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Rodolfo Walsh: «Gli occhi del traditore»

Questa settimana esce in libreria Per non parlar del morto [1] di Rodolfo Walsh, raccolta pubblicata postuma nel 1987 e per la prima volta tradotta in italiano da Eleonora Mogavero. In anteprima il racconto «Gli occhi del traditore». Dell’autore abbiamo già parlato qui [2] e qui [2]. Buona lettura!

di Rodolfo Walsh
traduzione di Eleonora Mogavero

Il 16 febbraio 1945 le truppe russe completarono l’occupazione di Budapest. Il 18 fui arrestato. Il 20 mi rimisero in libertà e tornai alle mie funzioni nel reparto di oculistica dell’Ospedale centrale. Non ho mai saputo il motivo della mia detenzione. E nemmeno del mio rilascio.

Due mesi più tardi ricevetti una richiesta firmata da Alajos Endrey, un condannato a morte in attesa dell’esecuzione della sentenza. Si offriva di donare gli occhi all’Istituto per il recupero della vista, da me fondato all’inizio della guerra, dove effettuai – sebbene adesso Istvan Vezer e la cricca di arrivisti che mi hanno diffamato e costretto a espatriare lo neghino – diciotto trapianti di cornea su pazienti ciechi. Sedici di questi furo125 no un successo. Il paziente numero diciassette si rifiutò con tenacia di recuperare la vista, sebbene l’operazione fosse perfettamente riuscita dal punto di vista tecnico.* [3]

Il diciottesimo caso è l’argomento di questa relazione, che scrivo per ingannare le ore del mio solitario esilio, a migliaia di chilometri dalla mia terra natale, l’Ungheria.

Andai a trovare Endrey in una cella piccola e pulita, che percorreva senza sosta avanti e indietro, come una belva in gabbia. Nessun tratto particolare in quell’uomo giustificava l’attenzione di uno scienziato. Era un soggetto piccolo, irritabile, con una perenne espressione assillata nello sguardo. Presentava evidenti segni di denutrizione. Da un esame sommario riscontrai che la sua cornea era in buono stato. Gli comunicai che accettavo l’offerta. Non indagai sulle motivazioni. Le conoscevo fin troppo bene: sentimentalismo dell’ultima ora, forse un oscuro desiderio di permanenza, benché in minima parte, incorporato nella vita di un altro uomo. Mi allontanai lungo i corridoi di pietra grigia, seguito dallo sguardo indifferente o ostile del secondino.

L’esecuzione avvenne il 20 settembre 1945. Ho il vago ricordo di una processione di uomini silenziosi e semiaddormentati, un sentiero polveroso che saliva tra la sterpaglia, un’alba banale. Improvvisai un tavolo operatorio in una capanna con il tetto di zinco, a cinquanta passi dal luogo dell’esecuzione. Pensai, oziosamente, che avrei potuto essere io il condannato, che il destino era assurdo e la morte, un’abitudine scontata.

Preparai con cura il paziente. Era cieco dalla nascita, per una deformazione conica della cornea, e si chiamava Josef Pongracz. Passai nelle palpebre i fili destinati a mantenerle aperte. La scarica fatale mi sorprese in quel momento.

Due soldati portarono il morto su una barella. Una quadrupla stella di sangue gli decorava il petto. Aveva le pupille dilatate in un vago stupore.

Estrassi l’occhio e recisi il lembo di cornea destinato all’inserimento. Poi rimossi la zona malata della cornea del paziente e la sostituii con l’inserto. Dieci giorni dopo tolsi le bende. Josef si alzò e fece un paio di passi incerti. Osservai le sue reazioni. Il suo viso aveva assunto un’espressione di indicibile timore. Vedeva. Era perduto.

Guardò intorno, cercandomi tra gli oggetti della sala operatoria. Quando gli parlai, mi riconobbe; cercò di sorridere. Gli ordinai di dirigersi verso la finestra. Barcollò, e allora lo presi per un braccio e lo guidai, come se fosse un bambino. Quando lo misi davanti alla finestra chiuse gli occhi, toccò il davanzale, il telaio, i vetri, più volte, all’infinito. Poi aprì gli occhi e guardò in lontananza.

«Il tramonto», disse, e cominciò a piangere in silenzio.

Due mesi più tardi ricevetti la visita del dottor Vendel Groesz, dell’Istituto di psichiatria. Josef era andato da lui. Si trovava, secondo quanto mi disse il dottore, in condizioni disastrose, con una profonda depressione, aggravata da incubi e allucinazioni; rischiava la schizofrenia.

Due giorni dopo l’operazione (mi riferì il dottor Groesz), Josef aveva sognato un paesaggio indefinito, quasi privo di dettagli: una collina, un sentiero, una luce grigia e spettrale. Il sogno si era ripetuto per sette notti consecutive. Nonostante il carattere inoffensivo di quelle immagini, Josef si era sempre svegliato in preda a un oscuro e ingiustificabile terrore.

Il dottor Groesz consultò i suoi appunti.

«“Era come se fossi stato lì prima, e dovesse succedere qualcosa di terribile”. Sono le sue precise parole».

Il dottor Groesz confessò che in quel caso tutti i soliti procedimenti avevano fallito. Di qualunque tipo fossero i complessi di Josef, non potevano essere collegati a sensazioni o ricordi visivi, dato che era cieco dalla nascita. Da quando aveva acquistato la vista, non si era allontanato dalla città. Quindi, a rigor di logica, non sapeva cosa fosse una collina, né un sentiero polveroso di montagna, a meno che non si potesse chiamare conoscenza il concetto impreciso, senza dimensioni, proprio dei ciechi. Il paesaggio che agitava i sogni di Josef non era, dunque, un ricordo visivo; e neppure un ricordo visivo modificato dalla particolare simbologia onirica, ma un prodotto inspiegabile, arbitrario, del subconscio.

«Il sogno», disse il dottor Groesz, «per quanto possa apparire lontano dall’esperienza, vi si basa sempre. Se non c’è un’esperienza precedente, non possono esserci sogni corrispondenti a quell’esperienza. Ecco perché i ciechi non sognano, o per lo meno i loro sogni non sono costituiti da rappresentazioni di tipo visivo, ma tattile o uditivo».

Eppure in questo caso c’era un sogno di carattere visivo (la cui ripetizione ne indicava l’importanza), anteriore a qualsiasi esperienza visiva dello stesso genere. Costretto a cercare una spiegazione, il dottor Groesz era ricorso agli archetipi o immagini primordiali di Jung – di cui rifiutava le teorie ritenendole fantastiche –, una sorta di eredità onirica che riceviamo dai nostri predecessori, in grado di irrompere intempestivamente nei nostri sogni e perfino nella nostra vita cosciente.

«Sono un uomo di scienza», mi chiarì il dottor Groesz, senza che ce ne fosse bisogno, «ma non posso prescindere da alcuna ipotesi di lavoro, per quanto opposta alla mia esperienza e al mio particolare modo di vedere le cose. Tuttavia ho dovuto scartare quell’ipotesi. Ora capirà perché.

«Una settimana dopo, il paesaggio scabro e disadorno dei primi sogni cominciò a completarsi, come una foto che si sviluppava a poco a poco. Una notte fu una pietra dalla forma particolare; la notte dopo, una capanna con il tetto di zinco, riparata da due alberi severi e uguali; poi un’alba senza sole; un cane che vagava tra gli alberi… Notte dopo notte, dettaglio dopo dettaglio, il quadro si va completando. È arrivato al punto di descrivermi, in mezz’ora di prolisse disquisizioni, la forma esatta di un albero, quella di alcuni rami dello stesso albero, e perfino di certe foglie. Il quadro continua a perfezionarsi. Nessun particolare precedente scompare. L’ho verificato. Ogni giorno gli faccio ripetere il sogno della notte prima. È sempre lo stesso, identico, ma con qualche dettaglio in più.

Una settimana fa mi ha parlato per la prima volta di cinque figure comparse nel quadro. Cinque contorni, cinque sagome scure, stagliate contro l’alba grigiastra. Quattro di loro si trovano sulla stessa linea, di fronte; la quinta, a un lato, è di profilo. La notte dopo, le cinque figure erano in divisa; la figura laterale impugnava una spada. All’inizio le facce erano confuse, quasi inesistenti, poi hanno cominciato a precisarsi».

Il dottor Groesz consultò di nuovo i suoi appunti. «La figura laterale, che impugna la spada, è un ufficiale giovane e biondo. Il primo soldato a sinistra è basso, grasso, e la divisa gli va stretta. Il secondo gli ricorda (noti bene: ricorda) il suo fratello minore; Josef mi ha detto, piangendo, di non avere fratelli, di non averne mai avuti, ma quel soldato gli ricorda il suo fratello minore. Il terzo ha i baffi neri e una divisa molto logora; evita di guardarlo; devia lo sguardo da una parte… Il quarto è un uomo gigantesco, con una cicatrice che gli attraversa il lato sinistro della faccia, dall’orecchio all’angolo delle labbra, come un fiume tortuoso e violaceo; dalla tasca della sua casacca militare spunta un pacchetto di sigarette».

Il dottor Groesz prese dalla tasca un fazzoletto e si asciugò la fronte.

«Ieri», disse, e dal modo in cui disse «ieri» capii che si avvicinava qualcosa di terribile, «ieri Josef ha visto il quadro completo! Mio Dio! Mio Dio!

«I soldati avevano dei fucili e glieli puntavano contro, con il dito sul grilletto, pronti a fare fuoco.

«Lo abbiamo ricoverato subito. Si rifiuta di dormire, perché teme che sognerà di essere davanti a un plotone di esecuzione, di provare l’orrore immediato e inaudito della morte. Ma il quadro, che prima gli appariva solo in sogno, adesso lo perseguita anche quando è sveglio. Gli basta chiudere gli occhi, perfino nell’attimo fugace di un battito di palpebra, per vederlo: l’ufficiale con la spada sguainata, i quattro soldati allineati in posizione di tiro, i quattro fucili puntati al cuore.

«Questa mattina ha pronunciato un nome sconosciuto. Gli ho domandato chi fosse, e ha detto di essere lui. Crede di essere un altro. Un evidente caso di schizofrenia».

«Qual è il nome?», domandai. «Alajos Endrey», rispose il dottor Groesz.

 

Grazie alla raccomandazione di un capo militare – di cui non faccio il nome, per ovvie ragioni – riuscii ad avere un colloquio con l’ufficiale che aveva comandato la fucilazione di Alajos Endrey. Non si ricordava di me. Da parte mia, durante il nostro breve incontro precedente lo avevo a malapena guardato. Acconsentì, con fredda cortesia militare, alla mia bizzarra richiesta.

Un paio di minuti dopo, i quattro soldati che avevano fatto parte del plotone di esecuzione quella grigia e quasi dimenticata mattina erano allineati davanti a me. Allora vidi il quadro che lo sfortunato Josef aveva visto con gli occhi del traditore Alajos Endrey: il primo soldato a sinistra era basso e grasso, e la divisa gli andava stretta. Nel secondo mi sembrò di ravvisare una vaga somiglianza con lo stesso Endrey. Il terzo aveva baffi neri e occhi che evitavano di guardare davanti; la sua divisa era molto logora. Il quarto era un uomo gigantesco, con una cicatrice che gli attraversava il lato sinistro della faccia, come un fiume tortuoso e violaceo…

 

* Credo che in questo caso il fattore psicologico sia stato decisivo. In effetti il paziente vede, ma non lo riconosce, perché ha paura di vedere, perché non vuole vedere, perché è abituato a non vedere. Non c’è altra spiegazione. [n.d.a.]         

© Rodolfo Walsh, 1996. Tutti i diritti riservati.