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Il passato di Alan Pauls, un estratto

Alan Pauls Autori, SUR

I libri di novembre sono da poco in libreria. Pubblichiamo oggi un assaggio del Passato di Alan Pauls.
Buona lettura!

di Alan Pauls
traduzione di Tiziana Gibilisco

Rímini era sotto la doccia quando suonò il citofono. Uscì coprendosi con un asciugamano – l’unico che aveva trovato in quell’emporio di profumi, cuffie per la doccia, creme, sali da bagno, oli per il corpo, medicine e massaggiatori elettrici in cui Vera aveva trasformato il bagno – e una scia di gocce ubbidienti lo seguì fino in cucina. «Posta», riuscì a sentire tra un ruggito di camion e l’altro. Rímini disse al postino di infilargli la lettera sotto la porta e all’improvviso, come se l’ombra di un estraneo lo avesse sorpreso in una stanza che lui credeva vuota, si vide nudo e tremante nel vetro di una porta che un colpo di vento aveva appena spalancato. L’autentico ritratto della contrarietà: banale, efficace, troppo calcolato. Le volute di vapore che uscivano fluttuando dal bagno – aveva lasciato la doccia aperta nell’illusione che così l’interruzione si sarebbe ridotta al minimo – gli provocarono una specie di nausea. «C’è da firmare», gridò la voce dal citofono. Sbuffando, Rímini pigiò il tasto, aprì, e contemplò impavido il quadro della sua felicità che si andava sgretolando.

La mattina a casa, la gioia di quel raggio di sole che gli aveva accarezzato il viso mentre faceva la doccia, quel nuovo senso di libertà – come nel primo giorno di un viaggio – che lo invadeva quando si svegliava e si accorgeva di essere solo e i suoi primi gesti, impacciati e giovani, facevano vibrare il silenzio di tutta una notte, l’animosità vitale e un po’ ingenua che solitamente lo invadeva dopo le lunghe notti d’amore con Vera – ora tutto andava a pezzi. Ma forse… Rímini coprì il ricevitore con il palmo della mano e rimase immobile per qualche secondo, leggermente curvo sul piano di lavoro della cucina, come per rendersi invisibile. Ma il citofono suonò ancora e quasi senza rumore, come in un film muto, anche gli ultimi frammenti della sua euforia mattutina andarono a pezzi. Rímini, che detestava quando il mondo intorno a lui riproduceva le sue intime contrarietà, quella volta non si sentì plagiato. Era in pericolo. Ormai non era vittima di una glossa, ma di un complotto. Però si rassegnò e rispose lo stesso, e mentre si osservava i piedi – piedi giganteschi attorno ai quali si formavano due piccoli oceani umani – si sentì dire ciò che aveva temuto fin dal principio: il portone era chiuso a chiave.

Quando fu al pianterreno, dopo essere sceso a tutta birra per sfuggire a quei tre interminabili piani di scale che malediceva ogni giorno («Perfetto: io odio gli ascensori!», aveva esclamato Vera contemplando la tromba buia delle scale la prima volta che avevano visto l’appartamento), Rímini aprì la porta, si guardò attorno e non vide nessuno. Fu preso da una tale rabbia che pensò di scoppiare. Poteva essere? Davanti a lui passò come al rallentatore un vecchio camioncino carico di braccia abbronzate che straripavano dai finestrini. Si udì un prolungato suono di clacson. «Ehi, bellezza!», gli gridò una voce burlona che si faceva strada fra la moltitudine di braccia. Rímini si guardò ancora i piedi (la ciabatta sinistra al piede destro, la destra al piede sinistro: il tipico arrocco mattutino), l’asciugamano rosa fino a metà coscia come un gladiatore romano, l’impermeabile mezzo bagnato sulle spalle – ma per una qualche ragione fece orecchie da mercante. Era sul punto di rientrare quando lo trattenne una faccia sorridente, spuntata dall’edicola vicina. Era un ragazzo giovane, magro come un fachiro; la sua era una di quelle magrezze fibrose, coperte di vene ben visibili, che il rock ha rubato a Egon Schiele. Ma non era alto, e non indossava nemmeno l’uniforme. «Rémini?», domandò sventolando una busta. Rímini stava per correggerlo, ma preferì tagliare corto: «Dove devo firmare?» Il tizio gli allungò la lettera e un modulo stropicciato con delle caselle rettangolari piene di firme e di numeri di documenti. Rímini aspettò: una penna, una matita, qualcosa. Ma il postino si limitò a guardargli le unghie dei piedi che luccicavano al sole e a produrre, con una cannuccia rosicchiata, strane bollicine sonore sul fondo di una lattina vuota. «Hai da scrivere?», gli chiese Rímini. «Lo sai che non ce l’ho? Che strano, eh?», rispose lui, come se quella semplice manifestazione di sorpresa potesse redimerlo dalla sua stupidità.

Dieci minuti dopo, al colmo della rabbia (Rímini aveva chiesto in prestito una penna al tizio dell’edicola, quello gli aveva detto che poteva solo vendergliela, Rímini – il cui abbigliamento di emergenza non includeva il portafogli – aveva promesso di tornare più tardi con i soldi e aveva chiesto la lettera, il postino-fachiro l’aveva trattenuta a mo’ di ostaggio dicendogli che se la voleva doveva comprare un biglietto della lotteria natalizia, Rímini gli aveva spiegato che era sceso senza soldi, il postino – con una complice strizzata d’occhio al tizio dell’edicola – gli aveva suggerito di usare il credito con cui aveva appena comprato la penna), Rímini si accasciò in una poltrona e guardò per la prima volta la lettera. Provò un’indescrivibile sensazione di sollievo, quasi quella piccola busta rettangolare, ora in primo piano, fosse l’unico talismano in grado di esorcizzare una mattinata da incubo.

La forma della busta non lo incuriosì quanto la qualità della carta – satinata, pregiata come la seta – e il colore, un celeste pallido che forse, tempo prima, quando la busta era stata acquistata, era lavanda. Quasi rispettasse un preciso cerimoniale riservato ai destinatari di corrispondenza démodé, Rímini avvicinò la busta al naso. Il profumo (un misto di benzina, nicotina e gomma da masticare alla fragola o alla ciliegia), più che alla carta e al colore della busta s’intonava alle dita del postino, le cui impronte erano rimaste parzialmente impresse su un margine. Non c’era mittente, e Rímini non ricavò alcun indizio neppure dalla calligrafia. I dati del destinatario erano scritti in stampatello maiuscolo, un carattere troppo impersonale per essere spontaneo (Non l’ha dettato il cuore ma l’astuzia, pensò, improvvisamente catapultato fra le pagine di un romanzo libertino): qualcosa che non si poteva neppure spiegare con una coincidenza o con la scarsa dimestichezza del mittente con la pratica epistolare. A sembrargli strano fu che le sue generalità fossero confinate in un angolo della busta, come se il mittente avesse riservato la maggior parte dello spazio a sua disposizione per qualcosa che poi non era riuscito a esprimere o che alla fine aveva deciso di non scrivere. Là dentro c’era qualcosa, pensò Rímini, e gli balenò l’idea che forse la sua felicità mattutina non era stata distrutta invano. Guardò il timbro della posta, lesse: Londra. Ripetuto tre volte, un viso altezzoso ed emaciato con la parrucca lo fissava dai francobolli. Riuscì a malapena a decifrare la data di spedizione, le cui cifre disegnavano un sottile paio di baffi su uno dei ritratti. Calcolò che aveva impiegato un mese e mezzo ad arrivare. In una frazione di secondo Rímini immaginò le peripezie di quel viaggio tortuoso, rallentato da scioperi, postini ubriachi ed errate consegne. Gli sembrava che un mese e mezzo fosse troppo per una lettera destinata a qualcuno che non è abituato a riceverne.

In realtà, Rímini non sapeva neanche come aprirla. Cercò di strappare uno degli angoli, ma qualcosa opponeva resistenza. Allora lo lacerò con i denti, come un cane inferocito, e quando lo sputò si accorse che con il pezzetto di busta aveva asportato anche una parte del contenuto. Dentro c’era una fotografia a colori: al centro, esposta in una teca, una rosa rossa adagiata su un piccolo piedistallo nero; sotto, con caratteri minuti ma leggibili, una targa bianca diceva: In memoriam Jeremy Riltse, 1917-1995. Rímini fu scosso da una ventata oscura: umidità, polvere, una di quelle alchimie stantie che tutt’a un tratto cominciano a filtrare dalla fessura di una porta. Parte del suo candore svanì. Dopo aver girato la fotografia, Rímini, che immaginava già quello che avrebbe trovato, non era più giovane come dieci secondi prima.

Inchiostro bluastro, calligrafia microscopica, inclinata a destra. E quella vecchia mania di aprire continuamente parentesi. Lesse: A Londra (come sei anni fa), ma ora la finestra dell’appartamento (affittato da una cinese con una benda sull’occhio) si affaccia su un giardino senza fiori dove dei cani (credo sempre gli stessi) tutte le notti sventrano i sacchi della spazzatura e si azzuffano per qualche misero osso. (Dovresti vedere lo spettacolo che trovo quando mi alzo al mattino.) Due notti fa sono stata svegliata da un sogno lungo e dolce: non ricordo molto, ma c’eri tu, come sempre in ansia per qualcosa che non aveva la minima importanza. Proprio nel momento in cui sognavo (l’ho saputo dopo) J.R. si toglieva la vita. Le cose succedono, succedono per vocazione, senza bisogno d’incoraggiamenti. Fa’ ciò che vuoi di questa fotografia. (Sono cambiata, Rímini, così cambiata che non mi riconosceresti neppure.) Questa carta sembra fatta apposta per te: tutto quello che ci scrivi si può cancellare con un dito, senza che ne resti traccia. Può darsi perfino che quando riceverai questa lettera le parole che ho scritto saranno già sparite. Ma J.R. e la fotografia non hanno colpa di niente. Se tu fossi stato al mio posto (e c’eri: stando al mio sogno c’eri) l’avresti scattata anche tu. L’unica differenza è che io ho il coraggio di spedirtela. Spero che la piccola Vera non sarà gelosa di un povero pittore morto. Spero che tu riesca a essere felice. S. 

Rímini tornò alla fotografia e riprese a osservarla. Riconobbe il museo e poi, sulla destra, non illuminato dal flash, l’ombra di un quadro di Riltse che prima non aveva notato. Ora la teca sembrava come offuscata da una sovrimpressione. Guardò la foto più da vicino e vide, riflessi sul cristallo che proteggeva la rosa, il lampo bianco, la piccola macchina autofocus e infine, abbagliante come una corona di luce, la grande aureola bionda formata dalla chioma di Sofía.

© Alan Pauls, 2003. Tutti i diritti riservati.

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