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Warlock di Oakley Hall

Esce questa settimana per BIG SUR Warlock [1] di Oakley Hall, pubblichiamo oggi un estratto dal romanzo dove viene descritta la situazione di questa cittadina mineraria in rapida espansione, dove insieme ai commerci fioriscono il gioco d’azzardo e la prostituzione, gli scioperi e le scorribande dei cowboy.

di Oakley Hall
traduzione di Tommaso Pincio

Warlock sorgeva su un altopiano bianco e alcalino, cinto per metà dai monti Bucksaw a est e sovrastato da un cielo metallico. Col sole pomeridiano, i cui raggi obliqui giungevano dalle lontane vette dei Dinosauri, una leggera patina gialla accendeva le costruzioni di adobe e assi scolorite dal tempo, con le loro facciate posticce, mentre ombre nere e ben disegnate si aprivano come fòsse negli angoli non toccati dal sole.

Il calore del sole era una coltre; aveva peso e dimensioni. Velata da calore e polvere, la città appariva sfocata. Un carro con un serbatoio arrossato dalla ruggine procedeva lento per Main Street, spruzzando dietro di sé un nastro scintillante di acqua. Ma la polvere di Warlock si posava solo per poco. Tornava presto ad agitarsi, leggera come l’aria, smossa dalle ruote cerchiate di ferro, dagli zoccoli, dai tacchi degli stivali. La polvere si sollevava e restava sospesa per poi accumularsi, in una pioggia perenne, sulla prigione e l’emporio di Goodpasture, sul Lucky Dollar e il Glass Slipper e i saloon più piccoli, sulla sala da biliardo, il Western Star Hotel, il Boston Café e la Warlock and Western Bank, sulle case della Row, i postriboli lungo Peach Street, sulla scuderia e il deposito per carrozze di Kennon e lo scalo merci, sullo spiazzo delle diligenze di Buck Slavin e l’Acme Corral dei fratelli Skinner in Southend Street, sul Deposito granaglie e foraggi e sulla pensione del generale Peach in Grant Street, sulle baracche dei minatori rivestite di cartone catramato, sui carri e gli uomini a cavallo e sul resto della gente che passava in strada. Penetrava negli occhi e irritava le gole secche, ammantava tutti di un lucore biancastro e si tramutava in fango col sudore del viso.

I sentieri e le piste di carri e diligenze confluivano in città come raggi contorti di un mozzo polveroso. Venivano dalle miniere di argento situate nelle alture più vicine della catena dei Bucksaw: la Medusa, la Sister Fan, la Teti, la Pig’s Eye e la Redgold; dal villaggio di Redgold e dal suo frantoio a martelli; dal più distante villaggio di San Pablo e dalla valle e dal fiume che portavano lo stesso nome; da Welltown a nordovest, dove passava la ferrovia; da Bright’s City, sede amministrativa del territorio.

La polvere si sollevava anche lungo le strade battute dai viaggiatori: un cercatore d’oro col suo burro; un gruppo di uomini venuti a cavallo da San Pablo; i grandi carri che scendevano dalle miniere sulle loro grosse ruote, traboccanti di minerali; i carichi di legname trainato dalle foreste delle montagne a nord e destinato alle gallerie delle miniere; una diligenza in arrivo da Bright’s City; e, sulla strada per Welltown, un cavaliere solitario che si avvicinava, avanzando lento tra gli enormi e sparsi massi ai margini di Warlock.

John Gannon cavalcava piegato stancamente in avanti per contrastare la pendenza, la mano sulla spalla sudata e polverosa della giumenta grigia che aveva comprato a Welltown e che ora incitava a superare quell’ultima altura dal terreno accidentato, finché, guadagnata la cima, alla vista della città, l’animale accelerò da sé l’andatura. Gannon diede un’occhiata alla sua destra, al brutto sentiero che portava al cimitero, la Collina degli Stivali, e alla discarica, dove vide il sole scintillare su alcune bottiglie di whisky e un mucchio di fogli agitati da una raffica di vento.

La cavalla trottò con passo pesante superando le baracche dei minatori ai confini della città. Più oltre incombeva il retro del French Palace, alto e costellato di strette finestre. Da una di queste una donna salutò Gannon con la mano e gridò qualcosa che andò perduto nel vento. Lui guardò subito davanti a sé e tornò a posare la mano sulla spalla della giumenta. In Main Street, curvò a sinistra e gli zoccoli della giumenta affondarono in una polvere più densa.

Al suo passaggio, l’insegna sopra la prigione dondolò e cigolò nel vento. L’insegna si leggeva a stento; scolorita, coperta di polvere, punteggiata da grappoli di fori, indicava con umiltà dov’era di casa la legge a Warlock:

 

VICESCERIFFO
PRIGIONE

 

Gannon tirò le redini a sinistra, in Southend Street, e girò infine in direzione dell’Acme Corral. Nate Bush, lo stalliere dei fratelli Skinner, uscì per andargli incontro. Bush afferrò le redini mentre Gannon smontava da cavallo, sputò di lato, si pulì i baffi e senza guardarlo gli domandò: «Tornato, eh?»

«Tornato», disse Gannon.

«Immagino McQuown stia facendo tornare proprio tutti i suoi uomini», disse Bush con voce piatta e ostile, e subito si voltò per condurre la cavalla all’abbeveratoio.

Gannon, immobile, lo seguì con lo sguardo. Nell’osservare la cura con cui Nate Bush gli dava la schiena, si sentì stanco e appesantito per la giornata trascorsa sotto un sole d’inferno, stanco e appesantito per essere tornato nella valle. Aveva provato a convincersi che non fosse tornato per mettersi nei guai, ma a Rincon gli era stato detto che la città di Warlock aveva ingaggiato Clay Blaisedell come marshal; aveva inoltre capito, senza che nessuno glielo avesse detto, che l’uomo di Fort James era stato ingaggiato per affrontare Abe McQuown; e lui conosceva Abe McQuown. Aveva lavorato per McQuown – perfino a Rincon era cosa nota – e a Warlock non l’avrebbero mai scordato. Billy, suo fratello, era tuttora al soldo di ­McQuown.

Sputò nel fazzoletto e chiuse gli occhi nel tentativo di togliersi un po’ di polvere dal viso. Poi s’incamminò a passo lento verso Main Street per fermarsi all’angolo dell’emporio di Goodpasture, quando un carro passò in strada e la polvere sollevò nuvole dagli zoccoli dei muli e sgorgò come acqua dalle ruote. Scostò il viso e cacciò l’aria dal petto per non respirare la polvere di Warlock, ricordandosi del suo odore, del sapore pungente; passato il carro, nel diradarsi dei nugoli, vide apparire una sagoma esile, appoggiata a uno dei pali del porticato antistante la prigione. Era Carl Schroeder; lo sconforto per come era stato accolto dallo stalliere gli aveva fatto dimenticare che a Warlock c’era anche qualcuno che avrebbe rivisto con piacere. Cominciò ad attraversare diagonalmente la strada con Carl che lo fissava, dopodiché sollevò una mano.

«Ma dimmi tu, Johnny!», esclamò Carl mentre Gannon si avvicinava lungo il marciapiede di legno. La mano asciutta e callosa di Carl strinse con forza la sua. «Come vanno i treni a Rincon, Johnny?»

«Vanno e vengono. Cos’è quella roba sul tuo gilè, Carl?»

Carl Schroeder abbassò lo sguardo e, col pollice, spostò la stella in modo che Gannon potesse ammirarla. Non sorrise. Il suo viso ordinario, i suoi baffi tristi parevano più vecchi di quanto Gannon li ricordasse; aveva un’aria stanca e tirata. «Bill Canning se l’è data e ho pensato di colmare il vuoto. Conoscevi Bill, vero?»

«Non lo conoscevo».

«Mi sa che sei stato via un bel po’ allora». Per un attimo e non del tutto per caso, gli occhi di Carl si posarono su di lui, poi si volsero altrove. «Canning è arrivato dopo che hanno fatto secco Jim Brown».

Annuì. Era stato suo fratello Billy a far secco Jim Brown. La sola lettera che aveva ricevuto da Billy durante i sei mesi trascorsi a Rincon era stata una strana mistura di vanteria e scuse per avere sparato a un vice. «Un volgare figlio di puttana, un pallone gonfiato», gli aveva scritto Billy. «Se l’è cercata. Lo dicono tutti che se l’è cercata. Abe dice che se non ci avessi pensato io, lo avrebbe sistemato lui, Bud».

«Entra e siediti», disse Carl, girandosi per entrare nella prigione. Nel seguire Carl all’interno, Gannon lesse l’annuncio scritto a chiare lettere sul foglio affisso alla parete di adobe, accanto alla porta:

 

CERCASI AIUTANTE VICESCERIFFO
RIVOLGERSI A SCHROEDER

 

L’insegna sopra la sua testa tornò a cigolare, mossa da un’altra raffica di vento. Il giudice Holloway lo scrutava dalla penombra della prigione, il suo viso malato era più scuro che mai, più emaciato, più intessuto di vene rosse, il porro o il neo sulla sua guancia pareva un piolo infisso nella carne, il corpo rigonfio era curvo sopra il malconcio tavolo di pino che gli faceva da scanno. La stampella che aveva preso il posto della gamba perduta a Shiloh era poggiata al muro alle sue spalle, con la bombetta che le pendeva dal manico. Peter Bacon, il conducente del carro dell’acqua, era seduto in fondo, vicino alla porta che dava sul retro, con un coltello e un pezzo di legno grigio nelle mani.

«Bene bene, Bud Gannon», disse Peter, sollevando un sopracciglio.

«Peter», disse lui. «Giudice».

Il giudice non rispose. «Come va col telegrafo, Bud?», domandò Peter.

Era da molto tempo che non si sentiva chiamare «Bud» e il nome gli risultò famigliare e sgradevole quanto la polvere di Warlock. Sentì il proprio viso deformarsi in una smorfia contrita e ridicola. «L’ho mollato».

«Sei tornato per restare dunque?», domandò Carl, voltandosi verso di lui. Si aggiustò il cinturone. «Qui o a San Pablo, Johnny?», chiese a bassa voce.

Gannon si strofinò le mani sulle cosce impolverate dei pantaloni. «Che diamine…», disse e si bloccò nello scorgere per un attimo qualcosa di molto severo, molto tagliente negli occhi di Carl. «Che diamine, San Pablo, direi. La sola cosa che conosca, a parte come funziona un telegrafo, è il ferro per marchiare».

Peter era concentrato sulla sua opera di intaglio. Il giudice, assorto in cupi pensieri, fissava il filo di luce crepuscolare che penetrava a stento nella prigione. Carl appoggiò uno stivale sulla sedia accanto alla porta della cella. «Com’è che hai mollato, Johnny?», domandò. «Si pensava che stessi diventando qualcuno».

«Mi hanno licenziato». Intuì quali fossero le domande che si tenevano dentro. Sebbene non fosse tenuto a rispondere, disse: «Il tipo per cui facevo l’apprendista è schiattato da un giorno all’altro e hanno fatto venire un altro che aveva già un aiutante». E Gannon era più che sicuro che avessero chiamato un altro perché era noto che in passato lui aveva lavorato con McQuown, e lo stesso stavano ora pensando Carl e Peter. Ma aveva detto fin troppo e li osservò annuire quasi all’unisono, all’apparenza senza interesse.

Carl distolse lo sguardo da Gannon per fissare il muro dove i precedenti vicesceriffi di Warlock avevano inciso i loro nomi marroni nell’imbiancatura. Il nome di Carl era stato aggiunto in fondo alla lista. Sopra il suo si leggeva WM. CANNING, sopra quello, in lettere grandi e sbilenche, JAMES BROWN, più sopra ancora, B. EGSTROM. Più in alto nella lista spiccava ED. SMITHERS, che Jack Cade aveva freddato nel corso di una cruenta rissa al Lucky Dollar. Gannon aveva assistito alla scena.

«Matt Burbage potrebbe avere bisogno di una mano», disse Peter Bacon, senza alzare gli occhi dall’intaglio. «Anche lui viene spesso in città il sabato sera».

«Grazie», disse Gannon con riconoscenza. «Be’, credo proprio che mi farò un sorso di whisky». Nessuno si offrì di accompagnarlo. Le dita del giudice tamburellavano sul tavolo.

«Abbiamo un marshal adesso», disse Peter.

«Ho sentito. Peach si è fatto vivo per assegnare a Warlock lo statuto di città?»

Carl scosse il capo. «No, è stato il Comitato cittadino a ingaggiarlo».

«Un pistolero di Fort James», disse Peter. «Di nome Clay Blaisedell».

Gannon annuì. Un pistolero di Fort James ingaggiato per vedersela con Abe McQuown, con la gente di McQuown, con Billy, che era uno di loro. La città si era rivoltata contro McQuown. Il sapore e l’odore di Warlock non erano semplicemente quelli della sua polvere, erano anche il sapore dell’apprensione, l’odore della paura e della rabbia di un pericoloso animale che ringhia e appesta la gabbia in cui è rinchiuso. Era tornato, ma quel posto era solo peggiorato da quando l’aveva lasciato. E ora la città aspettava. «Problemi?», domandò a Carl, serafico.

«Non ancora», disse Carl, anche lui serafico, e sollevò la mano per pulire l’opaca stella a cinque punte che gli pendeva dal gilè; il viso, di profilo e ancora intento a scrutare i nomi sulla parete, indicava chiaramente rabbia e paura, determinazione e spavento.

Gli occhi accesi e iniettati di sangue del giudice sollevarono di sbieco le loro sclere giallastre per incrociare lo sguardo di Gannon che usciva. Nessuno disse niente alle sue spalle. Fuori, nel sole che penetrava sotto il porticato, il passo dei suoi stivali risuonò sulle assi di legno mentre si dirigeva verso l’isolato centrale.

Pensò con ostinazione che quella sera avrebbe cercato Burbage. Sapeva che era inutile. Aveva fatto parte della cricca di McQuown e sarebbe dovuto tornare da McQuown, a San Pablo. Per qualche tempo aveva creduto di essersi liberato di loro.

© Oakley Hall, 1958. Tutti i diritti riservati.