- SUR - https://www.edizionisur.it -

La letteratura è arte: intervista a Oswaldo Reynoso

Niente miracoli a ottobre [1] dello scrittore peruviano Oswaldo Reynoso [2] è in tutte le librerie. Pubblichiamo oggi un’intervista di Patricio Zunini all’autore, fatta in occasione dell’edizione argentina del romanzo. L’intervista è tratta da Eterna Cadencia [3], che ringraziamo.

di Patricio Zunini
traduzione di Lorenzo Piciarelli

Niente miracoli a ottobre racconta le vite di diversi personaggi che s’intersecano nell’arco di un’unica giornata, più precisamente il giorno in cui a Lima si svolge la festa del Signore dei Miracoli. Da una parte c’è Don Manuel, un signorotto che tra le lenzuola del suo amante (un giovane ribelle salvato dai bassifondi) cospira contro l’attuale governo. La ricchezza di questo personaggio viene affiancata, dall’altra parte, alla situazione precaria della famiglia Colmenares, a cui sta per essere portata via la casa, giacché il terreno in cui si trova dovrà ospitare la costruzione di un edificio multipiano. La triste rassegnazione del padre (impiegato di Don Manuel), il senso di colpa dei figli, il cinismo del Potere. E il miracolo che tarda ad arrivare.

Il romanzo, con la sua forte carica simbolica, suscitò grande scalpore nel Perù degli anni Sessanta. Oggi Reynoso è uno degli scrittori più letti del paese e le sue opere vengono considerate materia di studio.

La rivoluzione di questo ottobre senza miracoli inizia dal linguaggio: «La narrativa peruviana del ventesimo secolo, spiega Reynoso, in particolare quella dei primi decenni del Novecento, era figlia di scrittori assai pudichi. Utilizzavano una lingua standard, mostrando un certo timore nei confronti di quella popolare. Più che altro davano l’impressione che dietro la voce dei personaggi vi fosse sempre quella dell’autore. Quando dovevano scrivere di bambini, o di ragazzi molto poveri, l’espressione più forte che facevano utilizzare a qui giovani scapestrati era “accidenti!”. C’è un autore che ha ambientato un suo racconto a La Victoria, un quartiere popolare abitato prevalentemente da gente povera e che si dice essere caratterizzato da una forte delinquenza: è la storia di un ragazzo del posto che ne picchia un altro, e questo gli dice “per carità, non rompermi le tasche!” Mi irritava leggere cose del genere. Ho frequentato bar e sale da biliardo, e non ho mai sentito nessuno parlare in questo modo. Ho anche raccontato di quei bar; è da lì che vengono le espressioni dei personaggi che abitano i cinque racconti de Gli innocenti. Nel mio secondo libro di narrativa, Niente miracoli a ottobre, si può riconoscere la continuazione del lavoro che avevo iniziato con Gli innocenti».

Oswaldo Reynoso parla in maniera pacata, dà risposte lunghe che spesso deviano – o sembrano deviare – dalla domanda. A volte è necessario insistere sull’argomento, ma è più che altro consigliabile essere pronti alle sorprese. Del suo contemporaneo Vargas Llosa dice: «Lo rispetto molto, lo reputo un grande autore, i suoi primi romanzi sono opere incredibilmente vitali, ma la sua ultima fatica mi è parsa insignificante».

Il romanzo è del ’65. Fatta eccezione per un paio di citazioni – la guerra del Vietnam, la Rivoluzione cubana – non sembra esserci l’intenzione di collocare la storia in un’epoca precisa.

Credo ci sia stata un’alterazione nel modo di concepire la letteratura peruviana. Non so se si tratti di una cosa comune anche ad altri paesi. Gli studi fatti negli Stati Uniti, in Europa e da alcuni critici del mio paese utilizzano principalmente un approccio sociologico. E questo porta a considerare il romanzo come una testimonianza sociale. Ma l’autore non aveva intenzione di scrivere un saggio! Ha scritto un romanzo e il romanzo è opera d’arte. E riguardo la concezione artistica ed estetica dell’autore nessuno proferisce parola. Seguendo quest’ottica sociologica, ciò che interessa alla critica è verificare se e come l’opera rifletta il reale. Dal mio punto di vista, tutto questo è sbagliato. In America Latina e in Perù si scrivono bei romanzi, bei racconti. Ma di questo nessuno parla. Il mio romanzo ne è stata la riprova, perché continua a essere letto nonostante parli di un’altra epoca. Ci sono valori che trascendono il tempo. Non leggiamo Proust, o Dostoevskij per raccogliere informazioni sulla situazione socioeconomica francese o russa: li leggiamo perché sono grandi romanzieri. Ritengo che la critica debba adottare quest’ottica, nell’atto di approcciarsi a un’opera narrativa. Nel mio primo libro, Gli innocenti, i personaggi frequentano localacci con jukebox, si vestono alla James Dean, parlano con la lingua di quel periodo – con quello che viene definito linguaggio popolare peruviano. Non ci sono dubbi sul fatto che questo romanzo continui a essere letto e apprezzato dai ragazzi, e il motivo è che ognuno dei personaggi ha un ruolo che, a prescindere dall’epoca, continua a commuovere il giovane lettore.

Cosa deve avere uno scrittore per interessare ai ragazzi?

Penetrare il personaggio attraverso un’estetica, mettendo da parte i dettagli di circostanza. Credo sia questo che interessa ai giovani. Da quando ho iniziato a scrivere ho sempre mantenuto due direzioni fondamentali: l’etica e l’estetica. Non esiste etica senza estetica, e non esiste estetica senza etica. Non parlo di morale, ma di etica. Affronto il problema impiegando queste due linee insieme a una lingua viva, un linguaggio creativo al limite del poetico. È questo che ha permesso ai miei libri di compiere mezzo secolo, continuando a essere i più letti del Perù.

Il personaggio di Miguel, uno dei protagonisti, è stato influenzato dalla letteratura di Dostoevskij?

È possibile. Ci sono cose di cui mi rendo conto solo dopo aver finito di scrivere, perché mentre lavoro sono una specie di sonnambulo. E questo accade perché io non sono uno scrittore: sono un creatore. La differenza principale è che lo scrittore domina la propria forma espressiva scritta, intelligente, a seconda che voglia redigere un saggio, una poesia, un racconto, un testo teatrale, o uno di cronaca. Ma non produce arte. Il creatore, invece, ha una pulsazione interna che esprime proprio attraverso l’arte. Per me la letteratura è arte. Credo sia stato Octavio Paz a dire che un uomo intelligente e colto può scrivere una bella poesia, ma questo non basta a renderlo un poeta. Ecco perché faccio questa distinzione tra scrittore e creatore. E io mi considero un creatore.

Tornando alle influenze del romanzo, senz’altro tra queste c’è Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Perché? Perché quest’opera vive di un tema fondamentale: le gelosie. È questo il problema di tutte le coppie presenti all’interno del romanzo. Mi fa pensare a una grande sinfonia con un leitmotiv che parte all’improvviso da un pianoforte, e che riceve variazioni da venti e violini. Dall’unione di tutto questo prende vita la sinfonia. Il leitmotiv de Alla ricerca del tempo perduto è la gelosia. E non so se in forma diretta o indiretta, ma quello di Niente miracoli a ottobre è il potere. Il potere che si manifesta in Don Manuel, e nel suo desiderio di dominare tutto, di avere ogni cosa a sua disposizione, comprese le relazioni omosessuali. La figlia di Don Lucho con l’altro. E la diversa relazione tra il Professore e Miguel, che è una controparte del rapporto tra Don Manuel e Tito. Così, in un certo modo, ho voluto creare anche io una specie di sinfonia – non è certo una cosa che mi sono proposto mentre scrivevo; me ne sono reso conto solo a posteriori – proprio grazie alla forte influenza che ho ricevuto dalla lettura di Proust.

Quindi, seguendo quest’ottica, l’omosessualità di Don Manuel non va considerata come un elemento casuale?

Ovvio, è la dominazione dell’uomo. Si è parlato spesso di «romanzo omofobo». Ma non credo lo sia, perché è uno dei potenti a essere omosessuale. E ci sono altri omosessuali che, non essendo potenti, esulano da questa linea omofoba.

Al tempo della sua prima pubblicazione il romanzo venne considerato scandaloso?

Ancora prima, fu la pubblicazione del mio libro Gli innocenti a suscitare scandalo, perché si diceva non potesse essere ritenuto letteratura. Sostenevano che la letteratura dovesse adottare un linguaggio standard, seguire certi schemi. E che nei miei racconti avevo inserito volgarità, forme in contrasto con quelle della buona letteratura. Un’altra critica venne mossa al fatto che avevo brutalmente inserito delle scene di sesso (presenti anche in Niente miracoli a ottobre). Era un’epoca di grandi restrizioni, ricordo che alle elementari e alle medie le lezioni si fermavano all’ombelico e riprendevano dalle ginocchia [Ride]. Questo causò una grande indignazione generale. Ricordo che in un programma televisivo un giornalista mi disse «Com’è possibile che un professore come lei, che dovrebbe dare il buon esempio, abbia scritto questi due libri così pieni di volgarità?» Io risposi che non ci vedevo alcuna volgarità. Replicò dicendo: «Lei è un bugiardo, chiunque dovesse leggere il suo libro ci troverebbe pure volgarità. Ho il suo romanzo con me, ma non lo leggerò per rispetto dei telespettatori. E, ad ogni modo, cosa può essere considerato volgare secondo il suo metro di giudizio?» Per farla semplice: in letteratura non esistono parole volgari. Esistono parole utilizzate bene, e parole utilizzate male. Perché la letteratura è l’arte della parola. «Allora cos’è la volgarità secondo lei?» Per me è la giustizia sulla bocca di un giudice disonesto a essere volgare. La parola «Dio» sulle labbra di un prete peccatore che fa del male alla gente. La parola «Patria» pronunciata da un militare che ruba al proprio paese, questo è volgare. Ma quando un ragazzo di un quartiere povero incontra un suo amico che gli dà una botta, e lui gli si gira dicendo «Ma che vuoi, testa di cazzo?», questa non è volgarità perché quell’espressione proviene dalla parte più profonda del suo spirito. Ecco il mio concetto di volgarità. E il programma venne interrotto. [Ride.]

Poco fa ha parlato del fatto che nel suo romanzo c’è molto sesso…

[Interrompe] Però non si tratta di sesso esplicito, è un’insinuazione. Perché oggi la situazione è diventata grottesca. Mentre quella del romanzo è un’insinuazione sessuale.

È il primo rapporto di Bety.

Niente di più. Non si descrivono scene sessuali. E credo che questo abbia un impatto ancora maggiore. Ecco il perché delle proteste da parte della società peruviana.

Dov’è l’amore in questa storia?

C’è della simpatia. Tra Miguel e il Professore.

C’è un momento in cui il narratore parla con il lettore. Gli dice «Non hai mai posseduto niente, la Chiesa ti usa, i militari ti usano…»

Questo venne considerato da molti critici come un elemento deprezzante per il mio lavoro, in relazione agli schemi esistenti di romanzo. Io risposi che non ero d’accordo, e che l’avevo scritto perché sentivo di doverlo fare. E oggi il romanzo moderno ha rotto tutti quegli schemi. Nell’ultimo racconto del mio libro Gli innocenti, l’autore si rivolge a uno dei personaggi. L’autore: colui che sta scrivendo il libro parla con uno dei personaggi.

Dopo l’edizione del ’65 ha mai più riletto il suo romanzo? L’ha corretto?

Mai, neanche una parola. Non mi interessava farlo, perché ormai era andata. Una volta pubblicato non ha più senso. Apportare modifiche e tirarne fuori un altro libro mi sembra scorretto nei confronti del lettore. E di questo libro esistono varie edizioni – di cui ho perso il conto, tra ufficiali e non – e oggi è entrato a far parte dei programmi didattici di licei e università. Lo stesso vale per Gli innocenti. Mi invitano spesso a parlare con gli studenti. Sono incontri molto interessanti. Una volta, in un liceo, c’erano il rettore, il vice rettore, i professori e all’incirca 300 alunni – tutti uomini, non c’era neanche una donna – un ragazzo si è alzato e mi ha detto «Professore, ne Gli innocenti, uno dei suoi personaggi si masturba nel parco».

In Niente miracoli… uno si masturba a scuola.

Esattamente. Il ragazzo mi chiede: «Secondo lei la masturbazione è giusta o sbagliata?» Silenzio totale. Il rettore s’impietrisce, e i professori dietro di lui. È stato allora che ho risposto: «Quando avevo la vostra età mi dissero che se mi fossi masturbato mi sarebbero spuntati peli sulle mani, e che la masturbazione portava alla pazzia. I preti, poi, dicevano che chi si masturbava era destinato all’inferno. Voi credete all’inferno?», seguì un «No» generale. E a quel punto ho detto «La masturbazione è sbagliata quando se ne abusa, altrimenti è un modo di conoscere il proprio corpo, un mezzo di soddisfazione personale per chi, come voi che siete ancora molto giovani, non ha la possibilità di avere un contatto sessuale diretto; è un modo di soddisfarsi». Il rettore si gelò, e abbandonò la sala. Gli studenti applaudirono violentemente. Mi scortarono fino alla porta dell’istituto e mi salutarono con altri applausi. Volevano accompagnarmi a casa, ma si limitarono a farmi recapitare un messaggio.

Come ha vissuto la Rivoluzione cubana?

Mi sembrava una grande rivoluzione.

La pensa ancora così?

Non sono molto informato, ma se ha resistito tutti questi anni… Io però non sono mai stato un tipo da turismo politico, per questo non sono mai stato a Cuba.

In compenso è stato in Cina.

Non sono stato in Cina come turista, ma per lavorare quando avevo perso la possibilità di farlo in Perù. E la Cina mi ha offerto un lavoro. Non ho mai avuto simpatie politiche, non mi sono mai iscritto a nessun partito. Per come la vedo io, un partito politico ha piani e obiettivi, e uno scrittore non può asservirsi a questo genere di cose. Ciò non significa che non abbia un’ideologia di sinistra. Ma l’ho sempre vista così: quando Stalin propone una riforma, Neruda gli dedica un’ode, passano tre anni, la riforma fallisce, e la poesia di Neruda diventa carta straccia.

Cosa ne pensa di Mariátegui?

Ah! Al momento Mariátegui è sulla bocca di tutti, da destra a sinistra. Diceva: «La rivoluzione in America non può essere calco, deve essere creazione». E a proposito della letteratura ha espresso un’opinione molto interessante: affermava la necessità di fare una distinzione tra cosmopolitismo e universalità. Ci sono scrittori cosmopoliti che seguono le regole, gli schemi dei centri culturali, che siano questi europei o nordamericani. Gli autori universali sono quelli che mettono in pratica la lezione di Čechov: concentrati sul tuo paese e parlerai dell’universo. Uno scrittore deve essere in grado di penetrare in ciò che accomuna tutti gli esseri umani, da qualunque parte del mondo provengano. E questo Mariátegui lo sapeva bene.

In Argentina c’è un dibattito molto acceso che riguarda i mezzi di comunicazione. Il governo nazionale sta spingendo una nuova legge di radiodiffusione, che da molti media è stata vista come un tentativo di soppressione della libertà di stampa. Nel romanzo, c’è un controllo molto forte di Don Manuel sulla stampa. In che misura il Potere ha bisogno dei Media?

Qualcuno ha detto che in realtà non esiste la stampa libera ma solo la libera impresa. Perché ogni giornale obbedisce agli interessi di un’impresa più grande. Se si guarda bene, dietro a quelli che lavorano in un grande giornale è possibile individuare dei gruppi di potere, gli stessi che, in ultima istanza, controllano e impongono l’autocensura ai giornalisti, poiché conoscono la linea da seguire. Di conseguenza, quanta più libertà hai quando scrivi, tanto più forte è la certezza che non verrai pubblicato o trasmesso dai mezzi di comunicazione. E accadrebbe la stessa cosa qualora i Media passassero nelle mani dello Stato. Insomma, siamo fottuti. La società moderna è gestita dai Media. Per farla breve: quello che vogliono i gruppi di potere, che siano questi governativi o privati, è manipolarci.