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Le fantasie divertenti e così vere di Lawrence Ferlinghetti. Incontro a San Francisco

Poco più di un mese e ci siamo. Il 24 marzo Lawrence Ferlinghetti [1] spegne la candelina numero 100. Ma per noi di SUR e per tutti i suoi lettori italiani è oggi il grande giorno: esce in libreria, nella traduzione di Damiano Abeni, Scoppi urla risate [2], la più recente raccolta di poesie di un’icona della controcultura americana. Poesie attualissime e senza tempo che, piene di ardore e compassione, parlano per i poveri, i perseguitati, gli innamorati. 

In quest’articolo, pubblicato originariamente sulla Voce di New York [3] e qui riprodotto per gentile concessione della testata, Valter Vecellio racconta di quando andò a San Francisco a cercare questo grande «irregolare» della letteratura contemporanea. Buona lettura!

di Valter Vecellio

Ne è passato di tempo da quando Carlo Ferlinghetti, originario di Chiari vicino Brescia, e Albertine Mendes-Monsanto, originaria di Lione, curioso impasto franco-portoghese di origine sefardita, «fabbricano» a Bronxville, nello Stato di New York, quello che diventerà un poeta, ma anche un editore, uno straordinario divulgatore di cultura, un anarchico nonviolento, insofferente e nemico giurato di ogni autoritarismo.

Recupero appunti in vecchi, sdruciti taccuini. Di quando, mi pianto davanti alla City Lights Bookstore, al 261 di Columbus Avenue, a «specchiarmi» davanti a quella grande vetrina, da dove si vedono una quantità di libri ben allineati negli scaffali, impilati fino a essere torri in precario equilibrio, e commessi che zigzagano esperti nell’arte di non farle crollare; e lettori assorti, immersi in chissà quali pensieri… Entro, non entro, cosa faccio una volta entrato? In mano la copia sgualcita di A Coney Island of the Mind, pubblicata da Guanda, nella versione di Romano Giachetti: uno dei primi libri acquistati con la mia «paghetta» di adolescente, assieme a On the Road di Jack Kerouac, affascinato da quel «Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo. Per andare dove, amico? Non lo so, ma dobbiamo andare», che vuol dire tante cose e niente insieme.

È afoso quel luglio 2011. Trasferta di lavoro a Los Angeles, al seguito di magistrati che indagano sulla strage di Ustica; sono andati ad ascoltare dirigenti e tecnici della Lockheed; c’è un «buco» di un paio di giorni, che si fa? L’operatore fa una proposta, chissà forse si ricorda del vecchio Scott McKenzie che canta «If you’re going to San Francisco / Be sure to wear some flowers in your hair…» Vada per San Francisco, ma fiori tra i capelli no, quelli non li metto… «You’re gonna meet some gentle people there», canticchia; chissà se davvero saranno gentili. Continua: «If you come to San Francisco, Summertime will be a love-in there», ma sì, andiamo a San Francisco a vedere se davvero sarà un grande love-in… Ci saranno ancora Simon e Linda che scandiscono «Give Peace a Chance», mentre la Guardia Civile con una violenza degna del G8 di Genova sgombera l’università occupata? Cos’è rimasto di Strawberry Statement, quarant’anni dopo?

Quella copia un po’ sgualcita di A Coney Island of the Mind me la sono portata dietro chissà per quale ispirazione: è un’edizione «cofanetto», l’altro volume è una raccolta di testi teatrali, Tremila formiche rosse, curata da Alfredo Rizzardi.

Così mi trovo davanti a questa libreria-mito, fondata da Ferlinghetti, il poeta editore processato nel 1956 per «oscenità», colpevole di aver pubblicato Howl, lo scandaloso poema di Allen Ginsberg; ma «complice» anche per quel che riguarda Big Sur, il romanzo di Kerouac, visto che è ambientato in un capanno di sua proprietà, nella costa californiana.

FerlinghettiCome l’ha definito la sua grande amica Fernanda Pivano? «Il Jacques Prévert d’America»; definizione che gli calza a pennello, e di cui si compiace. Prévert lo legge per la prima volta su una tovaglia di carta a Saint-Brieuc, nel 1944. È il Ferlinghetti anarchico e antimilitarista che espone e distribuisce gratis «bottoni» e spille antinucleari, chiunque le può prendere dalla grande cesta davanti alla sua libreria. Perché ce l’ha con le divise? Forse perché l’ha indossata, servizio militare in Marina, uno dei tanti che partecipa a quel mattatoio che è lo sbarco in Normandia; dopo quell’orrore comincia a frequentare i circoli pacifisti, va a vivere al Greenwich Village di New York, e studia alla Columbia University; lì «scopre» James Joyce, Henry Miller, Gertrude Stein; e William B. Yeats, grazie a una raccolta delle sue poesie abbandonata sul sedile della sopraelevata. Almeno è quello che racconta nella Poesia n. 26 della raccolta Picture of the Gone World; e poi Thomas S. Eliot ed Ezra Pound. Una borsa di studio gli permette di andare a studiare alla Sorbona di Parigi, e in quei giorni pubblica anche il primo romanzo, Her, grazie a un padreterno dell’editoria americana, James Laughlin: anche lui un personaggio. Nel 1935 va a trovare Pound a Rapallo, e quello a brutto muso gli dice: «Torna ad Harvard, prenditi una laurea, poi comincia a far buon uso dei soldi che ti ha lasciato tuo padre». Senza troppi giri di parole: «Something useful». Laughlin non fa una piega; torna ad Harvard, prende la laurea, e fonda la New Directions; il suo catalogo si riempie di autori che non trovano editore: lo stesso Pound, Stein, Edward E. Cummings, William Carlos Williams, Michael Bishop, Miller; e ancora, Robert Creeley, Gregory Corso, Kenneth Rexroth, Tennessee Williams, Thomas Merton; ma anche Pablo Neruda, Herman Hesse, Vladimir Nabokov, Raymond Queneau, García Lorca, Boris Pasternak, Elio Vittorini…

Per tornare a Ferlinghetti: comincia a mandare le sue poesie a una rivista, la City Lights diretta da Peter Martin; con lui apre la libreria; la storia comincia nel giugno del 1953, libreria, casa editrice, luogo di ritrovo di poeti e di artisti di tutta la West Coast. L’idea di chiamarla City Lights viene dal film di Charlie Chaplin. Martin non è d’accordo, i due si separano. I Pocket Poets Series di Ferlinghetti hanno una caratteristica: pagine non numerate, cucite nel mezzo del volume con due punti, copertina gialla bordata di nero, i versi con disegni che ne sottolineano il significato.

Nel 1956 pubblica Howl di Ginsberg, con una prefazione di Carlos Williams; le copie sono confiscate. Una storia che Ferlinghetti racconta sulla Evergreen Review. Negli Stati Uniti è vietato pubblicare il libro, «osceno». Si aggira l’ostacolo stampandolo in Regno Unito. Poi viene spedito a San Francisco. C’è però un occhiuto funzionario della dogana, molto sensibile alle ragioni del pudore e della moralità. Tutto sequestrato. Il processo che segue, provoca una della più grosse prese di posizione letteraria di tutti i tempi: in difesa di Ginsberg e Ferlinghetti si muovono Rexroth, Mark Schorer, Kenneth Patchen, Laughlin, Barney Rosset, Thomas Parkinson, Robert Duncan… Anche editorialmente, grazie alla stupidità della censura, è un successo: in una settimana si vendono diecimila copie, Howl diventa un caso nazionale, per Ginsberg il processo è «il più bel premio letterario».

 

Quando nel 1979 viene organizzato a Castel Porziano il Primo Festival Internazionale dei Poeti, c’è anche lui, con Ginsberg, Evtušenko, Corso, tantissimi altri venuti dai mille angoli del mondo.

Entro. Il commesso mi dice che non c’è, è andato al caffè vicino, se voglio lo posso raggiungere.

Posso andare? Magari lo disturbo…

«A quel caffè lo vanno a trovare in tanti. Può andare anche lei. Però può aspettarlo qui. Magari fra cinque minuti torna, magari però no… Non fa mai programmi precisi…»

Andiamo al caffè, la copia di A Coney Island of the Mind in vista, come una specie di tessera di riconoscimento. Lui lo vedo subito, una bella candida barba che gli incornicia il viso, occhi azzurro intenso. Il caffè è quello che uno si aspetta, una specie di succursale del Mel’s Diner della sit-com Alice.  C’è anche Mel Sharples con maglietta e berrettino, che però sono immacolati, e a differenza di Vic Tayback, è magro come un chiodo; quando alle cameriere, ce n’è una sola, che evidentemente deve fare insieme Alice, Vera e «Flo».

È seduto a un tavolo, mangiucchia una ciambella, sorseggia il suo caffè. Davanti un giornale. Alza gli occhi, se la ride. Vede il libro, fa un cenno con la mano.

«Venga, si sieda… Italiano? Peccato, io non lo parlo bene, ma voglio impararlo: dev’essere bello leggere Dante nella sua lingua…»

Non so bene cosa dire, balbetto qualcosa. Beve il suo caffè, fa cenno di portarne altro per tutti e due. «Sono venuto spesso in Italia, ho molti amici nel suo paese… Una volta mi stavo anche cacciando in un guaio…»

Racconta che gli era venuta la voglia di vedere a Brescia dove avevano vissuto il padre e la madre. Arriva in contrada Cossere al numero 20, cuore della città. Portone chiuso, una fila di campanelli, comincia a suonarli a casaccio, non apre nessuno. Ecco, una donna anziana apre e subito si ritrae: cosa vuole, dice in dialetto, e figuriamoci se Ferlinghetti capisce. Risponde il inglese, e figuriamoci se la donna capisce. L’anziana guarda con sospetto questo tipo strano che fa una quantità di fotografie, parla strano, è vestito come uno spaventapasseri. Chiama la polizia, allarmata; arrivano due agenti.

Ecco, immaginiamola la scena: «Chi sei?… Cosa fai? Mi capisci? Fai vedere i documenti… Mi capisci o no?… Da dove vieni? Oh ma questo non capisce proprio nulla, che vuol dire questo ’fromussei?… Un passaporto americano… dove abiti? Capisci? A-B-I-T-I? San Francisco? E qui però dice che sei nato a New York… Come? Insomma da quando sei in Italia? Come? Uànmonth? Che c’entrano i monti? Fai vedere il visto…Ah, un mese… come un mese… ce l’hai il permesso di soggiorno? P-E-R-M-E-S-S-O-D-I-S-O-G-G-I-O-R-N-O… aidontanderstan… che c’entra il Pakistan… non hai detto che sei americano? Senti, collega: questo non ha il permesso di soggiorno, e gli otto giorni sono scaduti, portiamolo in questura, che forse qualcuno che parla la sua lingua lo troviamo, e poi vediamo se lo dobbiamo rimpatriare…»

Scena surreale, dite? Eppure parola più, parola meno è quello che è accaduto. Per fortuna tutto si risolve quando arriva, avvertito, il sindaco, che conosce Ferlinghetti, e soprattutto parla l’inglese.

Racconta l’episodio divertito, mentre si ritorna alla libreria.

Con una punta di orgoglio parla di quella che definisce «la missione di City Lights», che essenzialmente consiste in questo: «Creare un posto che avrebbe reso disponibili idee a tutti, in un ambiente amichevole, e dove ti saresti sentito sempre il benvenuto».

Ferlinghetti

E la casa editrice? «Come per la libreria, l’intenzione era quella di renderli più accessibili a tutti, è rimasto ancora, più o meno, tutto così». Spiega: «City Lights è ancora oggi importante perché fa vedere che ci sono altri modi di vivere ed essere».

In libreria una quantità di libri, opuscoli, riviste in mille formati, colorate, venute da ovunque. «Just a minute», dice, e scompare dietro una tenda. Torna dopo qualche minuto, porge una busta e dentro ben confezionato un pacco, si indovina che la carta rossa avvolge un libro; la mano tesa, stringe la mia: «Now, I must go away, have a good dayBye bye, Roma».

Esco, mi volto un’ultima volta, lui è davanti alla libreria, fa un saluto con la mano, e rientra. Alla prima panchina mi siedo, scarto il pacco, tra le mani mi trovo un grande volume fotografico, Literary San Francisco: A Pictorial History from Its Beginnings to the Present Day, realizzato dallo stesso Ferlinghetti, con Nancy J. Peters, compagna di un altro poeta suo amico, Philip Lamantia. È la storia, con bellissime immagini, di quella stagione culturale e artistica di cui Ferlinghetti è stato uno dei protagonisti. Nel frontespizio un verso tratto dai suoi Pictures of the Gone World: «Funny fantasies are never so real as oldstyle romances…» Diciamo: «Le fantasie più divertenti non sono mai così vere come i vecchi racconti…»

Ma questo libro su San Francisco, e questa dedica, sono una storia che si racconterà un’altra volta.

 

© Valter Vecellio, 2017. Tutti i diritti riservati.