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Per un barocco americano: Lezama Lima e l’avventura dell’immaginario / 4

Francesco Varanini Autori, José Lezama Lima, Ritratti, SUR

Pubblichiamo oggi la quarta parte del saggio di Francesco Varanini dedicato allo scrittore cubano José Lezama Lima. Qui le puntate precedenti.

Ondate in successione / 4
di Francesco Varanini

Ricorrendo al nostro erotismo, abbandonandoci alla poiesis, alla poesia che si sta facendo qui ed ora, possiamo seguire Lezama lungo un cammino interpretativo che legge come immagine a sé stante il misterioso verso. «En roscas de cristal serpiente breve». Le spire della serpe si avvolgono su se stesse, e con esse il senso del verso, in una spirale infinita.

È la serpe stessa ad essere di cristal, il supraverbo ce la mostra encrustada di diamanti e di rubini e di smeraldi. Eliotropo, agata, «color verde oscuro con manchas rojizas», carbonchio «lucido e vermiglio», immobile, ma solo perché del movimento dell’essere vivente l’immagine coglie il breve apparire istantaneo, le spire possono svolgersi e riavvolgersi, tutto sta nell’en, in questo istante – nel mondo circostante qui ed ora –, in questo attimo – atomo di tempo – in questo momento: immagine, appunto, che fissa il movimento, il costante divenire.

Un percorso di senso, un cammino che ci sporge sull’abisso, e che però, via via che lo percorriamo, seguendo le tracce di Lezama, via via ci appare meno impervio, per noi percorribile, se ci muoviamo, come ci propone Lezama, con il passo lento e tenace del mulo, capaci di reggere la vertigine.

Ecco il barocco, lo sguardo americano posato su un mondo nuovo, americano, noi chiamati a muoverci sul crinale di senso più pericoloso, fiduciosi che mai precipiteremo nell’abisso del assenza di senso – ma sfiorando l’impossibile alla ricerca di nuove tangenze, nuovi nessi, nuove chiavi di lettura.

L’immagine che ora emerge nella mente del poeta può essere detta solo con queste parole, in questo modo, il poeta lo sa. Nella expresión americana, così come la intende Lezama, nella estrema sintesi poetica, nell’immagine, materia e forma non possono essere separate. Il paesaggio americano porta ad esprimersi in questo modo. Anche questo il poeta lo sa.

Eppure Góngora e Valéry e più di loro Menéndez y Pelayo ed ogni esegeta normalizzatore tendono a separare e a distinguere. Eppure le preferenze di Valéry, scrive Lezama, «lo portano a pensare che quelle serpi dovevano avanzare formando e distruggendo le proprie sillabe su una fissa materia di contrasto. Egli cerca un fondo di immobilità, le “rocce di cristallo”, su cui potevano svolgersi quegli oscuri giochi delle serpi».

Così Lezama ci mostra come la sindrome di Góngora e di Valéry ha una ulteriore manifestazione: il bisogno di un supporto. Il foglio di carta manoscritto – fissa materia di contrasto, fondo di immobilità, manifestazione del timore di non saper illuminare la scena con la propria parola – è ciò che per la serpe è la roccia, supporto necessario se il poeta teme che l’immagine gli sfugga, se non sa abbandonarsi al lumen del proprio sguardo e alla lux del paesaggio. Ed ancor più fissa materia di contrasto, fondo di immobilità è la pagina de libro, apparente rassicurante costante durevole nel tempo. Pagina stampata, ancoraggio necessario, senza il quale sembra che la poesia non possa esistere.

Che limitazione! E che spazio concesso de antemano al controllo. Omero e Dante e Shakespeare pensavano poesia orale, a prescindere dalla scrittura e dalla pubblicazione libresca. Cervantes, invece, condizionato dal fatto che poesia e letteratura ormai non esistevano se non attraverso la fissa materia, il fondo di immobilità del libro, si autocensurava per timore della censura. Non è una differenza dappoco.

Lezama riporta al centro la poesia, che è creazione, pienezza, libertà – e cosa importa dell’ortografia e della cura del dettaglio che adesso pare importante, ma che tra un attimo ci apparirà irrilevante. Perché il movimento della serpe ci mostrerà una immagine diversa. Così la serpe en roscas de cristal, fissata nell’attimo in cui ogni movimento è possibile, poesia potenziale, ricchezza enorme implicita nell’immagine, non ancora sprigionata, ci provoca un «sobresalto de los sentidos», ci appare fonte di «placer interminabile», nucleo generatore di mondi possibili, di «planetas zumbantes». Vivente «piedra despidiendo imágenes», «canasta estelar de la eternidad».

La noche è dichosa, amable. La «suspensión de los sentidos». La scelta di stare «a escuras, y en çelada»: «dentro il buio, e quindi al sicuro». L’anima «que está como de noche a oscuras, lo cual no es otra cosa sino un vacío en ella de todas las cosas». [Subida al Monte Carmelo, 3, 1 e 2] La «privación del gusto en el apetito», e di conseguenza «de todos los objetos que se pueden ver mediante la luz».

San Juan de la Cruz ha il merito di farci vivere l’esperienza della notte. La secca, asciutta essenzialità di una salvezza cercata attraverso la privazione. La pace conseguita perché «el alma sale del cuerpo».

È un aspetto del barocco secentesco che Lezama tiene in gran considerazione. Per il suo valore intrinseco, e perché – per contrapposizione – San Juan ci mostra ciò che manca a Góngora. Il «rayo», che è il gran dono di Góngora, necessita e reclama  «aquella noche oscura envolviente y amistosa». Il lumen, lo sguardo che illumina mostra la sua grandezza se messo alla prova nella notte. «Aquel rayo de conocer poético sin su acompañante noche oscura, sólo podría mostrar el relámpago de la cetrera actuando sobre la escayolada», quel raggio, quel lumen, al di fuori della notte, non riesce a mostrarci che immagini stantie, come il bagliore di un falco che, ridotto a ombra, agisce sulla superficie intonacata del muro.

Agli occhi di Lezama, Góngora – estatico, ozioso, indolente –, turbato dalla stessa potenza del suo «rayo», confortato dalla facile luce del giorno, rifiuta lo difícil, rifiuta di guardare nella noche oscura, si ferma a baloccarsi con metafore attinte dall’arte della falconeria; con figure grecoromane imbalsamate, miti e dei altrui assunti come propri, miti usati come gabbia deresponsabilizzante. Il «rayo del conocer poético», che Lezama tanto ammira, finisce così per vedere solo immagini di moda. Legittimando così i lettori che vedono rocas de cristal lì dove si muove la viva sierpe enroscada.

Ma se alla «penetración de luminosidad» di Góngora manca la «noche oscura de San Juan», a San Juan, nota Lezama, manca la capacità di accettare la luce, la pienezza della vita.

A San Juan, Lezama imputa «un no de retiramento y llaneza ácuea que termina como ocupación suavemente placentaria del sí». Negazione, allontanamento dal mondo, placido rifugio in se stessi, la notte oscura finisce così per essere una protettiva placenta: immersi in acque amniotiche si vive «a oscuras», lontani da ogni pericolo, ma anche dalla vita consapevolmente vissuta.

San Juan de la Cruz, dunque, agli occhi di Lezama, rifiuta lo difícil abbandonandosi alla «suspensión de los sentidos» di uno stato pre-natale.

Góngora e San Juan: «dos grandes estilos de vida», commenta Lezama, «o si se quiere decir de una manera más peligrosa de poesía no poetizable», «han impedido que en España existiese la gran poesía».

Così, Lezama, parlando di Góngora e di San Juan, dicendo dei limiti del loro barocco, ci parla della propria storia di vita, del proprio progetto, del proprio sistema poetico. Rosa-Rialta non chiedeva a José negazioni di un mondo cattivo, ma la trasfigurazione del mondo. Il Paradiso si raggiunge passando attraverso l’Inferno. La resurrezione – che è anche una resurrezione del corpo, carnale – passa attraverso l’esperienza della morte. Senza l’esperienza delle tenebre non si può comprendere l’importanza della luce. La pienezza espressiva, festa dei sensi, è frutto conseguito solo perché il poeta ha affrontato il pericolo, ha accettato il rischio de lo difícil.

Ma allo stesso tempo, così parlando di Góngora e di San Juan, ci parla dell’America. Se «el español», dimezzato il proprio modo di essere – da un lato il «gongorino rayo» ridotto a fabbrica di facili figure, dall’altro le «bienaventuradas agua placentarias» –, ha perso «el sentido de la gran poesía», il testimone non può che passare al «criollo américano». Che è, continua con orgoglio Lezama, il solo «español perviviente», il solo spagnolo sopravvissuto, capace di fare poesia, capace di portare il barocco al di là dei confini immaginabili in Europa.

Perché ha saputo coltivare il proprio sguardo, e perché ha sotto gli occhi «otro paysaje», il «bosque americano».

Il latino imago trae origine da una radice ir-, che esprime l’idea dell’«imitazione». (Da qui anche imitare ed emulare, appunto: «cercare di riprodurre l’immagine»). Così l’imago picta è il «ritratto». Ma è anche «ombra», «apparenza», «eco». L’imago latina rimanda alla phantasìa greca (dal verbo phàinein, «mostrare»): da cui anche phantasma, «immagine creata dalla fantasia».

La poesia è per Lezama creazione di immagini, collezione di immagini, immaginario.

Attraverso l’immagine l’uomo riscopre la sua natura, vive l’istante primigenio quando nella mente affiora la conoscenza. Noi non sappiamo quando in noi la conoscenza farà breccia: in quell’istante primigenio tutto è ancora con-fuso, compresente, E lì, nel momento in cui sembra impossibile ancora dire, il poeta parla, parla di sé e dell’immagine che intra-vede. Il tempo non è chronos, non scorre ne non può essere misurato; è kairòs – possibilità, coincidenza. Non c’è discorso, svolgimento, ma solo l’immagine, possibile sintesi del tutto.

La poesia emerge nella mente del poeta come raggio, illuminazione delle tenebre, è Bildung, non importano i dettagli, le articolazioni della Gestalt. Il barocco è dunque, per Lezama, l’assenza di forma, e quindi la forma possibile. È poesia allo stato nascente, essenza mitopoietica, creazione allo stato puro.

Il sistema poetico, il lezamico modo, la sua supremamente barocca via per attingere alla conoscenza, è soffermarsi in questo istante primigenio. Qui emergono le immagini. Che non sono certezze, ma possibilità. Qui non c’è a priori, non c’è rappresentazione del mondo già data, ma solo qualcosa di nuovo, qualcosa che non può che essere esoterico, ermetico. C’è il poeta, che tenta di dire dell’intra-visto.

«Ah, que tú escapes en el instante / en el que ya habías alcanzado tu definición mejor». Lezama, trentenne, ha raggiunto la pienezza espressiva. Possiamo immaginare che dialoghi con la poesia.

Si rivolge alla poesia e le chiede di sfuggire alla facile definizione, alla calligrafia: la «definición mejor» non può mai essere veramente raggiunta, il verso perfetto non è ancora stato scritto, se la poesia è approssimazione all’indicibile.

Il testo di Lezama, ogni suo verso ed ogni sua frase, a ben guardare, sfugge sempre alla definición. Il testo di Lezama non lo si può leggere, e non lo si può nemmeno interpretare. Lo si può solo osservare – e ad ogni successiva osservazione vederemo qualcosa di più, coglieremo qualche nuovo dettaglio, qualche rilievo e qualche avvallamento, qualche ombra e qualche luce. La sua ricchezza si svela un poco alla volta, come accade con l’ascolto della musica, o con  l’osservazione di un quadro, o di una cattedrale.

Ah que tú escapes – poema esemplare – è un gioco a rimpiattino con il lettore. O meglio, appunto, con l’osservatore. È una fuga. Un piano dopo l’altro si aprono come sipari. Le immagini si susseguono come sucesión de oleaje, dove ogni onda sommerge la precedente, ogni immagina fa apparire povere l’immagine che siamo riusciti a cogliere.

«Las preguntas de esa estrella», le domande di quella stella ci pare già spiazzante, ma ecco che la stella è stata appena recisa, forse è un fiore, e subito va inumidendo le sue punte in altra stella nemica.

L’«agua más recordada» è forse l’agua placentaria, amniotica, di San Juan. Ma la vicinanza dei capelli così lunghi indirizza altrove il nostro pensiero.

L’«agua discursiva», così come «la hora del baño» sono forse richiami alla quotidianità, all’autobiografia familiare, agli anni dell’infanzia e della giovinezza sempre vivi nella mente del poeta, e così presenti in Paradiso. Ma nella stessa acqua discorsiva si bagnano l’immobile paesaggio e gli animali più fini. Antilopi e serpenti. Le «serpientes de pasos breves» ci richiamano inevitabilmente alla mente quel verso di Góngora, ma poi los «pasos evaporados» fanno evaporare l’immagine dei passi brevi, e delle stesse serpi.

«Il marmo degli addii» ci appare notevole figura barocca, ma subito è scavata e rovesciata, ah, se nel puro marmo degli addii ci fosse dato di trovare la statua che ci può accompagnare.

Quando ci pare di aver afferrato il senso, sia per via della semantica, sia per via della sintassi, il senso si svolge inatteso, ma morbidamente, in altre direzioni. Ci sembra di aver colto il soggetto, ma ecco che cambia. Ci sembra di aver inteso la metafora, ma il verso successivo propone un’altra lettura. E il testo sempre manifesta ai nostri occhi una coerenza interna indubitabile, ma incomprensibile, huidiza, elusiva, sfuggente.

È la resistencia, uno dei concetti chiave di Lezama. Un’altra manifestazione del difícil: la poesia barocca è sfida alla resistencia, la poesia per essere tale deve resistere ad ogni facile interpretazione, deve sfuggire ad ogni scolastica e normalizzante lettura.

Fino all’ambiguità massima, che mi pare risieda nel verso: «parecen entre sueños, sin ansia levantar». Direi il fulcro della lirica, non perché sia il verso che la sostiene, ma anzi, all’opposto, perché è il verso più supremamente sfuggente – che, con estrema leggerezza, con delicatezza, ci lascia sospesi, abbandonati ormai al mistero della poesia.

«Parecen entre sueños» si può leggere sia come «sembrano persi nei sogni», sia come «appaiono nei sogni». I traduttori tendono a disambiguare, prendendo partito per una delle due letture – perseguendo così la stessa via dell’abbassamento del senso che porta a ridurre la rosca a roca.

Lezama, sfiorando l’indicibile, ci pone di fronte all’indecidibile. Non possiamo prendere partito né per una, né per l’altra lettura: se il testo di Lezama non può essere letto, e dobbiamo osservarlo come una cattedrale, in una condizione di luce ci apparirà in un modo, in un’altra ora della giornata in un altro. La traduzione deve perciò cercare l’ambiguità. Così si finisce per accorgersi che meglio si traduce meno si traduce, e quindi direi: «pare tra i sogni», perché pare è «sembrare», «avere l’impressione di», ma anche «dare l’impressione di», «ritenere», «credere», e ancora «apparire», «mostrarsi»: «Tanto gentile e tanto onesta pare / La donna mia quand’ella altrui saluta».

Ma poi, nella seconda metà del verso, un evidente riferimento alla prima metà, ma anche – dopo la spezzatura della virgola, ricca di significato – un assoluto allontanamento da essa, fino a questa sospensione, questa ineffabile, aerea levità – che è la cifra dell’intero poema – sospensione, sottolineata dall’anormalità sintattica, il verbo alla alla fine della frase e del verso: levantar. E ci si chiede, cosa, perché, come, e a questo punto si è persi.

Traducendo abbiamo a disposizione una buona soluzione letterale: «sollevare», e il verso allora viene così: «paiono nei sogni, senz’ansia sollevare», con pieno rispetto del ritmo e della quantità: verso tridecasillabo. Ma viene anche da pensare: meglio cercare un verso italiano il più assonante possibile con l’originale, o meglio tentare di porre l’accento sull’excepción morfológica del verso, tutta giocata nel salire fino a quel levantar?

Viene da badare dunque, per quanto possibile, al senso di questa sospensione leggera: e quindi, forse, «levare». Non credo che Lezama sarebbe scontento dell’ambiguità che si apre in italiano, in modo più preciso che in spagnolo:  «levare» è «sollevare», sì, ma anche «togliere». Il senso del «togliere», del resto, è compreso fra le trentaquattro accezioni del verbo levantar, accanitamente elencate dal Diccionario de la Real Academia. (Accanitamente, e vanamente, perché il poeta reinventa le parole istante dopo istante).

Si è persi, ma forse per per ritrovarsi. L’evaporare, il sollevare, o il togliere, lo sfuggire alla definizione, insomma, il progetto affermato all’inizio del poema, torna forse in conclusione.

Definición all’inizio, inattingibile, e alla fine il vento che è gatto si stira, si estende: il desiderio gentile di lasciarsi definir chiude il cerchio e lo riapre in spirale, saldandosi con l’incipit: la poesia sfugge, si solleva, resiste ad ogni lettura preconcetta, ma se si accetta che la poesia sia vento, sia gatto, allora…

© Francesco Varanini. Tutti i diritti riservati.

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