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I classici ci rendono critici

Carlos García Gual Editoria, Scrittura, Società, SUR

Le grandi opere ci aiutano a comprendere aspetti essenziali della condizione umana: il loro messaggio viene reinterpretato con il passare degli anni, apre nuovi orizzonti e forgia persone più critiche e fantasiose. Ce ne parla Carlos García Gual in un articolo apparso su El País, che ringraziamo. L’illustrazione viene da qui.

di Carlos García Gual
traduzione di Elena Cannelli

Come afferma Alfonso Berardinelli, i libri che identifichiamo come «classici» non furono scritti per essere studiati e venerati, ma prima di tutto per essere letti (Leggere è un rischio). Il reiterato e grande fervore dei lettori ha dato prestigio ad alcuni libri che si mantengono vivi con il passare dei secoli. È forse per questo che c’è chi crede che questi scritti di altri tempi non siano di facile accesso, appaiano inattuali, incartapecoriti a causa della distanza temporale e sostenuti da una retorica accademica. Contro un pregiudizio così volgare, ritengo eccellente il consiglio di Berardinelli: «Chi legge un classico dovrebbe essere così ingenuo e presuntuoso da pensare che quel libro è stato scritto proprio per lui, perché si decidesse a leggerlo». Senza altro da aggiungere, ogni classico invita a un dialogo diretto, perché le sue parole sono state offuscate dal tempo e oggi possono risultare invitanti proprio come quando furono scritte, per coloro che hanno il coraggio di viaggiare nel tempo attraverso la loro lettura.

Leggere un classico non è un rischio maggiore che leggere qualcosa di contemporaneo e di un certo livello letterario. In altre parole, esige un’attenzione vivace e talvolta una certa lentezza, per arrivare a captarne con precisione le parole al di sopra degli echi del suo sottofondo d’epoca. Ben oltre le convenzioni stilistiche, quello che caratterizza un libro classico è il fatto che sopravviva perché è stato interessante e commovente e capace di suggerire letture appassionanti al lettore di qualsiasi epoca. Classicus in origine significava «con classe» o «di prima classe», secondo i baroni della critica; ma i grandi classici non richiedono lettori particolarmente selezionati né con titoli speciali, bensì intelligenti e svegli, perché trattano gli aspetti essenziali della condizione umana. Un libro classico è quello che possiamo rileggere all’infinito e sembra sempre inquietante e seducente, perché ci commuove e ci mette in discussione, a volte nel profondo, e, come scrisse Italo Calvino, «ha sempre qualcosa da dire». Per questo si è salvato dal nemico acerrimo di tutta la cultura: il greve oblio (parlo dei libri, ma vale lo stesso per i classici della musica e di altre arti).

Credo che esistano due tipi di classici: quelli universali (che mantengono il proprio impatto vivace anche in traduzione) e quelli nazionali (il cui prestigio è legato alla bellezza e freschezza della lingua originale). Così Cervantes, Shakespeare e Tolstoj appartengono al primo gruppo; e Góngora e Ronsard, invece, al secondo. È ovvio che la lista canonica può variare a seconda dell’epoca. Solo i classici più indiscutibili sono sopravvissuti alle varie fluttuazioni del giudizio della critica. Virgilio e Orazio continuano a essere presenti, mentre Stazio è scomparso dalla fine del Medioevo, e il favolista Esopo nel XX secolo. I classici più antichi d’Occidente sono i greci, che già i romani leggevano come tali e prendevano a modello.

E nella loro sopravvivenza i classici non vivono mummificati, ma rinnovano il proprio messaggio. Perché l’interpretazione non è fissa, ma piuttosto varia a seconda delle letture in una tradizione che non solo li conserva, ma al contrario li reinterpreta. Non leggiamo il Don Chisciotte come lo facevano i lettori del XVII secolo. La tradizione letteraria posteriore può modificare la nostra percezione di temi e personaggi facendoci scoprire prospettive diverse. Addirittura, ogni lettore può mitigare la propria interpretazione. Dopo aver letto Kafka, avvertiamo echi prekafkiani in autori antichi. (Succede lo stesso anche con gli eroi della mitologia. La tradizione rinnova le maschere delle figure letterarie; come accade con Prometeo, Edipo, oppure Faust e Don Juan Tenorio, per esempio).

D’altra parte, anche le conquiste degli studi storici ci fanno comprendere meglio un testo, permettendoci di scoprire nuovi aspetti del contesto in cui è stato scritto e della sua genesi. Pensiamo, solo per fornire un esempio rilevante, a tutto quello che oggi sappiamo sul mondo che evocano e sul contesto all’interno del quale sono nati i poemi omerici, ovvero l’Iliade e l’Odissea. Oggigiorno conosciamo l’epoca in cui questi poemi furono forgiati e il modo in cui furono composti, molto più di quanto li conoscessero gli eruditi un secolo e mezzo fa, e molto più di quello che ne sapevano Platone e i filologi di Alessandria. Il nostro sapere è progredito grazie a tre audaci personaggi: Heinrich Schliemann (che portò alla luce le rovine di Troia), Milman Parry (che studiò la tecnica dell’epica orale arcaica) e Michael Ventris (che decifrò il sillabario miceneo B). Nessuno di loro era un accademico né un filologo di professione, ma con le loro eccezionali rivelazioni hanno permesso al nostro sguardo di indagare nuovi orizzonti dell’opera omerica. Grazie ai nuovi dati archeologici conosciamo meglio quell’Età Oscura che, nella sua nostalgia per un passato più glorioso, diede un impulso decisivo all’epica con il canto e il culto degli eroi micenei.

E ciò nonostante, al di là di tutti questi studi, l’aspetto essenziale della sopravvivenza di Omero continua a essere l’ineguagliabile forza narrativa della sua poesia. Ciò che mantiene viva la nostra lealtà nei confronti dell’Iliade e dell’Odissea come eterni classici non è il loro contesto storico né l’utilizzo magistrale di formule ed epiteti di lunga tradizione orale. È la magnifica ricostruzione con cui un poeta rievoca i miti eroici mentre, al contempo, dà a questo lascito mitologico una prospettiva tragica con figure indimenticabili. È la sensibilità del lettore che salva dall’oblio quel mondo di eroi affascinanti e leggendarie divinità, come ha fatto attraverso tanti secoli e tante mode.

Chiaramente, ci sono classici più facili da leggere, ovvero testi nei quali il lettore entra facilmente e viene presto catturato dal loro singolare incanto, dallo stile chiaro e dalla loro fantasia o emotività. Ad esempio, l’Odissea, le poesie di Saffo, Erodoto, Il simposio di Platone o Le metamorfosi di Apuleio, per citare solo gli autori antichi. Altri costano più fatica, e possono persino far nascere un certo rifiuto quando rappresentano delle scelte sbagliate o forzate in quanto letture obbligatorie in età inopportune, ardui e difficili da capire. Tuttavia, la peculiarità dei classici, quando vengono scelti in maniera corretta e attenta, è che la loro lettura lascia sempre una traccia nella memoria, un’orma indelebile nella nostra immaginazione, e rendono più acuto il nostro sguardo sugli aspetti importanti della vita.

In ogni caso dobbiamo riconoscere il ruolo importante che, tradizionalmente, ricopriva la scuola nella conservazione e diffusione di questi testi di grande prestigio. È un ruolo che ricopre tuttora, ma in maniera mutilata e avvilita. Che la scuola debba insegnare cosa significhino – per noi – i grandi libri e stimolarne con entusiasmo la lettura per la formazione del gusto e della critica personali, non lo credono affatto alcuni pedagoghi e neanche i politici del settore, poco eruditi. Queste letture si scontrano con numerosi ostacoli: programmi di insegnamento che riducono al minimo la letteratura e professori con scarsa simpatia per testi di altre epoche. Lo analizza molto bene Marc Fumaroli nel libello La educación de la libertad. Peraltro i nostri studenti, forse con la sola eccezione di quelli più giovani, non frequentano i libri con molte pagine, intrappolati da messaggi minimi e istantanei su diversi schermi.

I classici sono inattuali ed è proprio questo il loro aspetto più apprezzabile: parlano di cose che vivono oltre il presente effimero e aprono nuovi orizzonti e offrono idee sul mondo che vanno ben al di là del contemporaneo e del quotidiano. E ci rendono critici, scettici e più fantasiosi.

Tornando a quello di cui abbiamo accennato in precedenza, la lettura dei classici dovrebbe forse iniziare a scuola, però è importante rileggerli durante tutto il corso della vita, perché voglio evidenziare ancora una volta il fatto che possiamo sempre intavolare o proseguire un dialogo con loro. Un esempio curioso è quello di David Denby, che racconta la sua personale esperienza in Grandi libri. Editore e scrittore di successo, decise di sottoporsi a una prova insolita: rileggere a fondo i classici. «Nell’autunno del 1991, trent’anni dopo aver frequentato la Columbia University, vi sono tornato per rileggere con gli studenti diciottenni le opere di Omero, Platone, Sofocle, Agostino, Kant, Hegel, Marx e Virginia Woolf. Libri straordinari…». Mi sembra un esempio degno di imitazione: un’avventura dal costo limitato che vale la pena di sperimentare. Non è facile: in nessuna università spagnola ci sono corsi sui libri di quella lista. Ma ciascuno di noi può provarci. I classici sono ancora lì, ancora ci parlano e hanno modi gentili.

 

© Carlos García Gual, 2016. Tutti i diritti riservati.

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