalla metropolitana.

Ma cosa ne può capire, Monsieur Lacroix; lui è un bue. Ognuno ha il suo modo di essere prigioniero.

 

 

E dopo aver fatto tutto quello che fanno,
si alzano, si lavano, si danno il talco,
si 
profumano, si pettinano, si vestono,
e
così progressivamente
ridiventano
quello che non sono.

Julio Cortázar, «Amore 77»

 

*

Dev’essere vero, come dice un certo Lucas, che siamo tutti un’Idra a più teste. Io ne ho due che si sono messe a parlare dopo aver letto, rispettivamente, Rayuela e Ella o el sueño de nadie di Mauricio Wacquez, trovandosi d’accordo sul fatto che sì, Rayuela ha davvero «preso a sganassoni un sacco di gente» (sono parole di Julio Cortázar, affidate a Sara Castro-Klaren in un’intevista), ovviamente compreso Wacquez, autore di un romanzo in cui i tre protagonisti non sono che Manolo Traveler e Horacio Oliveira e la Maga o Talita, è lo stesso, tanto ha cambiato tutti i nomi e alla fine bisognerebbe capire cosa significa, un nome.

Certo sarebbe bello se esistesse davvero una Casa in cui inscenare finali alternativi di Rayuela, in cui convivessero persone disincastrate con un’appendicectomia da racconti e romanzi di J.C., decise a giocare un gioco che è molti giochi insieme ma soprattutto quello del Mondo, nell’istante immediatamente successivo a quando hai già conquistato il Cielo.

La casa, che ho immaginato buia e austera come quella Occupata, si può vedere su Google StreetView al 2047 di Calle Manuel Ricardo Trelles, sulla destra. Bruno, forse, è lo stesso Bruno dell’Inseguitore, e ogni volta che si beve mate va da sé che sia Nobleza Gaucha. Ireneo Funes è l’Ireneo di Borges, il Théâtre Charles Dullin, a Chambéry, è il luogo che illuminato dalla luce di un pomeriggio natalizio mi ha suggerito l’immagine di un Cacciatore di Crepuscoli che avesse realizzato il suo sogno, e un po’ anche il mio. Calle Trelles si trova nel barrio La Paternal, e sì, è a poche centinaia di metri di distanza dal Cimitero Monumentale de La Chacarita. L’odore di cavoli stufati è lo stesso che regna nella stanza della Maga, a mezz’altezza sulla culla del piccolo Rocamadour. Per l’immagine di un’America Latina tutt’affatto condensabile nel caleidoscopio variopinto di Macondo devo ringraziare Matteo Nucci, al quale l’ho sentita raccontare un pomeriggio dicembrino. La Giungla di Wilfredo Lam, oltre a essere sulla copertina dell’edizione Einaudi de Il regno di questo mondo di Alejo Carpentier, è uno dei pochi quadri di fronte ai quali riesco davvero a capire di cosa parlasse Freud quando parlava di perturbante, e ogni volta che sono a New York vado al MoMa per perdermi almeno un po’ in quell’abisso di tenebra.

Tutti gli altri riferimenti, quelli che sfuggono, quelli che non ho elencato qua sopra, bisogna cercarli nei fondi del caffè, o come diceva Julio tra le bave del diavolo nell’istante in cui avvolgono la vallata.

                                            Chambéry – Civitavecchia – Guadeloupe
fine 2014 – piovoso e poi soleggiato autunno 2015

© Fabrizio Gabrielli, 2015. Tutti i diritti riservati.

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