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Corpi bianchi, facce nere: intervista a Jess Row

Pubblichiamo un’intervista a Jess Row, autore del romanzo Your Face in Mine [1]. L’intervista è apparsa originariamente sul New Inquiry [2]; ringraziamo l’autore.

di Yahdon Israel
traduzione di Giuliano Velli

Quando è scoppiato il caso Rachel Dolezal, mi sono ritrovato a pensare alla prima frase di The White Album di Joan Didion: «Noi ci raccontiamo delle storie per vivere». Come nazione, raccontarci la storia che Dolezal fosse l’ennesima bianca che cercava di essere nera era più facile che prendere in considerazione la più complessa possibilità che fosse una dei tanti bianchi che non vogliono più essere tali. Dico questo non per difendere Dolezal, ma per porre un interrogativo sull’essere bianchi, e domandare come mai tanti corpi bianchi – che una volta avrebbero rinunciato a tutto pur di conservare la propria condizione – adesso fanno tutto ciò che è in loro potere per rinunciarvi.
È esattamente su questo genere di interrogativo che si fonda il romanzo Your Face in Mine di Jess Row, nel quale Martin Likpin, un ebreo bianco, lascia la sua Baltimora per andare in Cina, dove si sottopone alla chirurgia di riassegnazione razziale, e ritorna da nero. A prima vista Row, anche lui bianco, sembra raccontare l’ennesima storia di un corpo bianco mascherato da nero, come nei minstrel show del secolo scorso. Ma quello che fa realmente è presentare questa messinscena come una tesi sull’esseri bianchi – e su come le storie che ci raccontiamo per vivere possono diventare una condanna a morte.
Sono riuscito a incontrare Jess all’Housing Works Bookstore Cafe di New York, dove, sopra il lieve brusio delle chitarre e dei bambini che cantavano «Baa Baa Black Sheep», abbiamo conversato per due ore sui motivi per cui gli era stato detto di non scrivere Your Face in Mine, di come i Sioux hanno contribuito a pagargli le rette universitarie, del perché suo padre temeva le armi, e di come possiamo riconciliare le circostanze delle nostre vite con le fantasie che ci concediamo di vivere.

Perché hai deciso di raccontare la storia di un bianco che sceglie di sottoporsi alla chirurgia di riassegnazione di razza?
Un momento decisivo è stato quando ho ascoltato un’intervista a James Baldwin. Ascoltavo quest’intervista del 1961, poco prima della pubblicazione di Un altro mondo, dove suggeriva che i bianchi pagano il tributo psicologico del razzismo quanto o più dei neri. Questo ha piantato nella mia coscienza artistica il seme della necessità di scrivere di razza direttamente, il bisogno di trovare un modo di affrontare l’argomento. Poi, nel 2008, mi sono imbattuto in un libro sulla storia della chirurgia plastica, Creating Beauty to Cure the Soul di Sander Gilman, che mi ha dato l’idea della chirurgia di riassegnazione razziale. Ho ascoltato l’intervista a Baldwin nel 1999, il mio libro è uscito nel 2014. Sono quindici anni! Ma fin dal principio, sapevo che sarebbe stato problematico.

Come reagivano le persone quando gli parlavi del progetto?
La mia agente di allora mi disse di non scriverlo. Fu laconica. Eravamo a cena e le dissi in modo semiserio: «Il mio prossimo libro sarà sulla chirurgia di riassegnazione di razza, su un bianco che si sottopone a un’operazione per diventare nero». Non ricordo le sue esatte parole, ma replicò con una variante della tipica risposta che ti danno i bianchi quando, parlando di razza, si mettono sulla difensiva: che non c’è nulla che un bianco possa dire in proposito senza mettersi nei guai. Mi disse: «Non scrivere questo libro. Ti procurerà dei problemi che è meglio non avere. Non aprire questo vaso di Pandora».

Quando hai scritto il libro la tua posizione era «Cercherò di scriverlo in modo da non mettermi nei guai» o «Mi procurerà dei guai in ogni caso, quindi lo scriverò senza preoccuparmene»?
Volevo scrivere più problematicamente che potessi. La differenza tra scrivere problematicamente e scrivere provocatoriamente è molto importante. Penso che sia una differenza cruciale per chiunque scrive di razza. È una distinzione che a molti scrittori bianchi sfugge. Quando scrivi problematicamente, scrivi delle tue debolezze. Sei disposto a prenderti il rischio di una brusca onestà emotiva, di essere riflessivo e onesto e aprirti.
Scrivere provocatoriamente è come scrivere da una posizione difensiva. Fondamentalmente affermi: «Dirò cose dannose e offensive, perché è l’unico tipo di onestà di cui sono capace». Capisci cosa intendo? Essere provocatorio equivale a creare uno scenario in cui non è il tuo corpo a essere messo in discussione. Ed è il contrario di quello che cercavo di fare. È per questo che nel romanzo ho voluto mettere in primo piano il corpo bianco. Invece di concentrarmi esclusivamente sul corpo nero, volevo rendere vulnerabile il corpo bianco di Martin.

Nel libro c’è questa citazione: «La casa dell’essere neri ha molte porte. Non tutti scelgono la stessa entrata». Hai una visione simile dell’essere bianchi, come di una casa con tante porte e differenti modi di accedervi?
L’ho rubata a Henry James, che nella prefazione di Ritratto di signora dice: «la casa della finzione narrativa ha tante finestre e tante porte». Volevo essere ironico. Quello a cui mi riferivo è che, sì, essere neri è una finzione, essere bianchi è una finzione. Quando viviamo in conformità con una di questa categorie, viviamo in una finzione. Naturalmente, è una finzione che ha conseguenze molto reali.
L’unico modo di approcciarsi onestamente alla questione dell’essere bianchi o neri è accettare che si tratta di categorie arbitrarie, concepite nel diciassettesimo e diciottesimo secolo al fine di giustificare l’imperialismo e la schiavitù. Categorie il cui scopo è l’imposizione del potere. Non erano state concepite per essere psicologicamente esaurienti come vorremmo che fossero.

Parlando con i bianchi, mi sono reso conto che una delle ragioni per cui molti di loro sono a disagio quando si parla di razza è che sono completamente inconsapevoli di essere bianchi. All’inizio pensavo facessero i finti tonti. Ma ho cominciato a capire che spesso non se ne rendono conto davvero. Anche tu prima hai detto che l’idea per questo libro ti è venuta nel 1999, ma che ci sono voluti quindici anni per scriverlo. Come si matura e accetta la coscienza di essere bianchi quando non è la realtà con cui si è cresciuti?
È vero. Sono cresciuto in un quartiere molto esclusivo di Washington. Entrambi i miei genitori lavoravano per il governo ed erano attivi nel movimento dei diritti civili. Facevano parte di una generazione di liberali che, nei primi anni del movimento, era stata molto idealista, e poi in seguito ai disordini per la morte di King – in particolar modo quelli di Washington, che avevano vissuto in prima persona – si disilluse profondamente.
Da bambino ho frequentato la National Cathedral Elementary School. Il cappellano della scuola era il vescovo della cattedrale. Si chiamava John Walker, ed era il secondo vescovo afroamericano della Chiesa Episcopale. Era cresciuto con Jesse Jackson e Martin Luther King. Era un amico intimo di Desmond Tutu. Era un’attivista e leader religioso nero nella tradizione di King. Da piccolo la mia unica vera esposizione al cristianesimo fu tramite lui.
Ma la mia infanzia la descriverei così: avevamo eroi neri ma nessun amico nero. Avevamo icone nere, ma la mia vita quotidiana era completamente bianca. Era un’educazione molto intellettuale ed elitaria. E questo negli anni Settanta e Ottanta, subito prima che iniziasse l’epoca di Reagan. È un’eredità molto complessa. Non è come essere cresciuti nel Sud. La segregazione era più una cosa de facto. Come molti miei coetanei, sono cresciuto con genitori idealisti che si consideravano molto antirazzisti, ma che inconsapevolmente mettevano in pratica un’apartheid geografico e psicologico.

Vorrei approfondire la questione, perché penso che il Sud sia oggetto di tante critiche per essere il luogo razzista per antonomasia. Ci pensavo dopo aver letto un libro come Al calore di soli lontani di Isabel Wilkerson e aver meglio compreso l’intimità del razzismo in quei luoghi, quanto la connessione tra le persone nel Sud era, ed è ancora, immediata e profonda. Non sarà che l’idea che il Sud sia più razzista è una storia che ci raccontiamo noi abitanti degli stati del Nord perché non ci piace affrontare la realtà che il Nord è segregato in un modo in cui il Sud non potrebbe mai essere?
Città come Washington, New York e Chicago sono roccaforti del liberalismo bianco e non ammetterebbero mai quanto sono segregate e razziste – e Boston forse più di tutti questi posti. Boston è davvero una città dove il razzismo e la segregazione sono profondi e mostruosi, ma è anche la culla del movimento abolizionista. E così al Nord c’è tutta questa reticenza e repressione e un maschilismo e un’arroganza storici che dividono profondamente l’esperienza dei bianchi e dei neri.

Quest’idea di un maschilismo e di un’arroganza storica dell’immaginazione bianca, c’entra con quello a cui abbiamo assistito con l’Oregon Militia?
Mi viene da pensare a mio padre, che veniva dal South Dakota. Il padre, mio nonno, era un soldato di lungo corso. Ma gran parte della sua educazione l’ha ricevuta nelle Black Hills dalla famiglia di mia madre, che vi si era stabilita ai tempi della corsa all’oro. La Battaglia del Little Bighorn di Custer fu combattuta vicino a dove è cresciuto lui. Il North e il South Dakota sono quanto di più vicino abbiamo mai avuto negli Stati Uniti all’apartheid sudafricano. Ancora adesso, le terre Sioux appartengono ai discendenti dei bianchi che vi si «stabilirono» negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento. Ogni volta che ci tornavo da bambino, i miei parenti avevano queste discussioni paranoiche su come il governo federale gli avrebbe tolto le Black Hills per restituirle ai Sioux. Era un argomento di conversazione ricorrente. Nella mia famiglia erano tutti armati fino ai denti. Avevano questa sensazione «Viviamo in una terra che non ci appartiene e ci facciamo rispettare perché siamo una popolazione rurale estremamente armata».

Un anno fa, un amico mi ha descritto il senso di colpa dei bianchi in un modo che non avevo mai sentito prima. Secondo lui la ragione per cui tanti bianchi soffrono del senso di colpa è la convinzione che se fossero stati loro schiavi dei neri o esiliati dai nativi americani, avrebbero ucciso neri e nativi americani già da tempo. E una componente del senso di colpa è una profonda diffidenza legata a questa sensazione. Quello che hai descritto sembra dire questo, che i bianchi sanno o sospettano di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Mio padre è morto da quasi tre anni, e una delle domande che mi pento di non avergli fatto è «Pensi di aver lasciato il South Dakota perché ne avevi abbastanza del razzismo e di avere l’impressione di vivere in un avamposto coloniale? Un posto in cui nella psiche delle persone veniva ancora combattuta la Battaglia del Litte Bighorn di Custer?» Non sono mai riuscito a chiederglielo. E non so come avrebbe risposto. Ma secondo me è ovvio che se ne andò perché non era un razzista. Non odiava i nativi americani. Odiava le armi. Non ne avrebbe mai tollerato la presenza in casa.
Quando da bambino ero affascinato dalle armi, continuava a ripetermi una storia della sua infanzia su un amico del padre che si ubriacò e morì in un incidente di caccia. Si sparò con il suo fucile. Sicuramente è una cosa che capita. Ma quell’esperienza cambiò la vita di mio padre e ne fece un oppositore dichiarato del possesso di armi e di tutto quello che avesse a che fare con le armi.
Penso sia una delle ragioni principali per cui se ne andò. Ma, in un certo senso, andandosene ha cancellato un’intera parte della mia storia. Ha cancellato la violenza e il razzismo. Andavo qualche giorno in South Dakota e ascoltando le loro discussioni pensavo: «È un altro mondo. Un mondo con cui non ho nessun legame». E invece con quelle persone ho un legame diretto. Ho ereditato i loro soldi. I loro soldi mi hanno aiutato a pagare la mia istruzione universitaria. Quando si dice il capitale invisibile. Le azioni della miniera d’oro che era stata sottratta ai Sioux centocinquant’anni prima hanno contribuito a mandarmi al college.

Come ti riconcili con questo?
Non penso sia possibile. Una delle cose su cui riflettevo a proposito del senso di colpa dei bianchi è che comunemente tendiamo ad associare il senso di colpa con il peccato. E il peccato è sempre associato al perdono e all’assoluzione. Il peccato si può cancellare. È quello che ci racconta il cristianesimo.
Secondo me tutta la pratica di sentirsi colpevole, sentire di doversi pentire – o confessarsi e aspettarsi che chi ascolta la nostra confessione ci assolva – è una parte importante del problema. Preferisco pensare al senso di colpa dei bianchi come qualcosa che può confortare o redimere, come un percorso, ma non necessariamente riconciliare. Non puoi dire: «Con questo ho chiuso».
Come bianco ho la sensazione che la razza sia qualcosa che posso prendere, accettare e lasciare. In altre parole, che la razza sia un argomento in cui posso entrare, occuparmene e poi andare via. Ma ovviamente è una sciocchezza.

Il racconto nazionale su Rachel Dolezal si è concentrato principalmente sul fatto che voleva essere nera. L’idea che non voleva più essere bianca non è stata altrettanto approfondita. E anche se pensare così alla sua storia non cambia l’atto in sé, cambia il modo di indagarlo. Le domanda non era mai «Cosa ti repelle dell’essere bianco?» La domanda era sempre «Cosa ti attrae dell’essere nero?»
Questo è un interesse centrale che attraversa il mio lavoro. Quella dei privilegiati è una vita di fantasia. Se occupi una posizione privilegiata, gran parte della tua vita si concentra su scelte simboliche e autodefinizioni prive di conseguenze reali. Questo romanzo parla di qualcuno che non riesce più a vivere in un regno di scelte simboliche e decide di cambiarsi così da non dover più abitare il proprio corpo. Ma l’ironia in quello che succede a Martin in un corpo nero è che, per via della sua personalità, a causa del fatto che si trasferisce in un altro paese, finisce per ritrovarsi ancora davanti a tutte queste scelte simboliche. Si ritrova ancora in una posizione privilegiata. Si pone ancora in una posizione in cui è esente dalle conseguenze.
In un certo senso, il problema morale essenziale di abitare uno spazio privilegiato è riuscire a capire come uscire dalla fantasia in cui si vive. Anche quando cerchi di fare qualcosa di definitivo per uscire dalla fantasia, in un certo senso, è ancora una manifestazione della fantasia stessa; è ancora una manifestazione di scelta e esenzione dalle conseguenze.

Parliamo spesso degli immigrati europei che arrivarono qui, cambiarono cognome, e fecero innumerevoli altre cose per diventare bianchi, ma parliamo raramente di quello a cui hanno rinunciato. Siamo ossessionati soprattutto da quello che hanno ottenuto in cambio. Penso che i bianchi, almeno inconsciamente, comincino a domandarselo.
È vero, e ci dice qualcosa sull’ossessione americana per la genealogia e la storia familiare. Penso che abbia a che fare con il fatto che molte persone – specialmente bianche – percepiscono nelle loro vite attuali un senso intrinseco di vuoto e mancanza di significato. Così cercano di autodefinirsi dicendo: «I miei avi venivano dalla Germania», o quello che è, cercano un senso di identità etnica positiva. Perché nell’essere bianchi trovano un senso di identità negativa. Essere bianchi è una categoria a cui non c’è modo di appartenere. Quindi, invece, dici «Mi sento parte del mio clan scozzese» o «Mi identifico come giocatore» o quant’altro.
Non so cosa stia accadendo all’identità bianca in questo momento. Le pressioni sociali e culturali spingono in molte direzioni. Quello che evidentemente si è verificato negli ultimi due anni è l’emergere di un razzismo esplicito e privo di rimorsi nella politica nazionale dominante – da Trump ai razzisti bianchi su Twitter. Non è che ci sia veramente più razzismo bianco esplicito di prima, è solo che gli viene prestata molta più attenzione. Viviamo in clima politico così polarizzato che il conservatorismo bianco sta degenerando in un razzismo bianco nazionalista esplicito. Questa componente del corpo politico bianco sta conoscendo un’involuzione, e ciò rappresenta una completa catastrofe per la politica e la cultura americana.
Ma ci sono tante altre persone che si ritrovano con domande profonde sulla direzione che il paese sta prendendo, sulla solidarietà. Alcuni sceglieranno di partecipare, e altri di scappare. È uno di quei momenti in cui la cultura americana si fa estremamente politicizzata, e tante persone, tanti bianchi, si affacciano a dare uno sguardo e poi rientrano nei loro bunker. Penso sia questo che sta succedendo al momento.

© Yahdon Israel, 2016. Tutti i diritti riservati.

Yahdon Israel scrive di razza, classe, genere e cultura in rapporto alla società americana. Attualmente frequenta il master in Creative Non-Fiction presso la New School di New York. Vive a Bedford Stuyvesant.