Francesco del Cossa

Un dipinto così bello che mi ha disturbato il respiro.
Come è nato L’una e l’altra

Ali Smith Ali Smith, BIGSUR, Scrittura

Ferrara, il Rinascimento, gli affreschi di Francesco del Cossa: Ali Smith racconta le fonti di ispirazione alla base di L’una e l’altra. Questo articolo è apparso originariamente sul Guardian. Viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autrice, che ringraziamo.

di Ali Smith
traduzione di Martina Testa

Un giorno, nell’aprile del 2013, ho visto una foto. La foto era su Frieze, la rivista di arte, che stavo sfogliando mentre facevo colazione. Ho fatto un bel sorso di caffè e l’ho aperta sulla riproduzione a tutta pagina di un dipinto così bello che mi ha disturbato il respiro e fatta quasi strozzare.

Rappresentava un uomo vestito di quelli che non erano altro che stracci laceri color bianco sporco. Al tempo stesso, sembravano gli abiti più ricchi e splendidi che a uno potesse mai capitare di indossare. La tunica era sbrindellata intorno ai polsi ma cadeva anche a pieghe e balze, elegante, riccamente drappeggiata, intorno alla parte superiore delle cosce, che si intravedevano in mezzo alla stoffa dei pantaloni, logori, rattoppati e tenuti insieme con lo spago, con strappi a metà gamba da cui sbucavano le ginocchia.

L’uomo era nero, o forse arabo, o forse solo un italiano molto meridionale. Aveva i polsi e le braccia robusti, con le vene in rilievo. Era palesemente un manovale di qualche tipo, in pausa ma pronto a tutto, a qualunque cosa lo aspettasse, un amico, un nemico, un amore, un lavoro, con una mano sul fianco e nell’altra l’estremità di un pezzo di corda spessa che portava annodata alla vita a mo’ di cintura, delicatamente sfilacciata sul fondo, come a dire: guardate, non sono legato a nulla, non sono schiavo di nessuno, ma se volete che faccia qualcosa per voi, ecco, dovete solo prendere questa. L’altro capo della corda-cintura gli penzolava fra le gambe quasi come un lungo cazzo, e la figura in sé, in tutta la sua forza, bellezza, grinta e vigile attesa, campeggiava fluttuando su uno sfondo blu carico e brillante.

Vecchia? Sembrava vecchia, ma anche moderna. Sulla pagina a fianco c’era una piccola striscia rettangolare che assomigliava stranamente a un fumetto. Dentro c’erano tre figure sospese nello stesso splendido blu, prima una, poi l’altra, poi l’altra ancora: questo manovale, poi una donna incantevole con un vestito rosso acceso svolazzante, che stava seduta letteralmente a mezz’aria sopra una capra o una pecora dal muso insolente il cui vello era trapuntato di, cos’erano, il sole e le stelle? Poi, accanto a loro, lussuosamente vestito in maniera molto più convenzionale, un ragazzo molto pallido, o era una ragazza?, che teneva in mano, con gesto alquanto effeminato, un piccolo cerchio d’oro e un bastone. No, una freccia.

Ti ho dato una voce dal fondo delle scale.

Hai mai sentito nominare un posto di Ferrara che si chiama, ho detto.

Poi ho guardato di nuovo la rivista, per capire come pronunciarlo.

S ch iff… a…

Ferrara? Dove sono ambientati i romanzi di Bassani?, hai gridato tu dal piano di sopra.

In effetti piuttosto di recente, durante le vacanze di Natale, avevo letto in traduzione inglese un paio di romanzi di Giorgio Bassani, il grande scrittore italiano del Novecento, uno dei quali (Gli occhiali d’oro) me l’avevi raccomandato tu dopo che l’avevi aperto sul treno, tornando da Londra, ed eri scesa alla stazione, arrivata fino a casa, entrata dalla porta e andata a sederti sul divano senza riuscire a staccartene. Mi ricordavo, all’epoca, di avere in realtà già letto il suo romanzo più famoso, Il giardino dei Finzi-Contini, che mi era piaciuto parecchio, una decina di anni prima. Poi avevo letto quello che mi avevi prestato tu ed ero andata subito a ricomprarmi il primo, entrambi in una nuova traduzione inglese del poeta Jamie McKendrick. Che rivelazione. Che botta, che libri stupefacenti. Che scrittore, e sì, tutti e due i romanzi erano intimamente legati a quella piccola città italiana, Ferrara, e parlavano dell’effetto, su una cittadina apparentemente integrata, e in particolare sulla sua ristretta comunità ebraica, delle leggi razziali varate da Mussolini alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Il dipinto sembrava un affresco. L’articolo che lo accompagnava, di Jan Verwoert, non diceva nulla sul pittore ma molto dell’interpretazione che aveva dato Aby Warburg, filosofo e critico culturale degli inizi del secolo scorso, della natura esoterica del ciclo di dipinti del palazzo, facendone risalire l’origine a uno straordinario miscuglio di influenze e trovando un incontro fra Oriente e Occidente, fra Nord e Sud, nei testi e nelle iconografie latine e arabe su cui erano basati.

(Per inciso: il Warburg Institute, l’importantissima biblioteca e collezione di tesori, testi, immagini e materiali creata da Aby Warburg, e trasferita negli anni Trenta da Amburgo a Londra per sfuggire ai nazisti che l’avrebbero rubata e distrutta, al momento corre il rischio di essere smembrata e venduta dall’Università di Londra, che si era originariamente impegnata a conservarla dopo che Samuel Courtauld aveva fatto in modo di portarla in Inghilterra.)

Per coincidenza, da qualche tempo giravo intorno a un’idea per la struttura di un nuovo romanzo. Avevo trovato e comprato, in una libreria di seconda mano, il vecchio catalogo degli anni Sessanta di una mostra internazionale di affreschi del Rinascimento. Le terribili inondazioni di quel periodo, che avevano danneggiato tante pitture murarie a Firenze, avevano dato luogo a una forma innovativa e avanzata di restauro che prevedeva la rimozione dello strato di affresco dalla parete, e dava così la possibilità di portare casualmente alla luce, per la prima volta dalla realizzazione dell’opera, i disegni sottostanti, o cartoni, o sinopie, eseguiti dagli artisti. Mi piaceva l’idea che quei primi disegni fossero sempre stati lì, invisibili sotto la superficie del muro, perché dopotutto l’affresco è quello, una parte reale e concreta del muro. Mi chiedevo se fosse possibile scrivere un libro che avesse qualcosa di simile a quella struttura di strato e sottostrato, un libro capace di fare l’una e l’altra cosa.

Andiamoci, ho detto.

Ok, hai gridato tu dal piano di sopra. Quando?

Ho cercato su internet quel posto, Palazzo Schifanoia, per controllare gli orari di apertura.

Ah, ho detto. Aspetta.

Era, a quanto mi sembrava di capire, chiuso fino a data da destinarsi.

Terremoti, ho detto. Nel Nord Italia. L’anno scorso.

5.9 della scala Richter. E poi un altro, 5.8. L’idea che un dipinto del genere potesse essere stato danneggiato o addirittura distrutto – la semplice idea che quel dipinto, di cui avevo scoperto l’esistenza solo un paio di minuti prima e di cui non sapevo praticamente nulla, potesse non esistere più – mi ha fatto star male.

Sei scesa. Ti ho passato la rivista per farti vedere la foto.

Di chi è?, hai detto.

Ho voltato la pagina per rileggere il nome.

Qui dice Francesco del Cossa, ho detto.

Tu hai scosso la testa.

Chi?, hai detto.

 

Ho cercato su internet Francesco del Cossa. Le notizie, almeno in inglese, erano sorprendentemente scarse.

Era nato negli anni Trenta del Quattrocento, ma sulla data precisa tutti i siti discordavano. Sembrava che fosse famoso soprattutto per gli affreschi di quel palazzo, commissionati da un duca ferrarese che voleva un salone, nel palazzo un po’ fuori mano che stava ristrutturando, decorato con scene celebrative delle attività tipiche dei vari mesi dell’anno, che comprendessero lui stesso come personaggio e fossero sovrastate, per ciascun mese, da immagini delle divinità mitologiche più appropriate. Da internet sono uscite una decina di altre riproduzioni dei suoi dipinti, una pletora di pagine in italiano e poco altro. L’informazione principale che si aveva sul conto dell’artista, però, era curiosa. Mentre era al lavoro sugli affreschi del palazzo aveva scritto una lettera al duca chiedendogli di pagarlo meglio degli altri artisti impegnati nel progetto. Il duca si era rifiutato. Il pittore, sdegnato, se n’era andato da Ferrara e aveva preso la via di Bologna, dove non c’era nessuna corte.

Dopodiché, non solo era morto di peste a poco più di quarant’anni, in una data di cui nessun sito internet aveva assoluta certezza, ma era anche letteralmente scomparso dalla faccia della storia. Vasari, il grande critico e storico dell’arte, aveva sbagliato il suo nome, confondendolo con Lorenzo Costa. Col declino della casa d’Este il palazzo era stato venduto, era caduto in rovina e passato di mano in mano, era stato trasformato in una scuderia e poi in uno stabilimento di lavorazione del tabacco. Un giorno, quasi quattrocento anni dopo, parti di intonaco si erano staccate dalle pareti e gli operai dello stabilimento avevano visto occhi e pezzi di faccia guardarli dalle crepe. Avevano tolto l’intonaco e trovato le magnifiche decorazioni della sala, uno dei primi capolavori di pittura non religiosa. I dipinti sopravvissuti erano stati un po’ restaurati e automaticamente attribuiti al pittore ferrarese più famoso del Rinascimento, Cosimo Tura.

Poi, verso la fine dell’Ottocento, lo storico dell’arte modenese Adolfo Venturi aveva scoperto in un archivio la lettera di un artista che chiedeva al duca un aumento del compenso.

È, a quanto pare, la prima testimonianza di un artista che chiede di essere pagato una somma adeguata al suo valore – o che manifesta la sua vanità in termini economici, a seconda di come la si vuole vedere.

Ricordo supplicando a sua Signoria che io sono Francesco del Cossa, il quale da solo ha fatto i tre campi verso l’anticamera: sicché, qualora sua Signoria non volesse darmi altro che dieci bolognini per piede quadrato, io ci perderei quaranta o cinquanta ducati […] pur avendo cominciato ad avere un po’ di nome, sarei trattato e giudicato come il più triste apprendista di Ferrara […] e io ho studiato, e studio continuamente, e ho usato oro e colori buoni a mie spese […] e ho dipinto quasi tutto a fresco, che è un modo di lavorare avanzato […]

Il duca, che si chiamava Borso d’Este, e che era noto per la sua generosità nei confronti degli artisti che patrocinava e delle persone da cui voleva favori, tipo gli imperatori e i papi, scrisse a matita in latino, in calce alla lettera, una frase che pressappoco significa: Pagatelo come tutti gli altri.

 

Ferrara: una cinquantina di chilometri da Bologna. Città medievale fortificata, alte mura e cielo aperto nella valle del Po, sul lato orientale della pianura dell’Emilia Romagna. Malinconica, bellissima, ricca di storia. Spesso chiamata la città natale del Rinascimento. Famosa nel mondo per il suo patrimonio culturale, mantiene comunque il suo carattere di piccolo centro, e allo stesso tempo, data l’antica pianificazione urbanistica che l’ha dotata delle sue grandiose mura circolari (iniziate nel tardo Quattrocento) e il suo misto di viali lunghi e ampi e vicoli stretti e tortuosi, nel 1860 Burckhardt poteva chiamarla «la prima città veramente moderna d’Europa».

Fu governata per tutto il Rinascimento dalla famiglia d’Este, i cui marchesi e duchi sono leggendari per il mecenatismo nei confronti dei pittori della Scuola di Ferrara, come Cosimo Tura ed Ercole de’ Roberti, e di scrittori come Tasso e Ariosto: Tasso, oggi molto meno letto, ebbe un’enorme influenza su Goethe, Milton, Byron e una serie di musicisti che vanno da Scarlatti e Vivaldi a Liszt e Dvorak; mentre il geniale, spassoso ed esuberante poema di Ariosto, l’Orlando furioso – un’epopea di cavalieri e duelli, eroiche amazzoni in armatura, maghi nelle caverne, fattucchiere, re e regine, e perfino cavalli alati – è uno dei motivi per cui abbiamo il Don Chisciotte di Cervantes e Fairie Queene di Spenser, nonché un bel po’ di Shakespeare.

Sempre figlio di Ferrara è un altro personaggio famoso del Rinascimento, il predicatore Savonarola, noto per il suo fanatismo e per l’abitudine di dare alle fiamme i libri che non gli andavano a genio.

In un’epoca di fanatici bruciatori di libri più vicina alla nostra, il più assiduo cronista moderno della città, Giorgio Bassani, era un giovane ebreo ferrarese nel momento in cui furono varate da Mussolini le leggi razziali, nel 1938, e scampò per un pelo al destino della deportazione che colpì invece molti dei membri della piccola comunità ebraica cittadina. Tutte e sei le sue opere ruotano tipicamente attorno a quel luogo e a quel periodo specifico, come le vecchie mura fortificate che circondano la città.

Alla fine Bassani le raccolse tutte e sei in un’unica grande opera intitolata Il romanzo di Ferrara. Si dice sempre, riguardo a Bassani, che il lettore potrebbe girare per la città usando i suoi romanzi e racconti come mappa, e in qualche modo la narrativa di questo spassionato, spietato e lucidissimo testimone delle sequenze e delle conseguenze storiche – i cui scritti hanno quasi sempre al centro la città che deve decidere chi includere o escludere come suo cittadino – è, in fondo e contro ogni aspettativa, una dichiarazione d’amore.

Bassani non riesce a non guardare con passione a Ferrara, e verso la fine della sua vita scrive abbastanza apertamente del duraturo, paradossale rapporto che ha con le sue «mura rosse», e del fatto che tutta la sua opera è stata una sorta di «accarezzamento ed esplorazione» di «ogni parte» del corpo della problematica città natale.

E come se non bastasse aver dato i natali a un grandissimo artista italiano del Novecento, l’altro più famoso figlio di Ferrara in tempi recenti si dà il caso che sia il regista Michelangelo Antonioni, meglio noto forse per un film di culto degli anni Sessanta come Blow-Up e per la grande trilogia europea sulla moderna amoralità del dopoguerra interpretata da Monica Vitti, Jeanne Moreau e Alain Delon: L’avventura, La notte e L’eclisse. La sua carriera di cineasta, lunga una vita intera, comincia e finisce con due film realizzati nella sua città. Il primo, Cronaca di un amore (1950) fu girato lì; e Antonioni vi ritornò a distanza di quasi cinquant’anni, accompagnato da Wim Wenders e da una macchina della nebbia – in modo da dare a Ferrara l’aspetto malinconico che le è proprio – per girare Al di là delle nuvole, il suo ultimo film.

 

Erano passate un paio di settimane. Me ne stavo sul divano, a cercare cose in rete. Ho cliccato su una pagina. Ho tradotto alla meglio quel poco di italiano che capivo. Mi sono drizzata a sedere. Ho gridato verso il piano di sopra.

Palazzo Schifanoia riapre!, ho urlato. O almeno, una parte! La parte con il dipinto che vogliamo vedere, il Salone dei Mesi, mi sa che sta riaprendo! E senti questa: il nome, Palazzo Schifanoia, significa palazzo dove ci si sbarazza della noia!

Nessuna risposta.

Schifa noia, rifiuto della noia, ho gridato. Abbasso la noia.

Nessuna risposta.

Qui dice così, ho gridato.

Nessuna risposta.

Sono salita di sopra.

Era metà pomeriggio. Ti eri addormentata come un sasso mentre eri seduta alla scrivania, con tutto il tuo lavoro aperto intorno.

Oddio, ci serve una vacanza, ho pensato.

L’albergo si chiamava Annunciazione. Era raffinato, comodo, sorprendentemente economico. Si apriva su una piazza con un castello rosso-bruno delle dimensioni di parecchi dinosauri sdraiati uno in fila all’altro. Sul marciapiede davanti alla reception c’era una fila di sei splendide biciclette dalle linee curve, gratuitamente a disposizione dei clienti. Marca Adriatica. Ne abbiamo prese due. Ci siamo avviate pedalando lungo una strada e abbiamo imboccato una via pedonale su cui pedoni e ciclisti si muovevano insieme in una coreografia leggiadra e tranquilla. La città ci ha accolto con calore e grazia, la pietra rossa e gialla dei muri di quelle che dovevano essere le case della gente, che con la loro altezza e uniformità chiudevano fuori i passanti e al tempo stesso lasciavano immaginare uccelli, fiori e giardini al proprio interno. Poi le mura della città: in cima alle quali corre una splendida strada alberata, il cui percorso cinge la città in una fascia verde piuttosto inusuale in un’Italia spesso bruciata dal sole.

Senza saperlo, siamo passate in bicicletta sopra e accanto alla tomba di Bassani nel bellissimo cimitero ebraico. Abbiamo superato la vecchia sinagoga (dove, in uno dei racconti più epocali di Bassani, un uomo cencioso appena tornato dai lager si ferma sotto uno scalpellino che sta incidendo i nomi dei caduti su una lapide incastonata nel muro e lo chiama, quando lo vede scrivere il suo nome, per dirgli che non è morto).

Ci siamo fermate, a un certo punto, fuori da un palazzo imponente perché si annunciava, su una targa, come la sede di un’organizzazione chiamata Associazione Antonioni. Una telecamera di sorveglianza montata sull’alto muro ci avrà registrato mentre sbirciavamo nel giardino dal cancello.

Su un lato del castello ho comprato un’ala d’angelo di legno, dipinta d’oro, appena più piccola della mia mano, su una bancarella che vendeva vecchi frammenti di decorazioni lignee delle chiese. La signora dietro il banco l’ha buttata in un sacchetto di carta marrone e mi ha chiesto due euro. Dall’altro lato, ci siamo fermate a guardare la statua cupa e spaventosa di Savonarola, incappucciato, focoso, che agita le mani nell’aria come se stesse lanciando una maledizione. Laggiù, vicino al fossato, è il punto in cui nel 1943, dopo l’invasione nazista, mettevano in fila le persone «che avevano un atteggiamento ambiguo rispetto al nuovo Partito fascista» e gli sparavano.

Forti di quest’ala e di quella preghiera, abbiamo pedalato per la bella Ferrara fino a Palazzo Schifanoia.

 

Ho evitato di parlarne fino a questo punto dell’articolo in parte perché non voglio spiegare a nessuno che effetto mi ha fatto andare a Palazzo Schifanoia e ammirare i suoi affreschi dei mesi, delle divinità, delle stagioni. Oddio, no, non è vero: in parte lo vorrei dire a tutti. In parte non riesco a non parlare di quanto calore e benessere si prova anche soltanto a mettere piede nel Salone dei Mesi. Ma una parte di me vorrebbe anche rendere onore al senso di segretezza e al silenzio che si godono a Ferrara mentre la si attraversa, e non dire nulla, o comunque non dire molto, di quando siamo arrivate al lungo muro di mattoni che forma la facciata del palazzo, e siamo entrate dal vecchio portone di legno e dalla nuovissima porta di vetro, abbiamo pagato i tre euro, ricevuto i biglietti con sopra la Venere di Del Cossa, abbiamo salito le scale, oltrepassato la tenda che chiude la porta e ci siamo ritrovate di colpo in una lunga sala luminosa/buia che sembrava doppiamente, simultaneamente, sia deserta – ci siamo andate parecchie volte, e parecchie volte c’eravamo in pratica solo noi, al massimo altre due o tre persone – sia affollata, perché le pareti sono ricoperte di vita, graziosa, prospera, colorata. Specie i mesi di marzo, aprile e maggio, quelli dipinti da Del Cossa, che, a giudicare solo dall’impressione che si ha girando gli occhi sulla sala, potrebbe essere stato l’artista che ha staccato il Rinascimento dal suo iniziale realismo più grottesco (bisogna guardare i dipinti che restano sull’altra parete, opera degli altri pittori), lanciandolo verso quello che siamo giunti a riconoscere come il suo pieno stato di grazia. È come guardare qualcosa di shakespeariano. Ma cento anni prima della nascita di Shakespeare.

Le pareti di metà del salone sono sbiadite. Solo sette dei mesi sono sopravvissuti completamente – da marzo a settembre – perché erano stati dipinti con la tecnica dell’affresco, quel «modo di lavorare avanzato», invece che a secco. Ciascuno dei mesi ha il suo cielo e la sua terra, il cielo in cima e la terra in basso, entrambi brulicanti di dettagli e, nei mesi di Del Cossa, realizzati con eleganza e gusto della satira. Forse non sorprende che il duca gli abbia rifiutato la richiesta di aumento. Avrebbe dovuto passare sopra al modo in cui Del Cossa aveva rappresentato il palio locale (invaso da pazzi che corrono in camicia di forza e osservato dall’alto da un gruppo di prostitute) e il duca stesso che parte per la caccia con i suoi cortigiani (senza accorgersi che stanno per cadere con tutti i cavalli dal ciglio di un burrone, precipitando fra le rovine di una città scoperchiata). Certo, apparentemente i cieli in alto mostrano i ripetuti arrivi degli dei, circondati dai simboli della fertilità e della creatività, e la terra sottostante è sempre una visione piuttosto lusinghiera della vita ufficiale del duca mentre gira in mezzo al suo popolo, elargisce doni da una parte e amministra la giustizia dall’altra, circondato da cortigiani, cittadini, cavalli, oche, conigli, cacciatori, lunghe vedute di campi e fiumi, torri in lontananza.

Ma fra il cielo e la terra c’è una striscia blu di cielo, e nella striscia blu i pittori del salone hanno collocato delle figure sospese, che rappresentano simboli astrologici, e quelle figure, nella loro configurazione, grazie alla mano inestimabile di Del Cossa, creano davvero una sorta di magia. Non so come altro descriverlo.

E su quel muro, fluttuante nel blu, c’è il manovale dipinto dall’artista perduto e ritrovato, l’uomo che, sebbene indossi solo stracci, sembra l’individuo più raffinato e ben fatto che sia mai esistito. La sala è piena di duchi e cortigiani e lui è la figura più potente di tutte. È fuori di dubbio. L’uomo che non ha nulla è tutto.

Fuori, se si esce nel piacevole giardino (dove, fra parentesi, c’è un ottimo ristorante a gestione collettiva) e ci si volta a guardare il muro del palazzo, si vede una lunga crepa sottile, all’altezza del tetto: come se il terremoto avesse soltanto dato un colpetto col dito, per un attimo, in quella direzione.

Che posto.

Che storia.

Il palazzo dove non ci si annoia.

© Ali Smith, 2014. Tutti i diritti riservati.

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