Best seller e letteratura

Raul Schenardi Autori, César Aira, SUR

César Aira, di cui le Edizioni SUR pubblicheranno in ottobre I fantasmi, oltre a essere un romanziere estremamente prolifico, è un saggista acuto e versatile, che si è misurato sia con testi di una certa ampiezza sugli scrittori argentini che ha amato e sviscerato (fra gli altri, Roberto Arlt, Copi, Alejandra Pizarnik), sia con interventi brevi e contundenti, come La nuova scrittura e il pezzo che pubblichiamo oggi, comparso qualche anno fa su Babelia, il supplemento culturale di El Pais.
Da notare la perfidia dell’ironia dell’autore, che una volta sgombrato il campo dalle argomentazioni contro i best seller che riecheggiano ragioni in un certo senso moralistiche, provvede a estrometterli tout court dal campo della Letteratura. E che dire dei suoi pelosi elogi a Umberto Eco? Vale la pena anche ricordare che in un’intervista, a una domanda sulla sua lunga attività di traduttore, ha risposto schermendosi che era un lavoro che faceva semplicemente per guadagnarsi il pane, e che di rado ha tradotto letteratura (e i romanzi di Stephen King? Be’, per l’appunto, quelli sono best seller…) Buona lettura!

di César Aira

Traduzione di Silvia Barcellona

Prima di tutto, e non fosse altro per mitigare un po’ l’abituale confusione che regna in materia, converrebbe fare una differenza tra i due usi della parola “best seller”: il primo e il più naturale, il significato che potrebbe dirsi “etimologico”, è quello di libro più venduto. Su questo, ovviamente, non c’è nulla da dire: qualunque libro può vendersi più degli altri, o più di tutti gli altri, in un determinato momento. Le circostanze più diverse, la moda, l’attualità, la casualità, possono portare a questo risultato. L’altro significato, su cui converrebbe riflettere un po’, è quello di best seller come genere specifico: il libro, di solito in forma di romanzo, fatto mirando al consumo di un pubblico immediato.

In realtà entrambi i significati della parola possono riconciliarsi, se affiniamo un po’ la traduzione. Best seller non è esattamente il “più” venduto, ma quello che si vende “meglio”. Infatti non conta solo la quantità, ma una qualità essenziale della vendita: la velocità. Ne deriva che è erroneo dire che i maggiori best seller sono la Bibbia e il Don Chisciotte. È vero che questi libri si sono venduti in numero incalcolabile (sebbene nel caso della Bibbia, per essere precisi, bisognerebbe sottrarre le copie regalate con fini di evangelizzazione), però se la vendita si realizza in mille anni, o cinquecento, l’affare si diluisce. Di modo che rimarremmo con una sola definizione unificante di best seller: il libro che si propone e riesce a essere venduto molto e velocemente.

In queste condizioni, parlare di best seller equivarrebbe a farlo in relazione a qualunque altro prodotto, dei tanti che entrano nel mercato a farsi concorrenza per trovare compratori. Il che non avrebbe un grande interesse, o lo avrebbe appena in termini socio-economici. Però c’è un’altra considerazione da fare sul tema, in termini più strettamente letterari, che può essere interessante.

I termini letterari, conviene chiarirlo, non sono i termini morali con cui in generale si parla di best seller. Qui il moralismo, che nel parlare di best seller sfocia presto in allarme, è totalmente ingiustificato. La letteratura è un’attività minoritaria, sempre lo è stata e sempre lo sarà, per quanto facciano gli scrittori o gli editori. È difficile, in realtà, vedere cosa guadagnerebbero gli scrittori se la loro attività smettesse di essere minoritaria; e questa fantasia invece contiene motivi di allarme, se si pensa a spese di che cosa potrebbe avvenire l’ampliamento sociale della letteratura.

Il best seller è l’idea, che ha dato frutti nei paesi di lingua anglosassone (paesi con una tradizione di lettura dei libri che non si è avuta altrove), di creare un intrattenimento di massa usando come “supporto” la letteratura. È una sorta di letteratura destinata a gente che non legge, né vuole leggere, letteratura (e alla quale non c’è niente da rimproverare, naturalmente; sarebbe come rimproverare chi non vuole praticare la pesca subacquea; inoltre, fra la gente che non si interessa di letteratura si conta il novantanove per cento delle grandi figure dell’umanità: eroi, santi, inventori, statisti, scienziati, artisti; la letteratura è un’attività molto minoritaria, anche se non lo sembra). Il best seller è materiale di lettura per gente che, se non esistesse questo materiale, non leggerebbe niente. Da ciò si deduce che l’allarme sia ingiustificato. Credere che qualcuno possa smettere di leggere Henry James per leggere Harold Robbins è un’ingenuità; se non esistesse Harold Robbins, i suoi lettori disoccupati non leggerebbero Henry James; non leggerebbero nulla, semplicemente.

La riflessione a cui invita il best seller è un’altra. Questi romanzi facili e per la massa sono il catalizzatore perfetto per rendere visibile quel fatto tanto misterioso che è la letteratura propriamente detta, l’elemento letterario della letteratura. Che si mostra, nel best seller, in senso negativo. Presentando un prodotto simil letterario chimicamente “pulito” di letteratura, il best seller è un inestimabile rivelatore dell’elemento letterario. Vediamo alcune differenze significative.

Il libro letterario fa sempre parte di una biblioteca. Isolato, vale ben poco in termini di piacere e sapere. Il vero simbolo dell’appassionato di letteratura non è il libro, ma la biblioteca. E questo si deve al fatto che la letteratura crea un sistema. Se uno legge, diciamo, Le ali della colomba, e gli piace, la cosa più probabile è che legga altri libri di Henry James, e quando li finisce (perché neanche i libri di Henry James sono infiniti) leggerà le sue lettere, prologhi, conferenze, una biografia, per esempio quella di Leon Edel con le sue ricche mille e cinquecento pagine, e da lì passerà ai contemporanei di James, ai suoi discepoli o maestri, a Flaubert, Turgeniev, The Ring and the Book, Proust… in cerchi concentrici che finiranno per abbracciare la letteratura intera.

Al contrario, se uno legge un best seller, per esempio un romanzo sul contrabbando di materiale radioattivo nel Baltico, e gli piace… Anche se gli piace moltissimo, anche se è il libro che gli è piaciuto di più nella sua vita, è molto improbabile che gli venga voglia di leggere un altro romanzo sul contrabbando di materiale radioattivo, o sul contrabbando, o sul Baltico. Ricorderà questa lettura come un momento piacevole, e lì finisce la storia. In quanto all’autore, chi è l’autore di questo libro? Un signore o una signora dal nome anglosassone, a volte di dubbia realtà: persino quando il loro nome diventa un marchio che vende, la casa editrice non ha altra strada se non pubblicare i loro libri come “un altro successo dell’autore di…”, confermando la curiosa circostanza per cui nel genere best seller importa più il libro dell’autore (e qui scopriamo, per contrasto, che nella letteratura succede il contrario).

Ecco uno dei vantaggi del best seller, uno dei suoi vantaggi di mercato, si potrebbe dire: si presenta intero e completo, autonomo, seducente di per sé. Per qualcuno non interessato alla letteratura, che debba fare un noioso viaggio in treno, o abbia la febbre e non possa trasportare il televisore in camera da letto, che c’è di meglio di uno di questi romanzi? L’intrattenimento finirà quando finirà la noia, senza conseguenze fastidiose. A questo effetto concorrono il titolo e la presentazione del libro, in genere di un’onesta prevedibilità. Un romanzo intitolato Ostaggi nella cattedrale, per esempio, non ha bisogno d’altro per attirare il lettore, che dall’inizio può immaginare tutto: il gruppo di terroristi con il suo leader, il suo psicopatico, il dubbioso e la sua ragazza, le beghine impaurite, il vescovo mediatore, le truppe che circondano il tempio, il giornalista audace… Invece un libro intitolato Le ali della colomba è una pura scommessa, un understatement per universitari, un enigma dalla soluzione molto complicata. (Al contrario, anche qui sta una delle virtù della letteratura: costituire una promessa di letture inesauribili per tutta la vita, l’ingresso all’autentica Biblioteca di Babele.)

Però il nocciolo della differenza tra best seller e letteratura è la sincerità, elemento irriducibile e vero spartiacque. Da un lato ci sono gli usi diretti e veritieri della parola, il corso utilitario della parola nella società: qui confluiscono i “Buongiorno”, “Ti amo”, “Passo a prenderti alle otto”, e il best seller. Dall’altro lato c’è questo particolare interrogativo sul significato di quella che chiamiamo Letteratura. L’incompatibilità è assoluta; a questa voce bisogna ascrivere il fallimento nello scrivere best seller di certi scrittori con una formazione prettamente letteraria. La letteratura è falsa su due piani: usa una parola il cui valore di scambio cessa di essere il suo significato diretto, e mette in scena il teatro di questo uso perverso. Il best seller è simmetricamente veritiero su due piani: dice quello che vuole dire e lo offre per quello che è.

Orbene: la letteratura, che è sperimentazione, potrebbe fare l’esperimento (visto che ne ha già fatti tanti) di praticare una scrittura totalmente sincera, non al di qua ma al di là della sua falsità costitutiva. In questo modo, con una svolta completa, potrebbe dare un simulacro accettabile di best seller. Questo esperimento è stato fatto un po’ di anni fa, e con eccellenti risultati: L’amante, di Marguerite Duras. È stupefacente constatare il fiuto del pubblico acquirente, in questi casi.

Con Il nome della rosa di Umberto Eco è successo qualcosa di diverso, e di molto più istruttivo. Questo romanzo è un autentico best seller dall’inizio alla fine; per cominciare, è totalmente sincero, dato che l’autore è un famoso professore, un professionista dell’espressione esatta dei suoi pensieri. Però mette anche in risalto due precise contraddizioni tra best seller e letteratura, la primo delle quali è l’intenzione. La letteratura è sempre un’intenzione deviata; il best seller un’intenzione realizzata. Lo stesso Eco l’ha dichiarato: si era proposto di realizzare “un romanzo poliziesco che si sviluppasse in un monastero del XII secolo”. E lo ha fatto, è indubbio. La vera letteratura, e questo si fa più evidente quanto più è grande, risulta in confronto un labirinto di propositi falliti e risultati insperati. Cosa si proponeva Cervantes nello scrivere il Don Chisciotte, Byron il Don Juan, Kafka La metamorfosi? Di certo le loro intenzioni, anche se avessero potuto esprimerle in modo chiaro (ammesso che esistessero!), non avrebbero trovato posto in una limpida frase soddisfatta come quella di Eco. Il best seller è “un sogno realizzato”, mentre la letteratura è un sogno in divenire; ed è un sogno realizzato anche perché realizza il sogno degli scrittori di diventare ricchi, dettaglio che la pubblicità non smette di sottolineare.

Il secondo contrasto sta nella matematica, la conoscenza o l’informazione incorporate al romanzo. Nella letteratura questo sapere è sempre stato grande, ma è sempre stato svalorizzato nel momento di subordinarsi a un meccanismo artistico, in cui la verità è sottomessa a una prospettiva. Il sapere abbondante che veicola Il nome della rosa non è svalorizzato in assoluto, al contrario viene messo in risalto dall’amenità e dal didatticismo. Tanto che questo romanzo potrebbe essere perfetto per chi volesse iniziare a studiare la cultura medioevale. Lo stesso accade con tutti i best seller ben fatti. (Per esempio i romanzi successivi di Eco.)

Possiamo concludere denunciando un altro equivoco frequente, quello di chi afferma che il best seller è un attentato alla cultura. Tutto il contrario. Se di cultura si tratta, di cultura generale e utile, il best seller è l’ideale. Leggendo best seller si apprende di storia, di economia, di politica, di geografia, sempre con scelta e in forma divertente e varia. Mentre leggendo letteratura autentica non si acquisisce altro che cultura letteraria, che è la più inefficace di tutte.

 

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