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Intervista a Fernanda Trías

In attesa di incontrare Fernanda Trías durante il suo tour italiano (qui tutti gli appuntamenti [1]), pubblichiamo oggi una bella intervista di Giulia Zavagna, redattrice e editor della collana SUR, all’autrice. L’articolo è uscito originariamente sulla SURletter, lo spazio in cui raccontiamo un pezzetto di mondo, quella nostra collezione di cartoline che è il catalogo della casa editrice. (Se ti va di scoprirne di più clicca qui [2].)

 

Fernanda Trías [3] è nata nel 1976 a Montevideo, in Uruguay. Scrittrice e docente di scrittura creativa, è autrice della raccolta di racconti No soñarás flores e dei romanzi La azotea e La ciudad invencible. Il suo ultimo romanzo, Melma rosa [4], è stato accolto stupendamente dalla critica e opzionato per la trasposizione cinematografica, consacrandola come una delle migliori autrici della sua generazione.

 

 

Capita spesso che la letteratura sappia raccontare il mondo prima dei lunghi tempi di gestazione della Storia: è come se gli scrittori avessero un radar sempre attivo e in grado di cogliere le cose mentre accadono, o ancor prima. Nel tuo caso, hai scritto Melma rosa prima della pandemia, e poi hai gradualmente visto qualcosa che esisteva soltanto nella tua immaginazione diventare realtà, pur con le ovvie differenze. Quando ti sei accorta che il diffondersi del Covid-19 si avvicinava pericolosamente alla vicenda raccontata nel romanzo? E che effetto ti ha fatto?

Ci ho messo un po’ a rendermene conto, perché continuavo ad avere in testa il concetto della catastrofe ambientale. Avevo ragionato per molti anni sul cambiamento climatico, sull’Antropocene e su quali effetti una crisi ambientale avrebbe potuto avere sulle nostre vite , perciò non ho subito associato il romanzo con una pandemia causata da un virus. Al contrario, sono stati gli altri (lettori di fiducia a cui ho mostrato il manoscritto poco prima che venisse pubblicato nel 2020) che via via mi hanno indicato le somiglianze: le mascherine, gli ospedali al collasso, il controllo da parte dello stato, la disinformazione, eccetera. E quando le ho notate anch’io, quando finalmente me ne sono resa conto, ho avuto paura che il romanzo fosse condannato a diventare un «libro della pandemia». Non volevo che la discussione si allontanasse dalla problematica ambientale. E non volevo nemmeno che quel mondo così rarefatto che avrei voluto proporre al lettore diventasse d’un tratto realista. Ma in fondo il percorso dei libri finisce sempre per sorprendere chi li ha scritti ed è stato molto interessante vedere che tante tra le persone che lo hanno letto si sono immedesimate nell’esperienza della protagonista a partire dalla loro stessa esperienza di isolamento, claustrofobia, paura e incertezza causati dal Covid, e questo ha permesso una lettura che prima della pandemia sarebbe stata impossibile.

 

Questo legame del romanzo con ciò che poi è realmente avvenuto mi ha fatto anche riflettere sui limiti dei generi letterari: hai scritto una storia calata in un’atmosfera distopica, che di colpo non lo era più del tutto. Melma rosa è stato anche definito un romanzo di fantascienza, o di speculative fiction, eppure è ambientato in una realtà perfettamente credibile, forse solo più rarefatta della nostra. Avevi intenzione di lavorare nell’ambito di un certo genere?

L’intenzione era proprio lavorare su quel confine, tra distopia e realtà. Volevo che il mondo del romanzo si percepisse quasi come la realtà così come la conosciamo, solo leggermente sfasata, per generare l’atmosfera rarefatta di cui parli. Non mi interessava costruire un mondo futurista, come fa meravigliosamente bene Ursula K. Le Guin nel Mondo della foresta. Volevo anzi esplorare i legami affettivi della narratrice in modo molto realista, come ho sempre fatto, concentrandomi su tutta la scala di grigi delle complesse relazioni umane, e al tempo stesso costruire uno sfondo distopico. Ero consapevole che il risultato poteva essere un romanzo che desse la sensazione di sentirsi un po’ a cavallo fra due generi, e la cosa mi piaceva. In un’epoca trans e non binaria come quella che stiamo vivendo, è piuttosto assurdo aggrapparsi ai generi e concepirli come compartimenti stagni. Al contrario, credo che bisognerebbe andare sempre più oltre queste classificazioni e muoversi verso l’ibridazione.

Al centro di questa città devastata – a fare da testimone al crollo, tra una comprensibile disperazione e un irrazionale istinto di sopravvivenza – c’è una donna, figlia e madre al tempo stesso. Figlia di una madre che non ha sempre considerato tale, a cui la lega un perenne conflitto; madre di un figlio che non è il suo, ma del quale si prende cura. La maternità, intesa come esperienza e come insieme di relazioni delicate e complesse, è uno degli argomenti che volevi esplorare nel romanzo?

Il tema della maternità è diventato più presente per me da quando ho compiuto quarant’anni e ho riaffermato la mia decisione di non avere figli biologici. Tuttavia, intorno a me osservavo tanti tipi di famiglie: legami consanguinei disfunzionali, famiglie per scelta, maternità comunitarie, adottive, eccetera. Come si diventa madri?, era la domanda iniziale. Esistono molti modi di essere madre, perciò non era possibile affrontare l’argomento in una sola maniera. Per poterlo esplorare dovevo pensarlo come un caleidoscopio, e partendo da questa immagine sono arrivata all’idea degli specchi. Ma ancor più del tema della maternità mi interessava quello della cura. Prendersi cura dell’altro, prendersi cura di sé stessi, prendersi cura del pianeta. Se come società potessimo relazionarci a partire da un’etica della cura, forse il mondo non sarebbe nelle condizioni in cui è.

 

Mauro è un personaggio indimenticabile: un bambino afflitto da una fame insaziabile, vittima di una sindrome che gli impedisce di gestire l’appetito, e un simbolo perfetto. Solitudine, incomunicabilità, eccessi, consumismo sfrenato: Mauro e la sua malattia sembrano raccontare tutto questo, e insieme essere indissolubilmente legati a un elemento chiave del romanzo, ovvero l’industria alimentare, la melma rosa del titolo. La sintesi è stupefacente: è venuta prima l’idea di questo personaggio affetto dalla sindrome di Prader-Willi, o la voglia di esplorare le enormi contraddizioni che reggono il sistema capitalista come lo conosciamo oggi?

Prima è venuto il personaggio, questo bambino che è pura emozione e pura pulsione. Avevo scoperto l’esistenza della sindrome di Prader-Willi e da subito ne sono rimasta un po’ ossessionata. Volevo scrivere una storia sulla relazione fra un bambino affetto da questa sindrome e una donna che non era la sua madre biologica ma la persona che doveva accudirlo, e vedere come questo legame con il bambino «malato» e «incomprensibile» sarebbe mutato fino a trasformarsi e a trasformare lei. Tuttavia man mano che mi addentravo nel romanzo gli altri significati e il potenziale simbolico della malattia si sono a poco a poco rivelati. Non siamo forse tutti individui insoddisfatti, con un vuoto dentro impossibile da saziare, e capaci di condurre noi stessi alla distruzione? Non è stata una cosa calcolata, ma come dice Cortázar: «il caso scrive benissimo».

 

Se dovessi definire la tua scrittura con una sola parola, direi che è cristallina. L’ho sempre associata a una sorta di chiarore, e su tutto mi ha sempre colpito la tua capacità di raccontare situazioni anche molto oscure con immagini di assoluta bellezza. In Melma rosa questo mi sembra evidente fin dal titolo: la definiresti una delle chiavi della tua scrittura?

Di solito mi dicono che scrivo in modo molto visuale e perfino cinematografico. In generale i lettori mi confermano sempre che è come «se stessero vedendo» ciò che racconto, e mi pare che tutto questo si sposi bene con il concetto di scrittura cristallina. Credo sia perché racconto per immagini (non solo «con» immagini), e perché così funziona il mio pensiero nella vita quotidiana. Cerco sempre il paragone di qualcosa di astratto con qualcosa di estremamente concreto, come se solo così potessi capirlo. Tuttavia, dietro una scrittura apparentemente limpida c’è molto lavoro sul linguaggio. Correggo sempre leggendo ad voce alta, solo così individuo i passaggi più farraginosi e confusi, e cerco di fare in modo che la musica della prosa suoni come una lunga canzone.

Per finire, ci consigli un brano, una canzone (un suono, un rumore), con cui accompagnare la lettura di Melma rosa?

Qualsiasi canzone dell’album ( ) dei Sigur Rós [5], che hanno tutte un testo ma in una lingua inventata. Mi è sempre parso che quest’altro album bianco sia una sorta di paesaggio sonoro.