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Guida allo stile Nobel-marqueziano/1

Francesco Varanini SUR

Pubblichiamo oggi la prima parte di un lungo saggio di Francesco Varanini sullo stile di Gabriel García Márquez, stile che l’autore definisce Nobel-marqueziano. Il testo fa parte di un più ampio capitolo dedicato alla fortuna dello scrittore colombiano contenuto in Viaggio letterario in America latina (Marsilio 1998, Ipoc Press 2010) ed è stato adattato per la pubblicazione sul blog. In particolare, sono state eliminate le note biografiche e le citazioni dagli originali in spagnolo. Ringraziamo l’autore, del quale sul blog si può leggere qui anche un saggio dedicato ad Andrés Caicedo.

La incredibile e triste storia della Guayaba senza più profumo e dello scrittore ormai senza cuore

Guida allo stile Nobel-marqueziano attraverso esempi tratti da El general en su laberinto

di Francesco Varanini

Maestro di retorica

L’autostrada è interamente occupata “dalla furia di spaventosi camion americani dai comignoli fumanti su musi compatti e ferrosi”. La grinta di questi automezzi, “assassini meccanici sconvolti dalla follia”, “ha qualcosa di infame”.

“Si corre in macchina rimuovendo l’orribile pensiero di un guasto che ti pianti là in mezzo a quell’inferno originario, ben più realistico di un paradiso terrestre, nell’ora incauta del tramonto e sul ciglio delle tenebre.”

“Si arriva a Macondo dopo la premonizione dei canneti, su un asfalto costellato di carogne e penne insaguinate di avvoltoi, corvi e altri grandi uccellacci”. “Ti ghermiscono subito il suo allarmante frastuono da luna park di periferia, l’equivoca vivacità delle piazze, il mercato, i banchetti pieni di calzini, stecchini, elastici, cose meno che minime, gli odori un po’ incarogniti e bruciati, i colori febbricitanti della frutta spaccata per la vendita, le carni annerite, il pascolo stradaiolo delle scrofe con i maialini, gli animali consapevoli di andare al macello, i bambini tristi e pericolosi”. Un “piccolo popolo fragoroso” “affolla i vicoli di polvere fra case poco più alte d’un uomo, edificate con criteri stravaganti e impudichi”. (Paolo Guzzanti, “il voto è un miracolo nel paese di Macondo, «la Repubblica», 17 marzo 1988.)

“I battelli scivolavano sull’acqua di Barranquilla e Puerto Salgar, i caimani dormivano sulla riva, le donne dei villaggi vendevano ai viaggiatori le dolci almojabanes, torte di zucchero e cannella. Le case di tolleranza ospitavano indie dagli occhi scuri come la notte”. (Carlo Rossella, Cento leghe di solitudine, «Panorama, 9 aprile 1989.)

Pagine di Gabriel García Márquez? No, perché sono uscite dalla penna di due giornalisti italiani. Eppure sì, perché sono pagine scritte consapevolmente, volontariamente, in uno stile che riconosce Gabriel García Márquez come maestro e modello.

Uno stile ormai codificato che però solo i neofiti, come i due italiani, pensano possa essere usato solo per descrivere il mondo caraibico. Vediamo infatti come il fraterno amico Plinio Mendoza applica lo stile a un ritratto dello stesso Márquez, e contemporaneamente a Parigi. “Magro, con una faccia da algerino che suscitava l’immediata sfiducia dei poliziotti e degli stessi algerini (talvolta gli rivolgevano la parola in arabo in pieno Boul Mich), fumava tre pacchetti di sigarette al giorno mentre cercava di farsi strada, senza conoscere la lingua, in quell’oceano di pietre e brume che era Parigi”. “Facevano spesso l’alba bevendo e parlando di letteratura, in bordelli mitologici, pieni di uccelli, di piante e di ragazze spaventate che facevano l’amore per fame”. (Plinio Apuleyo Mendoza, Odor di guayaba, Mondadori, 1983.) Ecco: l’oceano di pietre e di brume, i bordelli mitologici, uccelli, piante, ragazze spaventate che facevano l’amore per fame. Siamo lontano dal tropico, siamo a Parigi negli anni Cinquanta, ma la scrittura resta la stessa, e proprio per questo comincia a svelarci i suoi segreti.

Ma si può fare di meglio: lasciamo la parola al fratello minore di Gabriel, Eligio. È andato sul set del film di Rosi Cronaca di una morte annunciata. Vediamo – un esempio a caso – con quale sobrie parole descrive la figura del direttore della fotografia, “il già da tempo leggendario Pasqualino de Santis”, “il Mago della luce”, che “che assurse dall’umiltà totale alla meteorica fama mondiale”. Egli “occulta dietro questa specie di fragilità fisica ed emotiva un talento e rigore degno solo di un genio”. E “tiene al collo, come amuleti portafortuna e di un sapere magico, la sua attrezzatura di lavoro: un esposimetro manuale e un misuratore di contrasto”. “Con questi non cessa di guardare verso l’imprevedibile cielo, implacabile come un paziente cacciatore di farfalle invisibili, come un febbrile astronomo che legge la luce dell’universo in pieno sole”.

“Come risolvere l’enigma della luce in questo tropico?” La luce è “diffusa”, “allucinante”, “scarnificata”, “incredibile”, e “la responsabilità di risolvere quell’enigma così delicato cadde ovviamente” su questo uomo “dalla leggendaria sapienza in fatto di luce”. (Eligio Garcia, La tercera muerte de Santiago Nasar, Mondadori España 1987.)

Ridicolo. Sì, se non fosse che anche Eligio non è che un pallido imitatore. Vediamo infatti cosa Gabriel riesce a dirci di Fidel Castro in un articolo del 1988.

Fidel, la cui “visione totalizzante che solo il passare del tempo si è incaricato di dimostrare. Incapace di concepire un’idea che non sia straordinaria”, la sua “mobilità” è “instancabile”, la sua “curiosità, infinita”, la sua “passione, accanita”. Ogni suo progetto “colossale e minuzioso”, il suo raziocinio “arduo e tenace”, la sua disciplina “ferrea”, i suoi sacrifici “immensi”; e con l’età “ha imparato a sciogliere i suoi umori cupi in una pazienza invincibile”, cosicché le sue “collere omeriche ma momentanee sono ormai favole del passato”.

La sua voce ha un “potere ipnotico. Non è possibile concepire qualcuno più incline di lui all’abitudine della conversazione. La sua devozione alla parola è quasi magica.” Quella volta, subito dopo “la sua entrata trionfale a L’Avana parlò senza tregua alla televisione per sette ore. Deve essere un record mondiale”.

La tribuna dell’improvvisatore “sembra il suo mezzo ecologico perfetto”. Comincia a parlare a voce bassa, finché “dà una specie di grande zampata e si impadronisce degli ascoltatori”. Allora si stabilisce tra lui e il suo pubblico “una corrente di andata e ritorno che li esalta entrambi”, una complicità dialettica, “e in questa tensione insopportabile è l’essenza della sua ubriacatura”. È l’ispirazione: “lo stato di grazia irresistibile e abbagliante, che negano solo quelli che non hanno avuto la gloria di viverlo”.

Nei suoi discorsi non lascerà mai in sospeso “nessuna delle incognite delle sue conversazioni precedenti”. I suoi arrivi sono “improbabili come la pioggia” e “non aveva una abitazione fissa, né ebbe un ufficio per più di quindici anni, né aveva ore fisse per nulla. Lo stesso potere era sottoposto all’imprevedibilità del suo vagabondare”.

“Forse non è cosciente del potere con cui si impone la sua presenza, che sembra occupare in un istante tutto l’ambiente. Ho visto le persone più padrone di sé perdere il controllo di fronte a lui, portando all’estremo il loro formalismo o esagerando la disinvoltura”.

“Il suo principale sostegno è la memoria, e la usa fino all’abuso per alimentare discorsi o conversazioni private con raziocinio sconvolgente e operazioni aritmetiche di una rapidità incredibile”.

Castro non conosce un argomento, lo conosce sempre “a fondo”, anche se “nessuno si spiega come gli avanzi il tempo, né di che metodo si serva per leggere tanto e con tanta rapidità”. E se pone qualche domanda, “le risposte, di sicuro, devono essere esatte, perché è capace di scovare la più piccola contraddizione in una frase casuale”.

Niente lo diverte tanto come mostrare “il suo vero volto a coloro che arrivano preparati dalla propaganda nemica ad incontrarsi con un capo barbaro”; nessuno sa “con certezza” quali sono “i mezzi sicuri per arrivare a lui”.

“Fa la prima colazione con non meno di duecento pagine di notizie da tutto il mondo”. “Dorme a brevi tratti, dove lo abbatte la stanchezza”. “La sua inclemente facilità ad aumentare di peso lo ha obbligato ad una dieta continua”, eppure resta “un cacciatore insaziabile di ricette di cucina che gli piace preparare con una specie di fervore scientifico”.”In una domenica sfrenata mangiò diciotto palle di gelato”.”Da mezza scatola di sigari che fumava al giorno è passato all’astinenza assoluta”. “Si mantiene in eccellente forma fisica con diverse ore di ginnastica al giorno e di nuoto frequente”.

Si può capire facilmente che si usino toni enfatici per sottolineare riflessioni politico-ideologiche care all’autore: Fidel ha “avuto il talento” di incorporare “il pensiero” di José Martí al “torrente sanguigno di una rivoluzione marxista”.

Ma Márquez non si limita a questo. Tutto deve essere detto con modi esagerati, tutto deve essere favoloso e leggendario: “è tale il pudore con cui protegge la sua intimità, che la sua vita privata ha finito col diventare l’enigma più ermetico della sua leggenda”. Le cerimonie pubbliche “cominciavano quando arrivava e ciò era improbabile come la pioggia”. Tutto deve apparire romanzesco: “quasi all’alba, la sua automobile scivolava ancora silenziosa, senza rumore di motociclette, per i viali deserti dell’Avana”.

Appena possibile si ricorrerà a dettagli innecessari, ma utili per colpire il lettore: non solo Fidel è “oppresso dal peso di tanti destini altrui”, ma se beve “un bicchierino di acquavite” lo farà “a sorsi quasi invisibili”, se mangia un “gelato di vaniglia” le sue saranno “cucchiaiate piccole e lente”. I suoi mobili non sono solo “confortevoli”, sono “di cuoio non conciato”. Le automobili che ha usato prima della Mercedes “actual” sono state, nell’ordine, una Oldsmobile “prehistórica”, una Zil “soviética”. Gli scaffali della libreria “riflettono molto bene l’ampiezza dei suoi gusti”, ma l’autore ha bisogno di precisare: “dall’idroponica ai romanzi d’amore”.

Il tono non è legato solo alla presenza del gran personaggio: se si parla di potere si deve dire dei “miraggi allucinanti del potere”.

La Plaza de la Revolución è “inmensa”. L’embargo statunitense a Cuba è una “tormenta incesante” (così come, del resto è “incesante” l’affluenza nelle piazze dove parla il líder máximo). A un congresso partecipano sempre e solo “especialistas”, e la partecipazione è sempre “masiva”.

L’esagerazione è la norma, tutto – anche un viaggio in aereo – è considerato una “circunstancia extrema”. Niente può essere semplicemente detto, tutto deve essere sottolineato enfaticamente: molte volte “l’ho visto arrivare a casa mia” a notte fonda, “trascinando ancora le ultime briciole di una giornata smisurata. L’ho sentito nelle sue rare ore di rimpianto ricordare le albe pastorali della sua infanzia”. (E si noti anche che, in questo contesto, l’autore non manca mai di parlare di sé: io “l’ho visto arrivare a casa mia…”, io “l’ho sentito…”).

Per chi pensasse che il miraggio allucinante del potere, il mito della rivoluzione ed il valore simbolico della figura di Castro giustificassero in qualche modo l’enfasi, ecco come Márquez ci presenta Cortázar – nemmeno un amico, scrittore anzi da lui lontanissimo per stile e cultura: “Circa quindici anni dopo lo incontrai, finalmente, anche lui a Parigi, ed era ancora come lo immaginavo da tanto tempo: l’uomo più alto del mondo, che non si era mai dedicato ad invecchiare. La copia fedele di quell’indimenticabile latinoamericano al quale, in uno dei suoi racconti dell’altro cielo, piaceva andare sul far del giorno, tra le brume, a vedere le esecuzioni alla ghigliottina” (Desde Paris con amor, in Taccuino di 5 anni, 1980-1984, Mondadori, tr. A. Morino).

Plinio Mendoza parla di Gabriel, Eligio García parla “del leggendario Pasqualino de Santis”, Gabriel parla di Castro e di Cortázar, ma ogni descrizione ci appare eccessiva e intercambiabile.

Chi ci ha parlato di “imprevedibilità del vagabondare” e chi di “imprevedibili cieli”? E chi di bordelli mitologici? Chi di miraggi allucinanti del potere? Chi di bambini tristi e pericolosi e chi di albe pastorali? Chi dell’uomo più alto del mondo, “che non si era mai dedicato ad invecchiare”? E chi di “briciole di una giornata smisurata”? Chi di “latinoamericani indimenticabili” e chi di “meteorica fama mondiale”?

Lo stile, che definiremo nobel-marqueziano, ci appare come una macchina retorica codificata, facile da montare e smontare: Oldsmobile preistoriche che scivolano silenziose sfiorando il ciglio delle tenebre, camion americani spaventosi assassini meccanici sconvolti dalla follia, oceani di pietre e di brume, maghi della luce, inferni originari, pazienti cacciatori di farfalle invisibili, arrivi improbabili come la pioggia, colori febbrili, indie dagli occhi scuri, vicoli di polvere, la premonizione dei canneti, glorie, leggende, enigmi, sapienza, visioni totalizzanti, collere omeriche, favole del passato, e profluvi di aggettivi: tutto è infinito, immenso, invincibile, incredibile, irresistibile, instancabile, incessante, implacabile, ferreo, tenace, trionfale, colossale e millimetrico, perpetuo. O all’opposto stravagante, impudico, spaventoso, triste e pericoloso, allucinante, allarmante, incauto, oscuro.

L’unica domanda che resta da porci è se si tratta di un uso di effetti finalizzato a “elevare” a un rango superiore pagine giornalistiche, o se costituisce la vera essenza dello stile del Márquez maturo. Uno stile ormai divenuto modello di “bello scrivere” apprezzato e imitato in ogni dove.

Nei paragrafi seguenti, argomenteremo a favore della seconda ipotesi: Márquez scrive così non solo pagine d’occasione, ma anche opere che ci presenta come romanzi e che, in quanto tali, sono prese sul serio, anzi accolte entusiasticamente dalla critica. È il caso di El general en su laberinto, opera costata all’autore, come lui stesso non manca di precisare, “tre anni di ricerche storiche e due di macchina da scrivere”, frutto della consulenza di storici, linguisti e amici illustri dell’autore sparsi in tutto il mondo, cui “Gabo ha chiesto umilmente aiuto spendendo milioni di pesos in telefonate” (Carlo Rossella, citato sopra).

Per scrivere il romanzo l’autore “ha visitato le torride biblioteche del Messico e di Cuba, inseguendo fatti e personaggi fra libri e documenti ammuffiti dall’incuria”. (Carlo Rossella) “Il nuovo ritratto di vecchio alle soglie della morte emerge con qualche pigrizia dai torpori nebbiosi del fiume equatoriale” (Carmelo Samonà, Bolivar nel labirinto, «la Repubblica», 20 aprile 1989). “Squarci che ricamano attorno al personaggio una cornice densa e brumosa da racconto fantastico: esiti di uno stile che fu rigoglioso al tempo di Cent’anni di solitudine, e che ora contendono all’ affresco della grande storia uno spazio incerto” (Carmelo Samonà).

C’è bisogno, per parlare del General en su laberinto, di torpori nebbiosi, cornici dense e brumose, spazi incerti, biblioteche messicane che non possono non essere torride, libri e documenti inevitabilmente ammuffiti? La forza dello stile marqueziano sta anche in questa sua capacità di insinuarsi in ogni pagina che parla di Márquez e del suo mondo. È forse un insinuarsi surrettizio, un farsi largo in pagine di autori che vorrebbero resistere alla retorica? Non crediamo sia così. Crediamo invece che l’abbandono allo stile nobel-marqueziano sia volontario, e nasconda una sorta di pigrizia critica. Il critico coglie l’utilità di questa macchina fatta di parole parassite, sempre buone per nascondere i vuoti. Siccome trova comodo usarla, si guarda bene dal tentare di scoprire il funzionamento della macchina.

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