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María Luisa Bombal, da Mozart a Beethoven a Chopin

Gianluca Cataldo Ritratti, Scrittura, SUR

Pubblichiamo oggi un bell’articolo di Gianluca Cataldo su María Luisa Bombal, scrittrice cilena tanto cara ad Angelo Morino. Il pezzo è uscito su Terranullius, che ringraziamo.

«María Luisa Bombal, da Mozart a Beethoven a Chopin»
di Gianluca Cataldo

«Già, che cos’è l’amore? Un vento che sussurra tra le rose… No, una fosforescenza giallastra nel sangue».
Knut Hamsun, Vittoria.

Chi vuole creda pure alla superstizione dei miracoli ma, per carità, non imponetela a lei, che con l’attesa ha condiviso la pioggia che batte sui vetri, malinconiche tende di cretonne e tanto silenzio. Perché al miracolo di un’esistenza «d’amore, vertigine e abbandono», che ci trascini via dal nostro corpo, viviamo sempre paralleli concedendogli il tempo che non abbiamo, fino a ritrovarci in quel periodo della vita che è il principio della morte, la vecchiaia, senza sapere se nella nebbia dei ricordi abbiamo vissuto una vita o la pantomima di un’attesa. Che è definitiva immobilità.

O forse lei, nella sua quotidiana lotta contro il silenzio, più che subirlo un miracolo l’ha compiuto, dando voce, senza neanche accorgersene, a donne che nella rarefatta borghesia cilena degli anni Trenta e Quaranta non riuscivano ad «amare con tenerezza e misura né odiare con giustizia e prudenza». Se proprio si deve amare – e si deve – è meglio farlo disperatamente, martoriando quel taglio tra le gambe che non si rimargina, che lascia aperte María Luisa e le altre davanti a uomini che le vorrebbero chiuse. E se si deve odiare – e si può – che si odi a fondo, fino a un colpo di pistola che sorprenda il silenzio, perché un silenzio può essere troppe cose ma mai quelle giuste. C’è quello secolare che sussurrano i pagliacci che riponiamo in una bara, che sale nella stanza come fumo; quello terribile di Borges mentre in una sola sera legge Avvolta nel sudario; il silenzio omertoso che copre un tradimento, se è tale abbandonare chi non riconosciamo più; quello di un letto di foglie umide che l’autunno consegna ai nostri piedi perché possano illudersi di attutire le stagioni; quello cocciuto e ingiusto dei fantasmi (senza voce non sono altro che inganni!); il silenzio di Ana María, morta due volte; quello di Griselda, amata e invidiata da tutti, incrinato solo dalle sue scuse; una lettera senza risposta; un’altra; ancora una; il silenzio senza eco che sale da dentro come la bestemmia in bocca a un pirata, l’ultima.

E ce n’è anche uno, di silenzio, che in comunione con la natura si lascia esplorare. María Luisa e le altre si immergono spesso nelle acque di uno stagno, ma più che immergersi si sciolgono, e allora il tempo, solitamente troppo veloce, sembra rallentare e concedere una visuale migliore. In quei momenti succedono cose meravigliose, e cedere alla natura diventa ricerca e comprensione di sé. Persino la nebbia, temuta all’inizio, si fa complice sfocando la città, e concedendo all’ignota protagonista del primo romanzo uno spazio incerto dove reinventare se stessa e il proprio corpo, nudo e bello, che da troppo tempo brama «la sua parte di omaggio», tanto da creare un amante e sdoppiarsi. E vivere lo strappo coniugale come se fosse reale in una vita, e nell’altra ombra. Ma morire – perché la società non ammette eccessi di desiderio – di una morte, anch’essa, una volta ombra e una volta realtà. In mezzo, senza neanche saperlo, María Luisa descrive il primo orgasmo della letteratura sudamericana visto da una prospettiva femminile: «In gola mi sale qualcosa come un singhiozzo, e non so perché comincio a lamentarmi, e non so perché mi è dolce lamentarmi, e dolce al mio corpo è la stanchezza inflitta dal prezioso peso che grava fra le mie cosce». È il 1935.

Di discendenza tedesca nasce venticinque anni prima, e passa l’infanzia ad ascoltare la madre tradurre i “nordici” europei, fino a invaghirsi, a quattordici anni, di Knut Hamsun. Poi Parigi, gli studi alla Sorbonne e un ambiente culturale vissuto a latere, perché più dei circoli contano i testi, più degli intellettuali – guardati con sarcastico rispetto – vale la sensibilità dell’artista. Ama molto Virgina Woolf perché scrive romanzi, non sermoni, e sebbene non le importi del femminismo militante più avanti sarà pronta ad accorgersi che nei propri scritti molte delle protagoniste sono vittime di imposizioni sociali. Se ne accorgerà anni, decenni dopo davanti a un’intervistatrice interdetta, e senza scomporsi sosterrà ridendo che sì, a quell’epoca restare zitelle era terribile, un vero marchio d’infamia. D’altra parte non conosce altro modo di comprendere gli eventi se non essendone accerchiata.

Nel 1933 si trasferisce a Buenos Aires a casa di Pablo Neruda, con il quale scrive in cucina, commentando ogni tanto una frase o un verso, e in quella città di lettori si diverte spesso a prendere in giro un gruppo di filologi, gente che passa le serate a discutere sulle radici delle parole, come se per camminare – dice lei – uno debba prima analizzare ossa e muscoli dei piedi. Si può camminare anche senza sapere di averli, i piedi. Si può essere disorientate senza sapere di essere costrette al matrimonio. E si può sparare non conoscendo la meccanica di una pistola. Dopo il primo romanzo si può persino avere la sicurezza di sfidare Borges, e terminarne un secondo che lui considera impossibile ma che, una volta tra le mani, divora in una sola notte. L’indomani ringrazierà María Luisa per non avergli concesso il credito che tutto il mondo gli dà, e davanti a un caffè ripenserà alla paura che ha provato quando la protagonista, da dentro la propria bara, osserva il balletto buffo di chi viene a condolersi. Finalmente Ana María vede senza essere vista, e davanti ai suoi occhi sfila la vita confinata nel mondo fisico, i figli, tutti i suoi uomini ai margini dell’amore, la ricerca abbandonata di Dio. Fino a una sepoltura che la impasta alla terra, e la consegna alla seconda morte: «la morte dei morti».

Dalla quale María Luisa riemerge in un racconto dell’anno dopo, il 1939, perché tutti i suoi racconti sono i rami di un solo albero e tutte le sue protagoniste legate come in una treccia. Ne Le isole nuove Yolanda è una medusa, si srotola come una biscia alta e magra, si muove come un gabbiano, e dalle sue spalle nude fuoriesce un moncherino d’ali di libellula. È un animale, che affiora come un’isola vulcanica nella vita di Juan Manuel per inabissarsi quando lui, frastornato, si rende conto che non può e non vuole capirla.

Qualche anno ancora e un altro colpo di pistola, anzi tre, e infine il trasferimento a New York, una città non ancora corrotta come il Vecchio Mondo dal quale è ormai impossibile trarre nuovi impulsi culturali. Ma prima altre storie, soprattutto una, quella di una ragazza semplice, un «cerbiatto spaventato» che non sa neanche insultare il marito che si vergogna di lei, e che come una pianta fa con il sole protende i suoi rami verso il respiro di un uomo mediocre. Passano i mesi, e lei è sempre più uguale al ficus che c’è accanto alla finestra dello spogliatoio, immobile alle stagioni, avvolta in un silenzio che poco a poco le toglie l’amore, l’odio, per consegnarle «un’inattesa sensazione di pienezza». Trascorrono ore noiose nel benessere statico di un’apatia densa e sufficiente. Da Mozart a Beethoven a Chopin. Le notti sono asciutte mentre fuori piove. Tutto finché non abbattono il ficus, finché non abbattono lei, che ora non è più legata alle stagioni e all’assurdo teatrino cui ogni anno, da sempre e per sempre, ci costringiamo.

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