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Intervista a Martín Caparrós

Fra gli ospiti argentini al festival della rivista Internazionale che si è tenuto a Ferrara dal 30 settembre al 2 ottobre c’era Martín Caparrós, che ha presentato il suo ultimo libro uscito in Italia, Non è un cambio di stagione. Un iperviaggio nell’apocalisse climatica (Edizioni Ambiente). Pubblichiamo la prima parte di un’intervista a Caparrós del blogger argentino Lalo Zanoni, ringraziando l’autore.

di Lalo Zanoni
Traduzione di Raffaella Accroglianò

Questa è la prima parte di una lunga intervista in tre parti allo scrittore, storico e giornalista Martín Caparrós, considerato uno dei migliori cronisti del mondo.
Ha avuto luogo nella sua casa, una mattina primaverile di fine settembre, tra succo d’arancia, sigarette e, ovviamente, Caparrós vestito di nero.
Ci siamo incontrati per parlare, prendendo a pretesto il suo libro El Interior che è stato appena pubblicato. Abbiamo finito per parlare di blog, passando per la crisi attuale del giornalismo della carta stampata; i sogni degli anni settanta e quelli attuali; un po’ di letteratura; il suo libro; gli anni trascorsi in Francia a studiare storia alla Sorbona; le cronache e il mito del giornalismo argentino; l’euforia per il ritorno della democrazia…
I paragrafi saranno disposti per ordine tematico, con pochissime domande. In questa prima parte Caparrós parla del linguaggio e della sua tecnica per elaborare i testi.

C: Lavoro con un registratore. Quando scrivevo cronache, avevo l’abitudine di scrivere in un quadernino, ma a un certo punto mi sono reso conto che il mio fermarmi in un angolo, per annotare, attirava molto l’attenzione. E che oggigiorno attira di meno un tipo che parla solo per strada di uno che scrive. E quindi registro. Ma registro quasi fino al testo conclusivo, non prendo appunti. Scrivo oralmente.

Z: Come Borges, che non potendo scrivere, dettava.
C: Con le dovute differenze. Lui lo faceva perché era cieco… forse anch’io, chi lo sa. In generale non scrivevo al computer. Usavo il registratore. Bisogna fare un grande lavoro di edizione. Ciò crea una strana forma di scrittura… una scrittura “sul momento”, mentre in genere la scrittura è posteriore a quello che si è visto. È interessante questo modo di lavorare. Si potrebbe definire “scrivere in situ”.

La maggior parte della testimonianza è registrata, perché altrimenti mi sarebbe risultato difficile riprodurre il parlato con alcuni dettagli, e questi mi sembrano molto importanti. Revisionare quello che dice qualcuno mi sembra perverso ed è un’abitudine tipica del giornalismo argentino. E io non capisco mai perché lo fanno. A me capita spesso che mi vedo, mi leggo in pubblicazioni in cui utilizzo parole che non direi mai. Io so quali parole scelgo. So se dirò ospedale o nosocomio. Eppure a volte mi vedo dire parole come nosocomio. E mi sembra curioso perché i giornalisti dovrebbero capire che le parole che uno dice sono altrettanto importanti come le supposte idee che uno tenta di trasmettere con quelle parole. Nondimeno i giornalisti si credono liberi di poter mettere qualsiasi parola in bocca a qualsiasi persona; di tradurre ciò che uno dice in un linguaggio in teoria migliore. Sarà? Mi ha molto colpito. È come se in una foto mi mettessero i capelli biondi. No? Perché?
Il registratore molto spesso lo tenevo nel taschino della camicia, non perché volessi ingannare qualcuno ma fondamentalmente perché non interferisse nella conversazione. La cosa curiosa è che i giornalisti cambiano le parole della gente quando le trascrivono, anche se in verità molta gente, quando parla con un giornalista, cerca di parlare lo stesso linguaggio che i giornalisti inventano per le persone. E lì si chiude il cerchio. Non hai notato come in televisione, quando domandano a uno qualsiasi per strada di commentare un delitto, quello parla come se fosse un poliziotto? È un delirio.
Ora Caparrós parla de El Interior, il suo ultimo libro di cronaca, scritto durante alcuni viaggi per le provincie argentine. Analizza anche il nostro paese.

C: È molto tempo che sperimento modi diversi per raccontare l’Argentina. E questa era la maniera più ovvia, più appropriata, la più diretta per sapere cos’è l’Argentina: prendere una macchina e iniziare ad attraversarla. Avere molto tempo per ascoltare, per guardare, per ricordare, per pensare. Ho iniziato nel 2004 e ho viaggiato per tutto il 2005. Avevo un piano molto generico, andare verso nord, lungo il confine e risalire il fiume Uruguay per poi scendere lungo il Paraná, ma i particolari si sono articolati durante il percorso. Ho fatto cinque lunghi viaggi, che si sono trasformati in un racconto completo. Il libro termina con un ritorno a Buenos Aires. Ricordo l’impressione, la sorpresa, durante ogni ritorno, per la grandezza di Buenos Aires. In provincia ci sono città grandi nelle quali si entra attraverso l’autostrada, o quello che è. Ma quando arrivi qua dalla panamericana, ti rendi conto di come tutto sia proporzionato, sei corsie per le macchine, costruzioni, movimento e rumore. Ti accorgi della grande differenza in un modo che normalmente, standoci dentro, non noti. In una qualche forma è stato come riscoprire questa città. È stato come imparare a guardare per poi raccontare la cosa più difficile: l’isolato di casa mia. Poter guardare ciò che è tanto comune, tanto abituale, con uno sguardo più distante.
È quasi una barzelletta. Ora vivo in una casa circondata da quattro strade con nomi di provincie. E mi sono trasferito dal quartiere, dove ho sempre vissuto, proprio mentre pubblicavano il libro. Curiosa casualità.
È difficile sintetizzare cos’è la provincia. Intanto è qualcosa di molto diverso da quello che normalmente pensiamo noi porteños quando immaginiamo la provincia del gaucho con il suo cavallino, il coya o il taglialegna di Misiones, ecc.

Un 80% delle persone della provincia vive in città.
Mi ricordo a Resistencia, nel Chaco, di un annuncio sul giornale in cui cercavano qualcuno della provincia per il servizio domestico. Ma dell’interno della provincia! C’è sempre qualcosa di più interno.
Cambiamenti ce ne sono stati ovunque. A Buenos Aires anche, negli ultimi vent’anni. Mi ha sorpreso. Ho cercato di comparare le variabili socio-economiche della provincia come se fosse una nazione ed è venuto fuori che il suo PIL pro capite non era di molto minore rispetto a quello di Buenos Aires. Io pensavo che lo fosse, e invece no. Ciò accade perché nel Gran Buenos Aires la povertà cresce e stiamo cadendo sempre più in basso, no? E inoltre si pensava che Buenos Aires fosse il centro dell’Argentina, lo spazio più moderno e avanzato socialmente e culturalmente; che imponeva la direzione al resto del paese. Adesso, a volte, mi domando se non sia il contrario. Quelle che erano essere le caratteristiche della provincia, sono presenti qui, ora, tra noi.
Sarebbe bene sapere verso cosa andiamo, come paese. Il fatto che l’Argentina sia passata da un progetto di sviluppo industriale a riprendere la vecchia strada dell’esportazione agricola… questo significa che certe regioni della provincia hanno acquisito un grande peso nel nostro paese. La zona della soia, per esempio, ha molto più potere oggi in Argentina che vent’anni fa e questo fa sì che alcuni settori abbiano maggior potere di una volta. Ci sono degli strani cambiamenti, no? Non sono chiaramente evidenti, ancora.

Caparrós s’infervora nel parlare di qualsiasi cosa, ma molto di più se si tratta di mezzi di comunicazione. Per questo è molto diretto nel parlare della crisi del giornalismo della carta stampata; del genere della cronaca e della sua importanza politica; di Internet e della sua rivendicazione nello scrivere libri lunghi. Questa è la terza e ultima parte dell’intervista a Martin Caparrós. Ma alcune cose non sono state incluse e ci sarà un bonus track. State attenti.

C: Dico sempre che mi sorprendono gli editori argentini della carta stampata, che lavorano per una specie che hanno inventato loro, che è allo stesso tempo paradossale e contraddittoria, ovvero il lettore che non legge. Loro credono che i lettori non leggano. Quindi, se un lettore non legge, che cavolo è? Perché un lettore si definisce come qualcuno che legge. Un lettore che non legge è come… che ne so… un frigorifero che riscalda. Ma loro lavorano per questo genere stranissimo, bizzarro. E lottano contro i mezzi di comunicazione elettronici con le armi dei mezzi elettronici. Fanno la carta stampata come se fosse la televisione o Internet o qualsiasi altra cosa. Chiaramente è un errore. E la gente smette di leggere. Non c’è in questo momento in Argentina nessuna rivista che venga letta. I giornali circolano di meno e la carta stampata attraversa una crisi che non avevo mai visto. Il giornalismo della carta stampata è messo male, molto male. Anche a livello mondiale, ma non così tanto. Ci sono riviste come Gatopardo, come Soho o come Etiqueta Negra… alle quali va bene, perché c’è gente che se le legge. Non saranno 500 mila persone… ma tante cose non sono per 500 mila persone.

Mi sembra molto strano perché in generale in America Latina esiste ancora la credenza che il giornalismo argentino sia molto buono. Molti pensano che sia il migliore. E poi, quando vengono qua, si sorprendono perché non trovano nessun mezzo di comunicazione nel quale si esprima questo grande giornalismo argentino. Continuiamo a vivere di glorie del passato.
Credo che molti bravi giornalisti siano rassegnati a non avere spazio per lavorare. La cronaca non è solo un lusso narrativo ma anche una posizione politica… voglio dire, dinanzi a questa decisione dei grandi mezzi d’informazione di presupporre che è importante solo ciò che succede ai potenti, la cronaca parla di un altro tipo di gente. Per la gente comune l’unica possibilità di finire sui giornali è un incidente di treno, un crimine passionale o un qualsasi altro incidente. Senza sangue di mezzo, è molto difficile che una persona comune finisca sui giornali.
Quelli che finiscono sui giornali sono i potenti. Politici, economisti o gente dello spettacolo: attrici, calciatori, modelle, ecc.
Ciò presuppone un’idea del mondo molto precisa: ossia che è importante solo quanto accade ai potenti. Questo è il costante messaggio del giornale. Stabilisce l’agenda e stabilisce un modo di vedere il mondo. Di contro la cronaca parla di altre persone. In questo senso mi sembra molto politica.
A tratti ho la sensazione di aver scritto abbastanza di cronaca. E qualche volta ho pensato che questa de El Interior sarebbe stata la mia ultima cronaca. Basta così, ho fatto la mia parte. Una volta finito il libro, avrei chiuso con questo genere. Ma non sono sicuro di farlo perché mi dispiace un po’, e perché alla fine appare sempre qualcosa che mi viene voglia di raccontare. Sarebbe stupido chiudere una porta, perché farlo? Ma ho comunque un poco questa sensazione: se continuo a fare questa cosa inizierò a ripetermi più di quanto vorrei.

Continua…