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Tenere a freno il caos della sperimentazione: intervista a Adrian Tomine

Pubblichiamo un’intervista di Paul Morton all’illustratore Adrian Tomine, apparsa originariamente su Full Stop [1]. Ringraziamo l’autore.
L’ultimo libro di Adrian Tomine,
Morire in piedi [2], è da poco uscito per Rizzoli Lizard.

di Paul Morton
traduzione di Davide Trovò

All’inizio degli anni Novanta, Adrian Tomine era un fenomeno. I lettori lo paragonavano a Raymond Carver e Daniel Clowes. L’editor di Drawn and Quarterly [3] Chris Oliveros gli ha prima fatto da mentore per corrispondenza, e poi ha cominciato a pubblicare il suo mini-fumetto Optic Nerve, inserendo Tomine nelle file sempre più nutrite della sua casa editrice indipendente, al fianco di Julie Doucet e Joe Matt. Ciononostante, le pecche delle storie di Tomine erano palesi. Faceva ricorso a espedienti narrativi. Non padroneggiava fino in fondo il suo stile di disegno essenziale. Le narrazioni erano troppo stilizzate e affettate. Ma non aveva importanza. Nelle sue storie c’era una carica emotiva spaventosa. Tomine capiva la solitudine.
Negli ultimi dieci anni Tomine ha fatto da illustratore per il New Yorker, realizzando vignette malinconiche e complesse della città un tempo di Bloomberg e ora di de Blasio. Nel 2009 ha pubblicato Una lieve imperfezione, una graphic novel che al contempo critica e accetta le tesi degli ethnic studies. Quest’anno ha pubblicato la raccolta Morire in piedi [Killing and Dying], in cui ciascuna delle sei storie presenta una particolare veste del mezzo «fumetto». Una è strutturata in forma di striscia, un’altra come una serie di grandi illustrazioni. La storia che dà il titolo al libro termina a metà pagina e lascia il lettore di fronte a un mare di spazio bianco. Sono racconti brutali, serrati. Tomine ormai controlla pienamente la sua voce cupa. A quarantun anni è troppo vecchio per fare da rappresentante a una generazione. È diventato, invece, un narratore modello.
Io e Tomine ci siamo incontrati in uno Starbucks di Portland all’inizio di novembre. Era in città per Wordstock, l’annuale festival letterario.

Paul Morton: So che tu, a differenza mia, sei genitore. Si prova un dolore maggiore nel vedere un figlio ferito invece che essere feriti personalmente.
Adrian Tomine: Sono d’accordo. Mi sono messo all’opera su questo libro più o meno quando ho scoperto che mia moglie era incinta della nostra prima figlia. E ci ho lavorato per così tanto tempo che adesso di figlie ne abbiamo due, una di sei anni e l’altra di uno. Questo cambiamento nella mia vita è stato probabilmente il più significativo da quando ho cominciato a lavorare come fumettista.

Oltre che sulle storie, questo fatto ha avuto un’influenza sul modo in cui disegni i bambini?
Neanche tanto. In generale nelle mie storie ci sono più bambini di prima. Il cambiamento nei disegni è dovuto più ad altri due aspetti. La ragione artistica è che molto di quello che ho fatto in questo libro, compreso lo stile di disegno, è una reazione a tutto il tempo passato su Una lieve imperfezione. Volevo fare le cose in modo diverso. La ragione più pragmatica è che sto cercando un approccio lavorativo che sia più economico e semplice, per non metterci sette anni a finire un libro. Questo libro è stato un esperimento per vedere se mi riusciva ancora di creare storie valide o di ottenere la stessa potenza emotiva, la sensazione che i personaggi fossero sempre vividi, però con uno stile di disegno meno dettagliato e meno complicato.

In Morire in piedi c’è molta più sperimentazione rispetto al passato. «Una breve storia della forma d’arte nota come “Ortiscultura”» è narrata in forma di striscia quotidiana, con tanto di pagine di fumetti a colori alla domenica. «Tradotto dal giapponese» è una serie di illustrazioni con pochissima narrazione. Non temi che questa finezza possa andare a discapito della funzionalità?
È un rischio. Penso che la sperimentazione sia molto diffusa nei fumetti di oggi, e non è per forza un male. I fumetti sperimentali o innovativi sul piano formale possono dare grandi soddisfazioni. Per quanto riguarda la letteratura in prosa c’è un consenso generale su ciò che dovrebbe offrire, e cioè storie e personaggi. Esistono criteri che si sono sviluppati in centinaia di anni. Il fumetto, invece, è ancora un genere relativamente nuovo. Come lettore sono aperto all’idea che un buon fumetto può essere anche molto diverso da quelli che cerco di creare io. Ci sono validi impieghi di questa forma artistica che non sono narrativi, né raccontano una storia realistica, né sono personali alla maniera di Harvey Pekar, ma sono comunque grandi opere d’arte.
Per me è più che altro un azzardo, perché cerco di raccontare storie su persone reali e cerco di suscitare emozioni. Con quest’obiettivo, c’è il rischio che il gioco sulla forma distragga o invalidi gli obiettivi.

Hai preso qualche precauzione per minimizzare il rischio?
Non mi pareva di correre chissà che pericolo, perché per me l’idea di sperimentazione era subordinata all’obiettivo principale, cioè quello di creare storie leggibili. Penso che per alcuni artisti le priorità siano ribaltate. Dal canto mio, ero convinto che questo libro doveva essere fruibile sia da chi è cresciuto leggendo fumetti sia da chi invece no. Io, per esempio, sono il lettore ideale per tutta una serie di fumettisti di oggi… Leggo in questo formato da quando ero bambino. Ho le conoscenze del campo e riesco a cogliere un certo genere di riferimenti. Non c’è bisogno di spiegarmi la cornice della forma artistica.
Ma speravo tanto che ci fossero posti come questo festival letterario, dove le persone che incontro non sono per forza lettori di fumetti, oppure che in una libreria qualcuno prendesse in mano un libro e pensasse: «Cos’è questo libro strambo?» Il desiderio di raggiungere un pubblico più vasto, nel bene o nel male, ha tenuto a freno il caos della sperimentazione.

Come autore, quanto sai delle cose che non vengono esplicitate nelle tue storie? Prendiamo una delle tue storie più vecchie, «Bomb Scare»: il lettore non sa che genere di rapporto sessuale può esserci stato tra i due ragazzi… tu invece lo sapevi?
Be’, non è un buon esempio, perché è passato talmente tanto tempo che magari all’epoca lo sapevo, ma adesso a malapena ricordo qualcosa della storia. Per quanto riguarda quelle di adesso, direi parecchio. Il rovescio della medaglia del mio metodo è che ci vuole un sacco di tempo per finire un libro. Ma il lato positivo è che nella testa mi si delinea molta roba che non avrei tempo di definire se avessi soltanto un mese per sfornare la storia.
Penso che un artista meglio organizzato farebbe gran parte di questo lavoro negli appunti. Seth delinea tutti i retroscena dei personaggi e delle città, e li mette nero su bianco. Io non ce l’ho la sua tenacia, né l’abilità artistica di fare quel genere di lavoro invisibile, ma credo di svolgerne un sacco mentalmente.

Conosci sempre i retroscena che stanno dietro le lacune narrative?
C’è stato un periodo all’inizio della mia carriera in cui non li conoscevo e mi andava bene così, mi limitavo a sfruttare l’ambiguità. Lavorando su questo libro però avevo cambiato idea, e sentivo che anche se nella storia un certo dettaglio non era definito esplicitamente, nella mia testa dovevo conoscerlo.
Su tantissime cose di questo libro mi sono state fatte domande delle quali conosco la risposta, però preferisco tenermela, perché dai lettori ho già sentito interpretazioni tanto divergenti che credo che a questo punto le opinioni che contano siano le loro. Sarebbe davvero crudele smentire le varie interpretazioni, dire: «No, no, no, questa non è Long Island. È evidente che è la California».

Mi pare di aver già sentito l’episodio raccontato in «Forza Gufi», in cui un gruppo di genitori rei di non pagare gli alimenti ai figli viene attirato con l’inganno a un evento sportivo.
Se cerchi online, ci sono un sacco di storie su episodi simili. Dev’essere stato in auge tra le forze dell’ordine per un periodo.
È una cosa che mi è rimasta in testa da quando ero piccolino, perché è successo quando abitavo a Fresno, in California, quando facevo la prima o la seconda media. Avevano ideato una messinscena con la squadra di football della scuola, i Bulldogs, osannati da tutta la città. Devo avere archiviato il fatto nel cervello, perché è rimasto lì a marinare per tanto tempo e poi è finito in questa storia.

Cos’è che ti aveva colpito?
Mi aveva preso in una maniera strana, specialmente considerando che avevo undici anni. Non era tipo: «Evvai, hanno beccato ’sti tizi che hanno violato la legge». Mi sembrava una cosa triste, perché quei tizi volevano andare a vedersi una partita di football e invece sono finiti in prigione. Forse c’entra in qualche modo con la mia personalità, e di conseguenza con come creo i personaggi in generale. Per me è difficile provare qualcosa di univoco nei confronti di una persona o di un personaggio. A casa mia si sentono un sacco di conversazioni del tipo «sì, ma…» su gente che ha fatto qualcosa che non ci va giù. Mia moglie fa la psicologa. Lei va ancora più a fondo. È incredibilmente empatica e si sente vicina anche a chi ha fatto le peggiori cose al mondo.

Quando scrivi di bambini che venivano presi in giro alle superiori, non li presenti come vittime dignitose. Sono resi peggiori dagli abusi che subiscono. Diventa un circolo vizioso.
Penso sia una sfumatura che Hollywood ha qualche difficoltà a cogliere a volte. Invece Freaks and Geeks secondo me è riuscita a trattare bene l’argomento. Stando alla mia esperienza e ai bambini che ho conosciuto e osservato, è raro che qualcuno venga scelto a caso e messo alla berlina così. Non sempre è qualcosa che possono controllare, ma se vengono deliberatamente esclusi o presi in giro, un motivo c’è sempre.

Ti è rimasto il disgusto di te da quel periodo?
Come tutto il resto della mia vita, è entrato in una nuova fase, una meta-fase. Adesso sono genitore, quindi non la penso in termini di ferite personali o cose così. Ma mi si stringe il cuore quando vado alla scuola di mia figlia e vedo un bambino che mangia il pranzo tutto solo, senza ben sapere come interagire con gli altri bambini e via dicendo. Adesso è un dolore molto più intenso, e mi riesce difficile tenere a freno la lingua quando vedo cose del genere. Meglio pensarla in termini di persone vere che in questo momento stanno attraversando quel periodo, piuttosto che in termini di ricordi della mia vita di venti e passa anni fa.

Mi pare che ci sia un tratto comune nei lavori di artisti tra i 18 e i 25 anni, del tipo: «Questo è il mio dolore. Questa è l’ingiustizia che il mondo mi ha inflitto».
Indipendentemente da quanto quel dolore sia davvero estremo.

Mi pare che si possa riscontrare anche all’inizio della tua carriera.
Sì, senz’altro.

Ti ricordi quand’è che te ne sei sbarazzato?
Presumo che una volta finito di disegnare Una lieve imperfezione ero stufo della storia che avevo scritto originariamente. È difficile a dirsi. In gran parte c’entra con i cambiamenti nelle circostanze della mia vita. C’entra anche con il fatto che arrivava dopo quindici anni di storie simili. E c’è stato un accumularsi di quelle storie. Lavoro all’ombra di tutta la roba che ho già fatto e alla fine tutti i tic fastidiosi cominciano ad accumularsi nella mia testa di lettore e allora devo allontanarmene.

Daniel Clowes, Julie Doucet e Joe Matt… tutta questa gente che è emersa assieme a te negli anni Novanta insisteva sul grottesco. Tu no. Perché?
Per molti aspetti mi sentivo emarginato, perché al tempo era quello il metro di giudizio per i fumetti alternativi, e cioè quanto ci si spingeva in là nel rivelare le cose più disgustose di sé stessi. A un certo punto era una gara a chi realizzava la striscia con le funzioni corporee più disgustose, qualsiasi cosa fosse.

Buona parte era solo attrazione per il corpo abietto.
E anche in termini di stile di disegno c’era un’enfasi su quei corpi grotteschi, dettagliatissimi, derivante dal fumetto underground. Per parecchio tempo il fatto di avere uno stile molto preciso e commerciale mi ha dato noia. Non era tanto una scelta, si era più che altro sviluppato in maniera naturale. Mi ha procurato anche molte critiche.
Mi sento profondamente legato in tanti modi ai miei colleghi del mondo dei fumetti. Per molti aspetti li sento fratelli. Ma ci sono anche differenze sostanziali. Io non sono un collezionista compulsivo, non accumulo roba. Preferisco un ambiente di lavoro essenziale, minimale, e cioè praticamente il contrario della maggior parte dei miei amici. In generale i disegni che faccio sono molto più vuoti e ripuliti rispetto a quelli di quasi tutti i miei amici.

L’eroe di «Ortiscultura» ha vissuto delle esperienze molto diverse dalle tue. Sei stato considerato un fenomeno fin da giovanissimo, e avevi un gran paura di esaurirti, di non essere più apprezzato a 30, 35, 40 anni. Questo personaggio invece è uno che non ha mai ricevuto niente del genere da nessuno.
Nessuna approvazione, esatto.

Stavi cercando di dipingere qualcuno con un’esperienza di vita completamente diversa sul piano professionale?
No, no. Perché le attenzioni, l’incoraggiamento e l’approvazione che ho ricevuto nel corso degli anni non tolgono comunque nulla al fatto che quando mi siedo davanti alla tavola da disegno mi sento ancora nella stessa barca di quel personaggio. Per quanto ne so, quello che faccio potrebbe anche essere assolutamente imbarazzante. Magari la gente che mi incoraggia vuole soltanto essere gentile, anziché onesta. Magari quello che faccio mette in imbarazzo i miei figli. Tutti questi pensieri sono ancora parte di me. Quindi non è che ho cercato di pensare al contrario del mio percorso di vita. Come per tutti gli altri personaggi, si trattava soprattutto di cercare qualcosa della mia vita reale dentro un personaggio di fantasia.

Perché sei ricorso alla striscia di giornale per una storia così? Secondo me una striscia è come se distillasse un momento interessante, ignorando allo stesso tempo tutta la roba noiosa che c’è di mezzo. Credo che valga per la maggior parte della narrativa, ma è un’esperienza accentuata in una striscia di giornale.
Per me era una buona soluzione per illustrare il passare del tempo omettendo però un sacco di scene superflue. Era anche un modo per cercare di alleggerire una storia abbastanza deprimente. Ogni singola striscia è un gradino nel declino del personaggio, ma c’è la battuta finale, c’è un’atmosfera umoristica. Ed è un equilibrio che ho cercato in tutto il libro, cioè non martellare nessuno con la pesantezza della storia.
Non è un sovvertimento della forma artistica così assurdo. Mi pare che i Peanuts, probabilmente la mia striscia preferita, ne siano un esempio perfetto. Mostrano la sfilza di umiliazioni nella vita di un personaggio, ma lo fanno per creare empatia e risate.

Nelle tue illustrazioni, diversamente ad esempio da «Ortiscultura», vuoi creare qualcosa da ammirare. È con quello stesso tipo di disegno che «Tradotto dal giapponese» acquista spessore come storia. Questo ti ha indotto a ripensare il ritmo della narrazione?
Il ritmo no, ma una caratteristica delle illustrazioni è che puoi ricavare un’emozione o una reazione non solo dalle persone ma anche dagli oggetti. O almeno è quello che cerco di fare io. Se disegni un bambino in lacrime, è abbastanza ovvio quello che stai cercando di dire… Io volevo trovare una qualche strana carica emotiva in oggetti assolutamente banali.

In «Amber Sweet» e «Intrusi» usi una tecnica da narratore che rimanda a quello che facevi negli anni Novanta. È come se qualcuno al bar ti raccontasse una bella storia.
Sì, è vero.

Erano le storie che mi piacevano di meno. Non sarà una critica corretta, ma te lo dico lo stesso: mi sembravano un po’ meno autentiche. Era come se tu stessi parlando con una voce che non ti appartiene. Perché il ritorno a quello stile?
Be’, in parte voleva essere una sfida. Sarebbe davvero noioso se mi limitassi a parlare delle mie esperienze personali con la mia stessa voce. Potrei costruirci su tutta una carriera, se lo volessi. C’è una marea di fumettisti e autori che lo fanno. Non è quello che cerco io. Per me è difficile affrontare la questione, perché da quando ho cominciato a promuovere il libro è saltata fuori spesso. E non mi va di stare sulla difensiva né di essere troppo esplicito, ma vorrei solo avanzare la possibilità che parte dell’inautenticità, o di quelli che alcuni considerano errori o passi falsi, sia legata al personaggio che racconta la storia nella storia, invece che a me come artista. Un po’ è fatto apposta. Un po’ probabilmente no. Finora, però, non ho ancora sentito nessuno che ha letto quelle storie come intendevo io.

Philip Roth ha detto che scrivere narrativa è come indossare delle maschere. Puntavi a questo scrivendo quelle storie?
Credo che sto cercando sempre più di creare delle maschere, perché in me c’è una tensione artistica tra diventare una persona più riservata e allo stesso tempo voler produrre un’opera personale e introspettiva. Se fosse per me, e non solo perché sono un pigrone e mi piace starmene a casa, ma anche dal punto di vista artistico, preferirei non fare alcun tipo di promozione ai libri. Preferirei non rilasciare interviste. Specialmente quando è uscito Una lieve imperfezione, avrei tanto voluto non aver mai pubblicato una mia foto, perché avevo disegnato un personaggio che mi assomigliava vagamente e questo ha portato i lettori a fare un sacco di collegamenti mentali che secondo me erano più una distrazione. È divertente inventare personaggi e parlare con la loro voce, ma il più delle volte è un tentativo di nascondere ancora di più sé stessi.

© Paul Morton, 2015. Tutti i diritti riservati.

Paul Morton [4] ha lavorato come giornalista culturale in Vietnam, Bulgaria e Lettonia. Ha inoltre completato una borsa di studio Fulbright a Budapest, dove ha svolto ricerche sull’industria dell’animazione nell’Ungheria dell’epoca comunista. La sua intervista con l’autore della Marvel Brian Michael Bendis è apparsa in Ultimate Spider-Man: Ultimatum [5]. Attualmente vive a Seattle dove svolge un dottorato di ricerca in Studi sul Cinema alla University of Washington. La sua mail è paulwilliammorton@gmail.com. Il suo blog è My Thought-Dreams [6].