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Charles Mingus, la rappresentazione del sé e l’autobiografia jazz / 1

Thomas Carmichael BIGSUR, Recensioni

Peggio di un bastardo, l’autobiografia di Charles Mingus, è di nuovo disponibile. Presentiamo la prima parte di un saggio di Thomas Carmichael che rilegge il libro nel contesto della tradizione autobiografica afroamericana. Il saggio è stato pubblicato originariamente sul numero dell’autunno 1995 della Canadian Review of American Studies. Ringraziamo la rivista e l’autore per averci accordato il permesso di tradurre il testo.

di Thomas Carmichael
traduzione di Lorenzo Medici

In sostanza sto dicendo che la gente non sa cosa una persona di colore (è così educato parlare di persone di colore)… che la gente non sa cosa ci voleva per diventare un musicista jazz. Quando ero giovane, venivamo educati soprattutto alla musica classica. Era l’unica musica che potessimo sentire, a parte il coro della chiesa. Non sono cresciuto in un night club. Non sono cresciuto in un bordello (e comunque non c’era musica in nessuno di quei posti: non c’era musica nei bar).

(Charles Mingus, dal libretto dell’album Let My Children Hear Music)

Si è ormai diffusa tra i critici un’interpretazione della tradizione autobiografica afroamericana, in particolare quella di matrice maschile, che segue due principali linee di indagine: una è legata a Henry Louis Gates e alla sua concezione dell’«act of signifying»,[1] mentre l’altra trae origine da Houston Baker e dalla sua insistenza sul contesto materiale del «blues» anti-egemonico delle tradizioni espressive afroamericane. Certamente anche l’autobiografia che Charles Mingus ha pubblicato nel 1971, Peggio di un bastardo, può essere interpretata in questo modo; e tuttavia il testo di Mingus ci mette di fronte a un insieme di problemi di natura più insidiosa e complessa. In contrasto, ad esempio, con il costante uso di una doppia voce che H.L. Gates riconosce mettendo a confronto la produzione letteraria di Ishmael Reed con quella di Richard Wright e di Ralph Ellison, l’autobiografia jazz di Mingus non è regolata dalle strategie di un rovesciamento parodistico ma piuttosto da una complicata sequenza di affiliazioni e disconoscimenti, in particolare riguardo alla tradizione del jazz.[2] E in contrasto con il fiducioso e consapevole scambio anti-egemonico di capitale culturale che Houston Baker rileva come emblematico nell’episodio di Trueblood in Uomo invisibile, il racconto di Mingus considera l’eccesso, la mancanza e quella che Baker, in un altro punto della sua analisi di Ellison, chiama «la rabbia che deriva dall’essere considerati una merce» come le esperienze fondamentali della vita del soggetto.[3] Questi aspetti emergono in modo significativo nel continuo dialogo che si istituisce tra il testo di Mingus e la metanarrazione della psicanalisi. Charles Mingus è, dopotutto, l’autore di un brano intitolato «All the Things You Could Be by Now If Sigmund Freud’s Wife Was Your Mother»,[4] e non è un caso che questa sia una delle poche composizioni di Mingus che vengono citate in Peggio di un bastardo. Se è vero però che, come il mio saggio vuole suggerire, il testo di Mingus richiede un’attenzione critica del tutto peculiare, d’altra parte ripaga quest’attenzione rivelando un’intricata rete di trattative tra quelle due relazioni, la dominazione e la resistenza, che costituiscono il cuore della tradizione autobiografica afroamericana. I dettagli di tali trattative possono essere ripercorsi a vari livelli, ma la discussione non può che iniziare dalla serie di affiliazioni e disconoscimenti che collega le vicissitudini del soggetto con le pratiche culturali del jazz.

In un certo senso, Peggio di un bastardo occupa un posto del tutto particolare rispetto alla scrittura autobiografica afroamericana tradizionale. Trattandosi di un’autobiografia «jazz», infatti, la narrazione di Mingus non si rifà solo alle storie di schiavitù – in cui Houston Baker vede il locus classicus della narrativa afroamericana – ma anche a una tradizione che ha inizio con l’autobiografia che Mezz Mezzrow scrisse nel 1946, Ecco i blues.[5] Mezzrow, un musicista ebreo di Chicago che oggi è ricordato principalmente per il suo contributo al «Chicago jazz» nei tardi anni Venti e per la sua successiva carriera come spacciatore a New York, considera la sua partecipazione alla cultura eminentemente afroamericana del jazz come una forma di affiliazione e resistenza d’avanguardia. Così spiega a Bernard Wolfe la sua scelta di vita e la sua vocazione, mostrando un entusiasmo quasi eccessivo:

Sapevo che avrei passato tutto il mio tempo, da quel momento in poi, in compagnia di negri. Erano la mia gente. E avrei imparato la loro musica, l’avrei suonata per il resto dei miei giorni. Sarei diventato un musicista, un musicista negro, diffondendo il blues nel mondo come solo i negri sanno fare.[6]

Come Norman Mailer dopo di lui, Mezz Mezzrow adotta quella che Andrew Ross ha descritto come «una forma romantica di razzismo»[7] al fine di collocarsi all’interno di quella che lui stesso considera una tradizione di resistenza bohémienne. In tal senso si può dire che l’intera autobiografia di Mezzrow fa parte di una più ampia tradizione di costruzione e presentazione bohémienne del soggetto; una tradizione che nasce, come ha mostrato Walter Benjamin molto tempo fa, dalla ribellione contro l’operosità e la divisione produttiva del lavoro, e che ha il suo archetipo in Baudelaire e nella figura del flâneur.[8] Ma l’associazione istintiva che Mezzrow opera tra i musicisti afroamericani e la «hipness» del blues, e con il suo stesso desiderio di opporsi ai dettami della cultura borghese, genera una rete di affiliazioni che nel testo di Mingus può sollecitare solo risposte contraddittorie. I problemi posti dall’idea che il jazz sia un’attività culturale tipicamente afroamericana sono ovviamente centrali nel progetto autobiografico di Peggio di un bastardo, ma i concetti stessi di identità, affiliazione e pratica culturale attraversano un percorso molto più tortuoso.

Verso la fine dell’autobiografia, in una lettera indirizzata a Nat Hentoff scritta mentre Mingus è temporaneamente rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Bellevue a New York, Chazz Mingus – come il narratore spesso chiama sé stesso – scrive di aver ascoltato una registrazione di Bartók eseguita da un complesso classico, il Quartetto d’archi Juilliard:

Ascoltare simili artisti mi ricorda la mia meta iniziale, prima che una cosa chiamata «jazz» mi portasse molto lontano dal sentiero, che non so se mai riprenderò. Io sono un buon compositore con grandi possibilità e ho ottenuto un facile successo grazie al jazz ma non si è trattato di un vero successo: nel jazz ci sono troppe cose che possono soffocare un compositore. Mi chiedo se esiste un solo musicista jazz così bravo come questi tizi che ho sentito. È una cosa sbagliata, un vero peccato. […] Ma se gli amanti della musica sapessero quanto talento si spreca nel nome del jazz prenderebbero d’assalto gli uffici di impresari e organizzatori per dirgli che non la vogliono più la merda che gli rifilano! […] Per fare la cosa giusta, Nat, penso che dovrò lasciare il jazz: questa parola lascia spazio a troppe pagliacciate.[9]

Questo rifiuto del jazz va letto come un rifiuto dell’industria culturale che sta dietro al jazz, e che Mingus considera un’istituzione razzista. È lui stesso a confessare al suo psicologo, all’inizio della narrazione, che «i musicisti sono discriminati come qualsiasi stronzo nero per strada», e un’eco di questa idea si ritrova, poco più avanti, nel consiglio che l’amico Buddy Collette dà a Mingus, all’epoca giovane violoncellista dedito alla musica classica: «Esatto. Tu sei nero. Puoi essere bravo quanto vuoi, ma non ce la farai mai nella musica classica. Se vuoi suonare, devi suonare uno strumento da negri. Visto che il violoncello non lo puoi strapazzare, Charlie, ti tocca imparare a strapazzare il basso!» Ma seguire il consiglio di Collette non significa sfuggire alle imposizioni del razzismo che governa l’industria culturale. Anni dopo, per esempio, Mingus è invitato – come parte di un trio composto da altri due musicisti bianchi – a suonare in una delle prime trasmissioni televisive a colori, ma gli viene comunicato all’ultimo istante che sarà rimpiazzato per l’occasione da un «bassista bianco»: «Non ci volle molto per capirlo. Funzionava così la televisione a quei tempi: gli sponsor si preoccupavano del “mercato del Sud” e le cose “miste” erano tabù». Il jazz viene sempre rappresentato come parte integrante di un’industria culturale razzista, che cerca costantemente di cancellare la presenza afroamericana da una forma di espressione che quella stessa industria culturale riconosce come un prodotto della tradizione afroamericana. Tuttavia, il modo in cui Mingus parla del jazz in Peggio di un bastardo riflette un’ambivalenza di fondo, per cui il jazz è allo stesso tempo un modo per affermarsi e una prigione. Si pensi al passaggio della lettera a Hentoff in cui Mingus critica il jazz perché soffoca la composizione e strangola il talento. Anche se accettiamo che questa caratterizzazione si riferisca alle schiere di banali swing band che andavano di moda negli anni della sua gioventù, o alla seconda generazione di gruppi bop – effettivamente derivativa – che dominava la scena mentre Mingus arrivava alla piena maturità musicale, il punto della questione è che le perplessità di Mingus sul jazz sono legate più che altro alle reazioni contraddittorie che questo suscita nella cultura dominante americana.

In un’intervista con un critico musicale inglese riportata in Peggio di un bastardo, Mingus insiste sull’idea che il jazz sia una forma musicale eminentemente, e forse esclusivamente, afroamericana:

Il jazz appartiene alla tradizione del negro americano, è la sua musica. I bianchi non hanno il diritto di suonarla, è la musica della gente di colore. […] Voi avete avuto i vostri Shakespeare e Marx e Freud ed Einstein e Gesù Cristo e Guy Lombardo, però noi abbiamo tirato fuori il jazz – non ve lo dimenticate! – e tutta la musica pop che esiste oggi al mondo è da lì che viene.[10]

Secondo Mingus il jazz è dunque il principale capitale culturale degli afroamericani, ma è curioso che sembri ottenere questo status soprattutto in virtù della sua capacità di fare proprie le norme della cultura europea da una parte, e di soddisfare le richieste delle avanguardie dissidenti dall’altra. Mingus ripete più di una volta in Peggio di un bastardo che fare jazz è impossibile se non si possiede un’educazione musicale rigorosa e specificamente «europea». Ne è un esempio la reazione del giovane Mingus quando incontra per la prima volta il suo idolo di quegli anni, il bassista Red Callender: «Ehi, durante la pausa si è messo a suonare da solo “Body and Soul”. […] Accidenti, non ho mai sentito nessuno suonarla con il contrabbasso. Usava l’arco come in certi pezzi di Menuhin e Heifetz… in alto sugli armonici come, ecco, nel concerto per violino di Bartók […]».[11] O ancora la conversazione con il sassofonista Lucky Thompson, in cui Mingus dice di Dizzy Gillespie che «sembra tutto preso da Bartók».[12] Questi riferimenti alla tradizione europea e ai musicisti classici sono un segno delle rivendicazioni conflittuali tramite cui di volta in volta Mingus tenta di massimizzare il capitale culturale di quella che nella sua mente è chiaramente una musica afroamericana. Da una parte il jazz dev’essere considerato come una prosecuzione della tradizione europea; dall’altra invece è una musica afroamericana, «popolare», incompresa dalla grande maggioranza dei critici bianchi. Nell’idea di Mingus il jazz rivendica il suo status di capitale culturale attraverso l’improbabile alleanza tra queste due concezioni: un’alleanza che resta possibile fino a che esso viene considerato una forma espressiva avanguardistica, una forma di resistenza culturale. Questo modo di vedere le cose non è, com’è ovvio, indipendente dal modificarsi dei gusti degli intellettuali – in larga maggioranza bianchi – all’epoca della guerra fredda: il jazz diventò in quel periodo un modo per appropriarsi di un’identità avanguardistica e bohémienne che era evidentemente assente nella tradizione, ormai istituzionalizzata, del modernismo «alto» di matrice europea. I critici erano attratti dal jazz anche perché era analizzabile con strumenti a loro già familiari, e perché apprezzandolo davano l’impressione di possedere una consapevolezza progressista che si opponeva alla segregazione e al tempo stesso celebrava uno dei prodotti più significativi della cultura democratica.[13] Ma il Mingus di Peggio di un bastardo vive questa scomoda alleanza di cultura alta europea ed espressione culturale afroamericana come se fosse una rappresentazione delle leggi dell’identità culturale. In questo contesto, la vita «jazz» non assume un nuovo significato in quanto rovesciamento parodistico, né in quanto esperienza del blues come strategia anti-egemonica, ma è piuttosto l’espressione di una profonda ambivalenza rispetto alle affiliazioni della cultura e dell’identità; un tema, questo, che si ritrova in ogni livello del testo di Mingus e che rappresenta in modo acutissimo le difficoltà del soggetto afroamericano.

(Fine prima parte)

© Thomas Carmichael, 1995. Tutti i diritti riservati.

[1] Il termine signifyin(g), nell’accezione data da H.L. Gates, indica una forma retorica tipica della comunità afroamericana, che consiste nell’uso di allusioni, insulti, volgarità e metafore ed è finalizzata a ingannare quei lettori che non fanno parte della comunità stessa. L’act of signifyin(g) è dunque una sorta di comunicazione criptata, che usa i giochi di parole e la natura multiforme del linguaggio per trasmettere informazioni solo a chi si trova in possesso degli adeguati strumenti interpretativi. [n.d.t.]

[2] H.L. Gates, The Signifying Monkey: A Theory of Afro-American Literary Criticism, Oxford University Press, New York 1988.

[3] H. Baker, Blues, Ideology and Afro-American Literature: a Vernacular Theory, University of Chicago Press, Chicago 1984.

[4] «Tutto ciò che potresti essere ora se tua madre fosse stata la moglie di Sigmund Freud». [n.d.t.]

[5] M. Mezzrow, Ecco i blues, Mondadori, Milano 1982.

[6] M. Mezzrow, Ecco i blues, cit.

[7] A. Ross, No Respect: Intellectuals and Popular Culture, Routledge, New York 1989.

[8] W. Benjamin, Charles Baudelaire: un poeta lirico nell’era del capitalismo avanzato, Neri Pozza, Vicenza 2012.

[9] C. Mingus, Peggio di un bastardo, SUR, Roma 2015, p. 319.

[10] C. Mingus, Peggio di un bastardo, cit., pp. 330-31.

[11] Ivi, p. 76.

[12] Ivi, p. 152.

[13] Vedi A. Ross, No Respect…, cit., pp. 80-83.

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