Irving

Cominciare dalla fine: intervista a John Irving

Susan Taylor Chehak BIGSUR, Interviste, Scrittura

Susan Taylor Chehak ha intervistato John Irving in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, Avenue of Mysteries. La conversazione è apparsa originariamente su Guernica; ringraziamo l’autrice.

di Susan Taylor Chehak
traduzione di Fabio Zantomio

Cominciai a leggere John Irving nell’estate del 1974. Avevo ventitré anni e in quel momento ero con tutta probabilità la studentessa più giovane del Writers’ Workshop dell’Università dell’Iowa. Era l’inizio del semestre autunnale e stavo acquistando i libri per le lezioni quando mi imbattei in un’edizione tascabile del suo secondo romanzo, La cura dell’acqua pura. Pensai che dovevo leggerlo, dato che nei mesi successivi avrei lavorato con l’autore. Lo lessi tutto senza fermarmi, praticamente in un’unica volta. Era spassoso ma con un lato cupo e brillantemente tragico, e capii che volevo che fosse lui a insegnarmi a scrivere romanzi.
E così, John divenne il mio mentore nel periodo che trascorsi al Workshop. Mi piaceva perché era giovane, era divertente, ed era gentile. Ma soprattutto, era un narratore, il che rendeva le sue lezioni piacevoli e coinvolgenti quasi quanto i suoi romanzi. Ci insegnò qualcosa sulla scrittura? No, non direi. Nella sua autobiografia, The Imaginary Girlfriend, arriva ad ammettere: «Non ho “insegnato” a Ron Hansen o Stephen Wright o T. Coraghessan Boyle o Susan Taylor Chehak o Allan Gurganus o Gail Harper o Kent Haruf o Robert Chibka o Douglas Unger a scrivere, ma spero di averli incoraggiati e di avergli fatto risparmiare un po’ di tempo».
Avenue of Mysteries, il nuovo romanzo di Irving su due «ragazzini di discarica» messicani – il lettore diventato scrittore Juan Diego e la sua sorella sensitiva Lupe – è pieno di passaggi allusivi e autoreferenziali che somigliano a omaggi per i lettori fedeli. Leoni, appendici maciullate, strane parlate, scrittori e medici, vergini e gesuiti, circhi e orfanotrofi, cani e nani, l’Iowa, anguille, e così via – tutti i temi abituali. Persino l’attività dello stesso Irving è rispecchiata in Juan Diego, un narratore al pari del suo ideatore.
Irving – i cui libri includono Il mondo secondo Garp, Le regole della casa del sidro e Preghiera per un amico – è uno dei rari autori le cui opere sono ammirate dagli scrittori, acclamate dai critici, e amate dai lettori. L’ultima, Avenue of Mysteries, è uscita lo scorso novembre. (Susan Taylor Chehak per Guernica)

Susan Taylor Chehak: Di solito venivo ai nostri incontri all’università munita di una tazza di caffè, un pacchetto di sigarette e un piccolo portacenere rosso, poi mi rilassavo e ti ascoltavo raccontare storie. Non ricordo che tu abbia mai davvero parlato di come si scrive un romanzo o un racconto, o che ci abbia insegnato qualcosa di specifico sul mestiere e la tecnica.

John Irving: Ho un metodo a cui, in una certa misura, come scrittore, sembro sempre attenermi, ma di certo non ho mai imposto ai miei studenti il modo in cui io scrivo i romanzi. Quando insegnavo, non ho mai detto agli studenti «Non iniziate mai a scrivere un romanzo finché non avete l’ultima frase». Non l’ho mai fatto, e non lo farei adesso, ma adesso le persone sembrano così interessate al processo [della scrittura] che quando descrivo il mio devo chiarire in continuazione che non sto imponendo una norma. Non sto facendo proseliti.

Susan Taylor Chehak: Usi ancora la macchina da scrivere?

John Irving: Non scrivo a macchina. Scrivo solo a mano. Ho sempre fatto le prime stesure a mano e poi una volta arrivato alla seconda o terza stesura scrivevo degli inserti a macchina. Ma ho buttato tutte le mie macchine da scrivere circa tre o quattro romanzi fa e adesso faccio tutto a mano. Scrivo a mano perché mi fa andare piano e andare piano è ciò che mi piace.

Susan Taylor Chehak: Ho letto Avenue of Mysteries lentamente, credo perché volevo restare con lui. Ma dopo che l’ho finito, è stato lui a restare con me. Altre persone hanno detto questo dei tuoi libri, e forse il motivo è in una frase che dice Juan Diego: «A volte la storia inizia dall’epilogo».

John Irving: Mentre scrivevo i primi tre o quattro libri trovavo piuttosto curioso il fatto che sembravo sapere di più sui finali dei miei romanzi che non su come iniziavano. Per non parlare del fatto che gli incipit erano molto più facili da modificare. Per me è sempre stato molto più facile essere flessibile su come comincia una storia che non cambiare idea su come e dove farla finire.
Il finale sembrava assoluto eppure credevo che un giorno avrei cominciato un romanzo dall’inizio come fanno tanti altri scrittori, compresi molti miei amici. Ma l’idea di scrivere un romanzo e non sapere dove sta andando – questo non lo so fare. I romanzi sono guidati dalla trama e dai personaggi, quindi se non so cosa succede ai personaggi, come faccio a sapere come dovrebbe iniziare? Dopo tre o quattro volte, ho accettato il fatto che il libro funziona meglio se so tutto quello che posso sul finale. Non solo cosa succede, ma anche come succede e qual è il linguaggio; non solo l’ultima frase, ma le frasi che stanno intorno a quell’ultima frase, in modo da sapere qual è il tono di voce. Me lo figuravo come un qualcosa di quasi musicale. In quel caso stai scrivendo verso qualcosa, perché sai qual è il suono della tua voce alla fine della storia: fino a che punto è allegra o meno, fino a che punto è malinconica o meno. Sai di cosa parlo.

Susan Taylor Chehak: E se il finale non ce l’hai, stai ad aspettare che arrivi?

John Irving: Ci sono libri che ho lasciato in stand-by per molti anni, come carri merci in una stazione sganciati dalla locomotiva; continuavo a prendere appunti, ma non li iniziavo. Sapevo molte cose su di loro. Sapevo molto sui personaggi. Sapevo molto sulla storia. L’ambientazione. Avevo tutti quegli appunti che si accumulavano, ma se non avevo un finale, non pensavo mai che fosse il momento di cominciare quel romanzo. E così a volte, anzi praticamente sempre, quando finivo un libro c’erano sempre altri romanzi, anche due o tre, che aspettavano di essere scritti. E la decisione su quale scrivere non è mai stata basata su quanto aveva aspettato o quante pagine di appunti avevo accumulato.

Susan Taylor Chehak: Per Juan Diego scrivere un romanzo è come tenersi a galla o nuotare a cagnolino. «Sembra che stai andando lontano, perché è un duro lavoro, ma in pratica percorri strade già battute – frequenti territori familiari».

John Irving: Sì. A dire il vero, per la prima volta, mentre scrivevo Avenue of Mysteries ne ho lasciato perdere uno. Perché mi sono reso conto che era un romanzo che avevo tenuto da parte per troppo tempo e non lo sentivo più nelle mie corde. Così l’ho dato a Juan Diego. Ne ho fatto il romanzo che non sarebbe mai riuscito a finire. Ma se sembrava plausibile che Juan Diego scrivesse quel romanzo [One Chance to Leave Lithuania], be’, è un romanzo che ha aspettato che io lo scrivessi per molto tempo.
Mi sono reso conto, più o meno nel periodo in cui ho cominciato Avenue of Mysteries, che One Chance to Leave Lithuania era un libro che avrei dovuto scrivere dieci o quindici anni fa, se proprio dovevo farlo. Che non avevo voglia di passare un altro paio di mesi invernali a Vilnius, in Lituania. Non avevo più voglia di orfanotrofi. Perché una cosa che ho imparato quando mi documentavo sugli orfanotrofi, anni e anni fa quando ancora non stavo scrivendo Le regole della casa del sidro, ma prendendo appunti e riflettendoci, è questa: il difficile di visitare gli orfanotrofi è quando ci torni la seconda volta. Quando ci vai la prima volta, non ti guarda nessuno. Cioè, i bambini non fanno caso a te. Ma se ti vedono due volte, allora pensano che potresti essere lì per loro. Ed è dura. Trovarti all’improvviso una manina nella tua, che dice: «Prendi me. Sono quello giusto. Prendi me».
Ho pensato: La sai una cosa? Non ci vado più a Vilnius a febbraio. Non vado più in nessun orfanotrofio. Basta. Ho chiuso.

Susan Taylor Chehak: Quanto hai dovuto aspettare per trovare il finale adatto?

John Irving: Twisted River ha aspettato vent’anni prima che cominciassi a scriverlo, perché avevo dei dubbi sul finale. Avevo tutto il resto, ma non avevo il finale, e di conseguenza non ero pronto a dire: «Il primo capitolo inizia qui, perché è qui che deve iniziare, sapendo dove finisce». Non sono abbastanza intelligente per poter prevedere una cosa se non so cos’è.

Susan Taylor Chehak: Vent’anni?

John Irving: La gente rimane abbastanza scioccata quando dico che Twisted River è stato fermo per tutto quel tempo e che poi sono passati altri tre anni. Ma stavo scrivendo una sceneggiatura una volta, più di venticinque anni fa. Era ambientata in India, su dei bambini che fanno numeri ad alto rischio in un circo. Non è mai stata realizzata. L’ho messa via. Ho spostato la storia in Messico. Ho ambientato lì la sceneggiatura. Ma non ho visitato le Filippine fino al 2010, esattamente quando ci va Juan Diego. E quando sono andato nelle Filippine avevo già una lista di cose che Juan Diego pensava che avrebbe visto, diverse da quelle che io sapevo che avrebbe visto.

Susan Taylor Chehak: La sorella di Juan Diego, Lupe, ha tredici anni e riesce a prevedere il futuro – almeno il proprio, e forse anche quello del fratello. Hai affermato: «Sono attratto dai personaggi che prevedono il futuro, o che pensano di prevederlo». Che è quello che succede a te, visto che, come dici, sai cosa succederà alla fine.

John Irving: Be’, non è la prima volta che trasferisco a uno dei miei personaggi un po’ di quello che so – che do a un mio personaggio una specie di discutibile dono, cioè il poter prevedere un pezzo di futuro, o essere convinto di poterlo fare. Owen Meany era così. Lilly in Hotel New Hampshire era così. Si butta da una finestra per questo motivo. Non è necessariamente una cosa positiva, il sapere. Può essere un peso, e più sei giovane e ti senti isolato, più è un peso, forse.

Susan Taylor Chehak: Il futuro è un mistero per il resto delle persone. Anche la fede è un mistero?

John Irving: Mi sono sempre interessati i prodigi, o il prodigioso ciò che non si può spiegare. Non rido di quello che spinge le persone a credere o a voler credere. Credo di capire l’enorme attrazione dei misteri della chiesa proprio come capisco e apprezzo la frustrazione che provano le persone, specialmente i credenti, per il braccio umano legiferante della chiesa, per la parte non miracolosa della chiesa – di qualsiasi chiesa. Penso di credere in quello che dice l’anziano capo della discarica Rivera [in Avenue of Mysteries] nel tempio ai due vecchi preti, indicando la statua [della Vergine Maria], che gli ha mostrato le proprie lacrime: «Non sono venuto per voi – ma per lei». Lo capisco.
Penso che questo romanzo sia in un certo senso dalla parte del misterioso e del prodigioso e allo stesso tempo getti uno sguardo scettico su quei portavoce della chiesa che ci dicono come dovremmo comportarci e pretendono di spiegarci il significato di tutto. All’inizio, Lupe prende in giro Rivera perché adora la Madonna, mentre lei ha dei dubbi sulla Madonna. Ma alla fine è la Madonna ad avere l’ultima parola. E se Juan Diego non fosse un po’ credente – scettico, ma credente – per me non funzionerebbe, perché nel momento in cui la statua della Vergine piange, nessuno fa la figura del coglione quanto l’ateo.

Susan Taylor Chehak: Quando uscì Preghiera per un amico, tu dicesti: «Mi sono sempre chiesto quanto dovrebbe essere grande un miracolo per convincermi della fede religiosa». Non è la domanda che pone anche Avenue of Mysteries?

John Irving: Ho sempre pensato che gli atei e i veri credenti che propagandano il proprio credo ad altre persone hanno molto in comune, molto più in comune di quanto sono disposti ad ammettere. Entrambi pretendono di sapere qualcosa che nessuno di loro può sapere. Non sono morti e tornati sulla terra a dirci cosa c’è dopo. Possono essere chi cazzo vogliono, ma non l’hanno fatto.

Susan Taylor Chehak: In Avenue of Mysteries citi Jeanette Winterson, dal suo libro Passione: «La religione è da qualche parte fra la paura e il sesso».

John Irving: Quella frase avrebbe potuto essere l’epigrafe per questo romanzo. Ma mi piaceva così tanto quella di Shakespeare che non potevo non metterla, e così ho tirato a sorte. Adoro quel libro, Passione. È il mio romanzo preferito della Winterson. Adoro quella frase e il mio romanzo parla di sesso e di paura, ma è anche un romanzo, come dice la battuta della Dodicesima notte, su come i viaggi finiscano con gli amanti che si incontrano. Non potevo lasciarla fuori. E poi la frase della paura e del sesso sembrava rivelare un po’ troppo.
Quello che la Winterson non dice in quella frase è un altro tema di Passione, cioè che la religione è molto divertente, fino a un certo punto. È molto divertente finché all’improvviso non diventa molto malinconica e cupa.

Susan Taylor Chehak: E il mistero più grande di tutti è la morte?

John Irving: Certo. Credo che tutti tranne Juan Diego sappiano che è lì che è diretto. Il lettore di sicuro lo sa. Nel primo capitolo si legge che ha un problema al cuore e non sempre prende le medicine quando dovrebbe. E sono sicuro che a molti non è sfuggito che quelle due donne tutte vestite di nero, quelle donne a lutto che vediamo per la prima volta quando Rivera porta Juan Diego nel tempio poco dopo che gli hanno investito un piede, non se ne sono mai andate. Si occupano ancora di lui, che lui se ne renda conto o no.

Susan Taylor Chehak: Quando nel romanzo lo incontriamo per la prima volta, il personaggio Edward Bonshaw si dedica regolarmente all’autoflagellazione. È vero che una volta hai visto un uomo far questo a una proiezione dell’Ultima tentazione di Cristo?

John Irving: Sì! Con una cintura! Si frustava con una cintura. Ci penso ancora. È stato un grande momento. E sono rimasto molto deluso quando quelli del teatro sono venuti e gli hanno detto di andarsene. Ho pensato: Cristo, non fatelo andar via! Insomma, sta migliorando l’esperienza di tutti quelli che sono qui.

Susan Taylor Chehak: Divertente fino a un certo punto?

John Irving: Esatto.

Susan Taylor Chehak: Che progetti hai per il futuro?

John Irving: Sto scrivendo un adattamento del Mondo secondo Garp per una miniserie della HBO.

Susan Taylor Chehak: Ti influenza il fatto che ne è già stato tratto un film di successo?

John Irving: Mi avrebbe influenzato, se fosse stato il film che io avrei scritto o che avrei sperato di vedere. Parlai con il regista George Roy Hill tanti anni fa quando mi chiese di scrivere la sceneggiatura e gli dissi: «Non credo che tu veda in questo romanzo lo stesso film che ci vedo io», ma eravamo amici e siamo restati amici finché lui è morto. Non so se saremmo restati amici se io fossi stato il suo sceneggiatore.

Susan Taylor Chehak: Cosa ti attira a scrivere per la televisione?

John Irving: Il senso di strutturare [una storia] in episodi e dare un titolo a ognuno di questi episodi, come faccio io. Lo trovo interessante. Anche l’elemento [di preveggenza] di cui parlo in Avenue of Mysteries… voglio dire, uno sceneggiato televisivo che viene trasmesso in cinque o sei episodi ti permette di mostrare il tipo di premonizione che amo inserire nei romanzi. Puoi fare flashforward a momenti o scene che non hai ancora incontrato – e farlo «in tempo reale», come si suol dire – e al tempo stesso puoi sempre fare flashback. In un trattamento a episodi, qual è uno sceneggiato, hai la possibilità di fare quello che puoi fare in un romanzo, cioè fare flashback e flashforward nello stesso istante, nella stessa scena, nella stessa voce.
Per non parlare del fatto che hai un’opportunità nella sequenza d’apertura dei titoli di testa. Per cinque episodi puoi usare quella sequenza per far vedere agli spettatori un mix interessante di quello che hanno già visto e a cui hanno un rimando e quello che non hanno mai visto prima. Gli dici: «Questo lo vedrete, anche se non l’avete ancora visto; questo l’avete già visto, ve lo ricordate, no? Oh, scusate, questo non l’avete ancora visto, ma lo vedrete».

Susan Taylor Chehak: Ma questo non si può fare in un romanzo, no?

John Irving: Oh, ma certo che si può. Io lo faccio nel nuovo romanzo. Scrivo spesso storie su binari paralleli. Buona parte di Twisted River l’ho scritta così, ma anche in questo caso è stato molto facile. Ad esempio, per prima ho scritto la storia di Lupe e Juan Diego – quello che gli succede quando Juan Diego ha quattordici anni e Lupe tredici. Solo questa storia, dal momento in cui Brother Pepe scopre i Ragazzi della Discarica, di cui una è telepatica e l’altro ha imparato a leggere da solo. Questo è l’inizio.
L’ho scritta come sceneggiatura. Molte stesure. E l’ho letta e ci ho pensato e ripensato. Mi sono detto: Va bene, è un film, ma non trattarlo come se lo fosse. Piuttosto, pensa a cosa succede se incontriamo Juan Diego trenta, quarant’anni dopo, cosa starebbe facendo? Cosa succede se e quando mantiene la promessa al Buon Gringo di andare alle Filippine a rendere omaggio al defunto padre del Gringo se il Gringo non ce la fa? Come sarà quel viaggio?
E così ho avuto l’idea di un romanzo da raccontare interamente su quei binari paralleli. Un pezzo di Juan Diego che parte per le Filippine. Un uomo anziano che zoppica e dimostra dieci anni in più di quelli che ha.
E naturalmente sapevo che la ragione per cui Juan Diego pensava di andare nelle Filippine non era la stessa ragione per cui io volevo che ci andasse, perché avevo già deciso di infilarci quelle due donne tutte vestite di nero che lui ha visto di sfuggita per la prima volta appena dopo che gli avevano schiacciato il piede. Sapevo che sarebbero andate anche loro. E sapevo che lui non sarebbe mai arrivato in quel cimitero per rendere omaggio al padre del Gringo, che aveva un altro destino in un altro posto ancora dove per trecento anni ci sono stati gli spagnoli e hanno portato con sé la chiesa.
Quindi i flashback, i flashforward, si possono fare. Questo romanzo somiglia molto a un film, anche se se mai diventerà un film l’unica parte a essere girata sarà la parte messicana. Soltanto quella.

Susan Taylor Chehak: Clark French, il vecchio studente di Juan Diego, cerca di convincere il suo insegnante a prendere posizione nel dibattito tra autobiografia e immaginazione nella narrativa: «Usare l’autobiografia come base per la finzione genera idiozie. Usare l’immaginazione è far finta». Clark insiste che Juan Diego è «dalla parte dell’immaginazione». Che è «un favolista, non un memorialista».

John Irving: Clark è un idiota, però su alcune cose ha ragione. E penso che su questo abbia ragione. È un bullo e un arruffapopoli, ma è anche uno per cui provo un certo affetto come personaggio. E poi, ho sempre pensato che potrebbe andarti peggio che morire in compagnia di un vecchio studente fedele. E la penso come Clark in merito a Shakespeare, senza dubbio. Tutti gli idioti senza fantasia nel mondo convinti che Shakespeare non avrebbe potuto scrivere come Shakespeare perché da quanto sappiamo dello Shakespeare di Stratford è impossibile che un uomo tale avesse l’esperienza per immaginare cose del genere… be’, sono d’accordo con Clark che questo nega ciò che davvero rende Shakespeare diverso da quasi tutti gli altri scrittori del mondo: un’immaginazione che è indiscutibile e senza freni.
Se hai fantasia – cosa che Mark Twain non aveva, che Henry James non aveva, che neanche Sigmund Freud aveva, cazzo – puoi immaginare situazioni in cui non sei mai stato e metterti nei panni di personaggi con cui non hai avuto nessun contatto personale.

Susan Taylor Chehak: Verso la fine di Avenue of Mysteries, Juan Diego si sveglia e scopre «qualcosa che sembrava un titolo – nella sua calligrafia – in un quaderno sul comodino. Le ultime cose, aveva scritto sul quaderno». Juan Diego è uno scrittore maturo, come te. Cos’è cambiato per te negli anni da quando hai iniziato a scrivere romanzi?

John Irving: Se c’è una cosa che è cambiata nel processo che mi ha portato a questo romanzo, il mio quattordicesimo, è che sono sempre stato lento ma adesso lo sono ancora di più. Tendo più ad aspettare, o forse sono più paziente quando si tratta di aspettare. E uno dei motivi per cui continuavo a cambiare idea e con un po’ di riluttanza ho accettato di scrivere questa miniserie per la HBO è che, se non avessi accettato, avevo paura che avrei cominciato troppo presto una delle cose che sto pensando di cominciare. Perché non so con la certezza che ho di solito quale di questi due romanzi ben sviluppati che sto considerando è il prossimo che dovrei fare. Ho pensato: Ah, va bene, non sarebbe male avere qualcos’altro che mi aspetta.
E questo processo, parlare con te, dover parlare con la gente nei prossimi mesi senza mai fermarmi – un tour di presentazione negli Stati Uniti, un tour in Canada, uno in Norvegia, uno nei Paesi Bassi, uno in Francia, Spagna e Germania, probabilmente una fiera a Guadalajara o Oaxaca… Cristo santo. Mi sono detto: «Non posso scrivere un romanzo». Mi sono detto: «Non voglio nemmeno provarci a scrivere un romanzo. Cazzo, non riesco neanche a trovare il tempo per scrivere una sceneggiatura su una cosa che ho scritto quarant’anni fa e che conosco a memoria».
In parte è che perdo la pazienza e mi infastidisco più facilmente di una volta quando ci sono cose che non voglio fare. E in parte è colpa mia che sto invecchiando, e in parte è anche colpa degli editori che sono molto più disperati e superficiali di una volta, per motivi comprensibili: il loro mercato è in evoluzione o in pericolo o entrambe le cose e non sanno bene cosa fare, ma vogliono che i loro autori facciano di più. Non gliene frega un cazzo se rischio di non scrivere il mio prossimo libro o il libro dopo ancora: secondo loro devo continuare a parlare di una cosa che mi sono già lasciato alle spalle. Se parlare all’infinito di un libro che ho già scritto gli è utile, mi chiederanno di farlo ogni volta. Non c’è limite al numero di volte che mi chiederanno di farlo.

Susan Taylor Chehak: Non puoi dire di no?

John Irving: Come fai a dire di no? Non puoi avere entrambe le cose. Non puoi dire di no e non aiutarli e poi alzare il telefono e lagnarti perché di questo libro hanno venduto meno copie che di quello prima. Non è che io non mi renda conto della situazione di estrema difficoltà in cui versano. La gente non legge romanzi come li leggeva una volta e i romanzi che leggono, la maggior parte, sono cagate.

Susan Taylor Chehak: Hai ceduto One Chance to Leave Lithuania a Juan Diego invece di scriverlo tu. Non hai dato anche a Garp delle cose che avevi scritto?

John Irving: Sì, ma è un po’ complicato, perché è solo a causa dell’ordine di pubblicazione che pensi alle cose che ho dato a Garp come cose che avevo scritto precedentemente. Ma quelle cose le avevo scritte appositamente per Garp. In altre parole, scrissi «La pensione Grillparzer» come un racconto che Garp avrebbe potuto scrivere sugli anni passati a Vienna, e che avrebbe dimostrato che era un vero scrittore. Altrimenti non avrei messo in quella storia lo stesso impegno che ci ho messo, perché non avevo molto interesse per i racconti, né scriverli né leggerli, e non ce l’ho neanche adesso.

Susan Taylor Chehak: Anche Juan Diego è un romanziere, da questo punto di vista. «Riusciva a concentrarsi a lungo termine; non era mai stato granché come scrittore di racconti».

John Irving: Be’, avendo appena detto quello che ho detto sui racconti, devo fare delle eccezioni. Adoro i racconti di Alice Munro. Adoro i racconti del tuo vecchio compagno di corso Tom [T.C.] Boyle. E adoro i racconti di Stephen King. Ora che ci penso, nella sua nuova raccolta c’è un racconto che è dedicato a me. È un racconto che prepara tutto quello che il lettore dovrebbe aspettarsi e siccome è tutto previsto in modo così dettagliato, pensi: Ah certo, lo so cosa sta per succedere. Ma lui è bravissimo a far sembrare sempre più importanti le cose che lascia presagire; le premonizioni continuano ad accumularsi. Pensi: È su questo che devo mantenere l’attenzione, e ti dimentichi della cosa innocente ma che non sembra poi così innocente da cui sei stato messo in guardia. E sono sicuro che ogni lettore, come me, semplicemente si dimenticherà dell’unica cosa che dovrebbe ricordarsi. Ho letto il racconto pensando: Perché è dedicato a me? Cosa sta facendo? Il racconto mi stava piacendo, ma continuavo a pensare: Perché proprio questo racconto? D’accordo, non è male, ma cosa c’entro io? E poi, all’improvviso, mi ha fregato e mi è sfuggita una cosa che avrei dovuto avere in cima alla lista delle cose da ricordarmi. Subito dopo ho pensato: Oh cazzo, è ovvio. Come ho fatto a non accorgermene?

© Susan Taylor Chehak, 2015. Tutti i diritti riservati.

Susan Taylor Chehak si è diplomata al Writers’ Workshop dell’Università dell’Iowa ed è autrice di numerosi romanzi, tra cui The Great Disappointment, Smithereens, The Story of Annie D., e Harmony. Le sue pubblicazioni più recenti includono una raccolta di racconti, It’s Not About the Dog; un nuovo romanzo, The Minor Apocalypse of Meena Krejci; e il saggio What Happened to Paula: The Anatomy of a True Crime.

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