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Lettera davvero aperta al generale Pinochet

L’11 settembre del 1973, in seguito a un violento colpo di stato, Pinochet instaurò in Cile una dittatura che sarebbe durata fino al 1990. Pubblichiamo oggi una lettera aperta dello scrittore cileno Ariel Dorfman ad Augusto Pinochet, scritta nell’ottobre del 1998, in seguito all’arresto del generale.

«Lettera davvero aperta al generale Pinochet»
di Ariel Dorfman
traduzione di Giulia Zavagna

Mi creda, generale: è la cosa migliore che poteva succederle. Capisco che non è piacevole essere detenuti senza preavviso, non poter uscire a fare una passeggiata per le strade di Chelsea quando ne ha voglia, non sapere che futuro la aspetta. Può chiederlo, senza andare troppo lontano, ai tanti cileni che lei stesso ha privato della loro libertà in circostanze molto meno confortevoli di quelle che offre una clinica londinese a cinque stelle.

Ma se ha paura, e se si sente solo, e si crede pugnalato alle spalle, generale, pensi che il destino le ha procurato agli sgoccioli della sua vita un’opportunità di salvarsi l’anima. Dal golpe del 1973 lei sta vivendo un inganno, un’autogiustificazione minuziosa e schiva del suo comportamento che ha iniziato a costruire proprio a partire dall’intollerabile morte di Salvador Allende, l’uomo che l’aveva nominata per il suo incarico e che lei ha tradito. A quel primo tradimento ne sono seguiti altri, una valanga inevitabile, in realtà, perché bisogna sempre coprire il primo grande crimine con altri crimini; i dittatori aspirano al potere assoluto per proteggersi dai demoni che hanno scatenato. Per far tacere i propri fantasmi, hanno bisogno che intorno a loro si alzi un muro di specchi lusinghieri e di consiglieri adulatori che gli assicurino che sì, tu sei il più bello e il più buono, sei il più saggio di tutti.

E lei ha finito per crederci, generale.

Si è difeso da ciò che aveva fatto, da ciò che stava facendo, con l’inespugnabile muraglia della sua invulnerabilità, convinto che mai nessuno le avrebbe presentato il conto, che esisteva una legge per lei e un’altra per il resto dei suoi concittadini, e quando il popolo cileno nel 1988 l’ha ripudiato e l’ha costretto ad abbandonare la presidenza nel 1990, è stato capace di intrappolare con astuzia incredibile l’intero paese in una transizione nella quale lei non avrebbe mai dovuto rispondere per nulla di ciò che aveva detto o fatto, una transizione in cui lei era l’unico realmente libero di dire e fare ciò che le andava, mentre i suoi compatrioti hanno sempre dovuto stare bene attenti a quanto dicevano e come. Noi non potevamo, in quel periodo di transizione pattuita e necessaria, lasciarci prendere dalle nostre emozioni, in caso a lei venisse in mente di tornare alla lavagna perché non le piaceva la nostra ultima mossa, uno smacco al quale non avevamo diritto. Di fatto, generale, ha pensato di possedere ancora l’inviolabilità di un dittatore in pieno processo democratico.

E poi ha confuso il suo paese con il mondo. Ha pensato che avrebbe potuto andarsene in Inghilterra, nazione da lei proclamata come il culmine della civilizzazione, ha pensato che avrebbe potuto passeggiare lungo il Tamigi come se fosse il Mapocho; ha pensato che gli inglesi avrebbero dovuto rispettare e obbedire ai patti e alle regole e agli accordi cileni come se fossero loro.

È doppiamente dolce pensare che lei si è ingabbiato da solo, generale, che è stata la stessa sovranità con la quale ha governato che ha finito per accecarla e farla smarrire, l’illusione che avrebbe sempre potuto imporre la sua volontà agli altri, dando per scontato che nel suo isolamento non avrebbe mai dovuto guardare né da vicino né da lontano il dolore che ha causato ai suoi simili.

Per questo la detenzione è così salutare per lei. Anche per il paese, certo, perché ci obbliga a guardarci in faccia, mette alla prova la nostra democrazia, la sua forza, la sua possibile precarietà; ci porta infine ad affrontare il bisogno di risolvere al più presto questa complessa, ambigua ed eterna transizione che lei ha limitato imponendo la sua ombra e presenza costante. Voglio che sappia, generale, che non credo nella pena di morte. Ma credo nella redenzione umana. Perfino nella sua, generale. Per questo, ciò che per venticinque anni ho desiderato che le capitasse – e ancora mi costa credere che stia forse per accadere – è che prima o poi, prima della sua morte, fosse costretto a guardare con i suoi occhi azzurri gli occhi scuri e chiari delle donne a cui ha fatto sparire figli, mariti, padri e fratelli, desaparecidos, una donna dopo l’altra; ho desiderato che avessero l’opportunità di raccontarle come le loro vite sono state spezzate e travolte a causa di un ordine partito da lei o per l’azione della polizia segreta che lei non ha voluto frenare. Mi sono chiesto che cosa le sarebbe successo se si fosse visto forzato ad ascoltare giorno dopo giorno le molteplici storie delle sue vittime e avesse dovuto riconoscerne l’esistenza.

Lei che crede in Dio, generale, consideri la benedizione che il suo Signore saggio e comprensivo e severo le ha mandato alla fine dei suoi giorni: la possibilità di pentirsi. Di penetrare nel circolo infernale dei suoi crimini e chiedere perdono e raccontarci dove sono i nostri morti. Ne sa qualcosa, don Augusto? A me personalmente basterebbe questo. Sarebbe un castigo sufficiente, e pensi che enorme contributo sarebbe per questo paese che tanto ama: potrebbe aiutare la nostra comune patria a fare un altro passo verso il duro compito della riconciliazione, che è possibile solo se si accetta la terribile verità di ciò che ci è successo, se lei partecipa nella dolorosa ricerca di quella verità senza mentire, né a sé stesso, né a noi.

Ricordi quello che la storia e la religione e la letteratura ci insegnano: la cosa migliore che può succedere a un criminale è di essere catturato, poiché nella sua reclusione solitaria, senza le abituali difese con cui occulta il proprio passato, può a volte aprirsi la minuscola finestra di una possibile redenzione.

Non credo che leggerà queste parole né che le rispetterà. Non credo che rinuncerà volontariamente a un’immunità che non ha e nemmeno all’impunità che ha sempre creduto di avere. Non credo che ora che è stato arrestato il suo corpo si troverà nella condizione spirituale che le permetterà di agire come un uomo veramente libero, di mettere da parte la paura e comprendere l’enigma della sua vita, di vedersi come lo vede l’immensa maggioranza dell’umanità e di capire perché la vogliamo esorcizzare. Lei e tanti altri tiranni di questo secolo che sta finendo.

Non è mai troppo tardi, generale.